10 gennaio 2015

UN NUOVO MARCO POLO



Chi era davvero il mercante veneziano. Una originale rilettura del personaggio e dell'epoca in un libro di Marina Montesano.
Franco Cardini

Il mercante veneziano è un rompicapo storico
Della vita di Marco Polo, il grande viag­gia­tore vene­ziano, sap­piamo poco e a meno di un qual­che mira­co­loso ritro­va­mento docu­men­ta­rio (e sono mira­coli che pur suc­ce­dono, quando si fre­quen­tano gli archivi) con­ti­nue­remo a saperne poco. Al riguardo, ci restano sì e no una decina di carte sicure, tra cui un testa­mento e una lista di beni che include alcune cose por­tate dall’Oriente. Al con­tra­rio sap­piamo, o ci sem­bra di sapere, mol­tis­sime cose della sua opera, quella che gli ita­liani cono­scono col gene­rico, insi­curo e con­ven­zio­nale titolo Il Milione e che pare sia uno dei libri più letti al mondo.

Non è una bio­gra­fia

Stretta in que­sto para­dosso – un autore semi­gnoto, un’opera arci­nota -, la «que­stione poliana» è ormai da molti decenni una fac­cenda intri­ca­tis­sima che nulla ha da invi­diare in com­ples­sità alla «que­stione ome­rica» e che ha fatto ver­sare i rituali fiumi d’inchiostro e riem­pito i non meno rituali chi­lo­me­tri di scaf­fali. Ora, non vogliamo certo soste­nere che il Marco Polo di Marina Mon­te­sano (Salerno Edi­zioni, 2014, pp. 333, euro 22) sia pro­prio la spada di Ales­san­dro in grado di reci­dere que­sta spe­cie di «nodo di Gor­dio» della nostra let­te­ra­tura medie­vale e di tutta la filo­lo­gia con­tem­po­ra­nea: ma certo ci va vicino.
A onta del titolo, non è una bio­gra­fia del mer­cante e viag­gia­tore vene­ziano, per quanto gli ingre­dienti bio­gra­fici vi siano tutti. E non è nem­meno un’esposizione e/o una «rivi­si­ta­zione cri­tica» della sua opera, tan­to ­più che uno dei punti più affa­sci­nanti e diver­tenti di que­sto libro è pro­prio la deco­stru­zione di quello che impro­pria­mente si con­si­dera il suo titolo, e dell’identità del suo autore, o magari dei suoi coau­tori. E, badate, siamo dinanzi a tutt’altro che a un testo ine­si­stente o fit­ti­zio: al con­tra­rio, siamo dinanzi a un libro che esi­ste fin troppo; magari fino a pre­sen­tarsi come ben più di uno. Anzi, qui sta la chiave del puzzle.
Marina Mon­te­sano, docente nell’Università di Mes­sina e in quella del San Raf­faele di Milano, è una medie­vi­sta con una buona for­ma­zione di sto­rica attenta alle que­stioni sia filo­lo­gi­che sia antro­po­lo­gi­che, è ben cono­sciuta – oltre che come elze­vi­ri­sta de il mani­fe­sto – anche per i suoi studi sulla cri­stia­niz­za­zione dell’Europa, sulla cul­tura fol­klo­rica medie­vale e sulla stre­go­ne­ria. Allieva di Anthony Molho alla Brown Uni­ver­sity del Rhode Island, ha al suo attivo una densa ricerca storico-antropologica sulla novel­li­stica tre­cen­te­sca toscana: e già que­sto la pre­di­spo­neva da tempo all’incontro con l’opera poliana, o quanto meno con le sue ver­sioni appunto in vol­gare toscano.
Insomma, sem­brava la can­di­data ideale per scri­vere una vita di Marco Polo da inse­rire nella pre­sti­giosa col­lana «Pro­fili» a suo tempo fon­data da Luigi Firpo e diretta adesso da Giu­seppe Galasso, Andrea Giar­dina e Ghe­rardo Ortalli. Una codi­re­zione di tre stu­diosi tanto illu­stri, ma anche così diversi tra loro per indi­rizzi scien­ti­fici, era fatta appo­sta – e va detto – per acco­gliere una mono­gra­fia come que­sta, ch’è tutto meno che histo­ri­cally cor­rect.
Per­ché, in realtà, Mon­te­sano sem­bra dimo­strare che: primo, una bio­gra­fia di Marco Polo, poche e nem­meno sem­pre rile­vanti noti­zie docu­men­ta­ri­sti­ca­mente «sicure» a parte, non esi­ste se non rica­va­bile in fili­grana dalla sua opera; secondo, non è affatto certo che pure quest’opera esi­sta, o meglio che sia sul serio «sua» (anche se, alla fine, si sco­pre che l’autrice sostiene — fie­ra­mente — appunto la pater­nità poliana di qual­cosa che invero esi­ste eccome).

Un puzzle di fonti

Pro­viamo a spie­garci meglio. L’assunto di par­tenza di que­sta ricerca è un totale rove­scia­mento del canone sta­bi­lito fino dal 1954 da Arse­nio Fru­goni nel suo fon­da­men­tale Arnaldo da Bre­scia nelle fonti del secolo XII. Appre­stan­dosi a una bio­gra­fia del noto ma enig­ma­tico rifor­ma­tore dell’età del Bar­ba­rossa, Fru­goni insi­steva con argo­menti del tutto con­vin­centi e insu­pe­rati sul fatto che la vita di qual­cuno è irri­co­strui­bile attra­verso il pat­ch­work delle fonti che lo riguar­dano, come invece si fa troppo spesso. Veris­simo, senon­ché, obietta in modo del tutto con­vin­cente Marina Mon­te­sano, «il caso del Milione sem­bra più atti­nante all’apologo dei tre anelli: nes­suno sa qual è il vero, ma pro­ba­bil­mente c’è una parte di verità in ognuno di essi. Giu­stap­porli sarebbe errato, ma sfrut­tarne le varianti è essen­ziale, in assenza di un testo poliano auto­grafo, per rico­struire la ric­chezza della fonte».
Difatti, non solo non sap­piamo se dav­vero e fino a che punto alla ste­sura del libro con­tri­buì un roman­ziere pisano com­pa­gno di pri­gio­nia di Marco a Genova, Rusti­chello; ma igno­riamo anche in quale idioma o miscu­glio di idiomi si svolse la det­ta­tura del testo da parte di que­gli a que­sti, o se si trattò piut­to­sto di un dialogo-collaborazione tra i due. L’autografo rusti­chel­liano non esi­ste; sap­piamo che esso fu redatto in fran­coi­ta­liano, ma noi ne abbiamo altresì testi in fran­cese d’oil, in vene­ziano, in toscano e in altri vol­gari; non­ché almeno due ver­sioni latine che paiono molto impor­tanti.

Bestiari fan­ta­stici

L’autrice, gio­cando sapien­te­mente e abil­mente tra que­ste varianti sul rispet­tivo valore delle quali siamo incerti, ci pro­pone alla fine una sapiente, ric­chis­sima deco­stru­zione testuale che approda auer­ba­chia­na­mente a una pro­po­sta d’ipotetica rico­stru­zione iper­te­stuale. Eric Auer­bach ci ha difatti inse­gnato che all’unicità di un testo – e in que­sto caso l’Urtext ci è ignoto e pos­siamo con­si­de­rarlo irre­cu­pe­ra­bile – può cor­ri­spon­dere una plu­ra­lità di opere, in que­sto caso le sin­gole versioni.
Con que­ste pre­messe, l’originale rilet­tura dell’opera poliana è let­te­ral­mente inde­scri­vi­bile, nel senso eti­mo­lo­gico del ter­mine. Que­sto bel­lis­simo libro va letto tutto, da cima a fondo. Dall’attento, ric­chis­simo pano­rama di un macro­con­ti­nente eura­sia­tico medie­vale con­teso tra nomadi e seden­tari al mosaico etno­re­li­gioso dell’impero mon­golo fino all’indagine appro­fon­dita sulle cul­ture scia­ma­ni­che con scon­vol­genti sco­perte, come il signi­fi­cato recon­dito dei sui­cidi rituali e del rito del «matri­mo­nio fra gio­vani morti».
E ancora i costumi ses­suali – su cui Marco insi­ste con un’attenzione degna di un Paolo Man­te­gazza -, le fon­tane di fuoco, le leg­gende del «Prete Gianni» e del «Veglio della Mon­ta­gna», il bestia­rio rea­li­stico (con la demi­tiz­za­zione dello splen­dido uni­corno che diventa un brutto e grosso rino­ce­ronte) che con­tiene pagine ina­spet­tate, come una cac­cia alla balena da far con­cor­renza a Her­man Mel­ville e descri­zioni veri­di­che sì, ma da far invi­dia ai bestiari fan­ta­stici (anda­tevi a sco­prire che cosa sono i «papioni» e i «gatti-pauli»); e poi la fasci­na­zione per le città di una Cina già allora popo­la­tis­sima e ricca, per l’India dei misteri e della magia, per un’economia tanto più «moderna» (e non sem­pre in modo posi­tivo: si vedano le osser­va­zioni a pro­po­sito della carta mon­tea) rispetto a quella occi­den­tale.
Insomma, una ricerca rigo­ro­sa­mente scien­ti­fica, un appa­rato eru­dito da far paura (ma, tran­quil­liz­za­tevi, rele­gato in note a fine volume) e una let­tura affa­sci­nante e diver­tente. Una volta tanto, dicia­molo: un bel libro.

Il Manifesto – 3 dicembre 2014

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