10 dicembre 2013

AMAZON: TEMPI MODERNI...








Pubblichiamo un articolo di Cesare Buquicchio uscito sull’Unità.

 Cesare Buquicchio - Lavoratori ingranaggi 

In Amazon, com’è tradizione in America, si pensa ai lavoratori. Vengono organizzate delle tombole. In occasione della Festa della Musica, hanno pagato uno spuntino, hanno invitato dei gruppi e un piccolo circo. In Amazon sono veramente simpatici. Per Pasqua, hanno organizzato una caccia alle uova nel parcheggio. Ogni dipendente ha ricevuto una gallina di cioccolato…

Jean-Baptiste Malet ora indossa un giubbotto di pelle nera e una camicia color azzurro scuro. Qualche mese fa, invece, la sua divisa di ordinanza era un pile grigio con la scritta ricamata “Amazon” incorniciata dalla freccia che compone un sorriso. Si infervora il giovane giornalista francese di Le Monde Diplomatique raccontando i suoi tre mesi sotto mentite spoglie. Assunto durante il periodo natalizio come picker in un deposito logistico del colosso americano fondato da Jeff Bezos leader nella vendita on line di libri, articoli di elettronica e quant’altro. «Volevo fare un’inchiesta sulle condizioni di lavoro dentro Amazon. Ebbene, sono dure e stressanti come racconto nel mio libro. Ma sono perfettamente consapevole di come possano essere simili a quelle di tanti lavoratori in fabbriche tecnologicamente avanzate o in altri settori della logistica. Con mia stessa sorpresa, però, dalla mia esperienza è emerso altro. Ritengo di aver vissuto e lavorato per tre mesi in un avamposto dell’organizzazione sociale del XXI secolo».
Scorrendo le pagine di “En Amazonie – Un infiltrato nel migliore dei mondi” (Kogoi Edizioni), il libro-reportage di Malet presentato per la prima volta in Italia venerdì pomeriggio alla Fiera nazionale della piccola e media editoria di Roma, la megamacchina emerge lentamente nella sua inesorabilità. Perché i ritmi di lavoro massacranti (120/130 articoli prelevati ogni ora), le pause pranzo “nette” di sei minuti, le perquisizioni personali ad ogni ingresso e uscita dal lavoro, la musica hard-rock per far aumentare la produttività, i preavvisi scritti di licenziamento se nemmeno la musica hard-rock ha fatto aumentare quella produttività, il freddo tenuto costante nei capannoni per tenere ‘reattivi’ i dipendenti, gli oltre venti chilometri percorsi in ogni turno, tutto questo e tutto il resto di quello che Malet ha provato sulla sua pelle, come migliaia di lavoratori in tutto il mondo, e ha poi raccontato nel suo libro, non basta a sciogliere il nodo nel quale siamo stretti, non basta a far scorgere la megamacchina.
Il nodo si riassume brutalmente così: il lavoro da una parte, la crisi dall’altra; mille e duecento euro nette al mese da una parte, nulla dall’altra; i circa mille assunti (in ogni impianto) con contratto a tempo indeterminato da una parte, nulla dall’altra. «In Germania ho conosciuto una donna di 53 anni, rimasta vedova e con i figli a cui badare. La pensione del marito non le bastava e quando ha avuto l’opportunità di lavorare da Amazon non se l’è lasciata scappare. Ma era durissima per lei resistere a quei ritmi, mettersi in competizione con ventenni scattanti che correvano da uno scaffale all’altro. Io – spiega Malet – non voglio che la gente rifiuti il lavoro di Amazon. Quello che spero è che si lotti con i sindacati e con le istituzioni per rendere quel lavoro più sostenibile e giusto».
Nel libro si racconta di «Fabien, assunto con contratto a tempo indeterminato. “Quando lavoravo nei cantieri, non potevo fare progetti, non potevo accontentare i miei figli, erano sempre lavori interinali, piccoli incarichi. Con questo lavoro a tempo indeterminato, ho potuto fare il mutuo per un appartamento” aggiunge modestamente. “Non critico la CGT (il sindacato ndr). Ora abbiamo un comitato aziendale e dei vantaggi che prima non avevamo. Ma, allo stesso tempo, non dimentico che mi pagano lo stipendio alla fine del mese».
Secondo Malet la megamacchina tratteggiata dall’economista e filosofo Serge Latouche molti anni fa come l’intreccio tra ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso si è materializzata nell’organizzazione sociale connaturata in Amazon. Il neopaternalismo che discende dal motto dell’azienda stampigliato su ogni magliettina “Work hard, have fun, make history (lavora sodo, divertiti e fai la storia)”, le serate aziendali al bowling, la cioccolata calda offerta dal clown all’uscita dal lavoro, l’entusiasmo forzato, le grida di gioia e gli applausi con cui viene accolto ogni nuovo assunto, i record di produttività da superare ogni giorno, la difficoltà che hanno tutti i dipendenti a mantenere una vita sociale al di fuori dello stabilimento, tutto converge verso una concezione ideologica del lavoro che riduce progressivamente ma inesorabilmente la dignità del lavoratore.
«È questa la grande novità – conclude Malet -. Non si tratta più di vendita di libri on line, del profitto di Amazon o dei milioni di tasse evase in Europa passando per Lussemburgo e per altri stratagemmi fiscali. Si tratta di un nuovo modello di società che si presenta come severa ma inevitabile, contraddittoria ma, in fondo, divertente». Non sappiamo se il pessimismo di Malet sia stato scalfito dal sapere che il suo libro è molto venduto soprattutto su Amazon. Lui sorride amaro: «Mossa astuta la loro… A me basta sapere che diversi clienti del sito hanno letto il mio libro e subito dopo mi hanno scritto “il suo è stato l’ultimo libro che ho comprato su Amazon, ho deciso che da oggi tornerò a fare acquisti nella mia libreria di quartiere”».


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