04 febbraio 2015

I LABIRINTI DI BORGES

   Alberto Manguel


Le mie notti con Borges nei labirinti dei libri
di Alberto Manguel


L’ultima volta che ho visto Borges è stato a Parigi, nel piccolo hotel di Rue des Beaux Arts in cui ora ci sono le targhe con i nomi dei suoi due ospiti più illustri, Oscar Wilde e Jorge Luis Borges.

Negli ultimi anni della sua vita era diventato nomade e adorava parlare dei luoghi che aveva frequentato di recente: l’Egitto, da cui si era portato via un pugno di sabbia dorata; l’Islanda, dove, fra le rovine di una cappella sassone, aveva recitato il Padrenostro nella lingua dei vichinghi; il Giappone, dove aveva conversato sull’aldilà con un sacerdote scintoista. Gli raccontai che vivevo in Canada e mi parve sorpreso. «Caspita! », mi disse.

«Il Canada è talmente lontano che quasi non esiste». In uno dei suoi versi, Borges si domanda: «Chi ci dirà a chi, in questa casa, senza saperlo, abbiamo detto addio? ». Quella notte non sapevo che stavamo ripetendo la sua domanda, che ci stavamo dicendo addio. L’avevo conosciuto a Buenos Aires, nella libreria Pygmalión. Io avevo sedici anni e lavoravo lì la mattina. Accompagnato da sua madre, Borges era venuto a cercare libri di inglese antico, lingua che si era messo a studiare con un entusiasmo da adolescente.

Un giorno mi propose (come a tanti altri fortunati) di andare a leggerglieli a casa sua; sua madre, che leggeva per lui fin dai primi anni della sua cecità, cominciava a stancarsi facilmente. Accettai, e per diversi mesi divenni uno dei suoi cento felici lettori. O meglio, fui una delle voci delle sue letture, giacché il ruolo di lettore (scegliere i libri, soffermarsi su alcuni passaggi, commentare la lettura) continuava a essere esclusivamente suo.
 

Le letture di Borges erano sempre illuminanti e originali. Davano luce a un testo facendone sfolgorare gli angoli più reconditi, e i suoi commenti erano sempre nuovi, non perché Borges fosse il primo a pronunciarli, ma perché era il primo a segnalare che esistevano tali possibili letture. Le sue scoperte erano a un tempo ovvie e sorprendenti; avremmo dovuto chiamarle riscoperte, in quanto credevo nell’osservazione di Bacone: «Così come Platone immaginò che ogni conoscenza non è altro che ricordo, così Salomone dichiarò che tutto ciò che è nuovo non è altro che oblio».

Ricordo i suoi commenti, ma anche la sua voce, così particolare. Borges parlava con voce pacata, un po’ asmatica, che sapeva usare con grande duttilità. [...] Di quelle notti mi rimane il ricordo di un lettore ideale, generoso, brillante. Le sue osservazioni ora impregnano le letture anche di quanti non lo hanno letto, giacché formano il mondo di tanti altri scrittori, scrittori diversi come Marguerite Yourcenar e Umberto Eco, Italo Calvino e George Steiner, Salman Rushdie e José Saramago. Le sue rivelazioni sono essenziali. Ha saputo definire la ricca ambiguità che giace al fondo di ogni opera d’arte, autorizzando il lettore a godere di un testo e tuttavia a non capirlo del tutto.

«L’imminenza di una rivelazione che non si produce», disse, «è forse il fatto estetico». Osservò che ogni scrittore crea i suoi propri precursori, spiegando così le curiose biblioteche che ogni libro amato crea nella memoria del suo lettore. Conferì a ogni lettore il potere della creazione letteraria, e preferì non tracciare limiti fra chi legge e chi scrive. Fu un uomo modesto, profondamente etico, ammiratore del coraggio epico che sapeva essergli stato negato. Voleva essere Ulisse e gli toccò essere Omero. Con rassegnazione, credeva che il nostro dovere morale fosse essere felici. 
    Adolfo Bioy Casares

Non sono stato, ovviamente, amico di Borges. L’amicizia implica condividere certe intimità e Borges appena sospettava la mia esistenza. Io ero una delle tante voci di lettore, niente di più. Il suo unico amico, il suo amico vero, paziente e costante, fu Adolfo Bioy Casares. La prima volta che li vidi insieme fu nel grande appartamento in cui Bioy e Silvina Ocampo abitavano, vicino al cimitero di La Recoleta, a Buenos Aires.

Quella sera, ero andato a trovare Silvina, a cui avevo chiesto un testo per un’antologia per la casa editrice Galerna. Stavamo parlando in salone (Silvina faceva domande intime a cui io non sapevo come rispondere) quando a un tratto sentimmo due uomini ridere a crepapelle in una delle stanze in fondo. «Quei due si divertono come due ragazzacci», commentò Silvina. Quando comparvero, sorridevano ancora. Il sorriso di Borges era il più contagioso, forse perché il più visibile.

Quando rideva, apriva la bocca, chiudeva gli occhi, e il volto gli si contraeva come se cercasse di trattenere qualcosa sul punto di esplodere. Il sorriso di Bioy era più discreto, forse perché era più giovane, più riservato. «Fanno sempre così quando scrivono insieme», mi spiegò Silvina. «Invece io, se qualcosa che scrivo mi fa ridere, devo ridere da sola».
      Victoria Ocampo

È risaputo che Bioy e Borges si conobbero grazie a Victoria Ocampo. La madre di Bioy, amica di Victoria, un giorno le confessò di essere preoccupata per le velleità letterarie di suo figlio adolescente, e voleva sapere se Victoria conoscesse qualcuno, con una certa esperienza nel mondo delle lettere, che potesse guidarlo. Senza esitazioni, Victoria nominò Borges.

Adolfito, come lo chiamavano allora, aveva diciassette anni; Borges, trentadue. La loro prima conversazione, da quanto ricorda lo stesso Bioy, avvenne durante il tragitto di ritorno dalla casa di Victoria. Con la goffaggine di un giovane scrittore di fronte a un altro già consacrato, Bioy si era lanciato in un “elogio della prosa sbiadita di un poetastro che curava la pagina letteraria di un quotidiano porteño ”.«D’accordo», aveva risposto Borges, «ma a parte quel tipo, chi altro ammira, di questo secolo o di qualsiasi altro?».

«Gabriel Miró, Azorín, James Joyce», fu l’impossibile risposta. Borges, con la generosità di cui a volte era capace, osservò che «i giovani trovano letteratura in quantità sufficiente solo negli scrittori che si lasciano completamente avvolgere dall’incanto della parola». Questo fu l’inizio di un’amicizia che durò quasi fino alla morte di Borges, nel 1986. A vederli insieme, quei due uomini erano così straordinariamente diversi che risultava difficile capire cosa li unisse, se non una passione comune per la letteratura, che forse era già sufficiente.

Bioy era un uomo estremamente attraente. Curava il proprio aspetto, vestiva bene, si preoccupava per la sua salute. Seduceva le donne ma raramente si lasciava sedurre (queste non sono rivelazioni indiscrete ma emergono da ciò che lo stesso Bioy aveva scritto nei suoi diari). Aveva molti amici. Praticava sport ed era appassionato di fotografia. Era ricco. Gli piacevano la letteratura francese del diciannovesimo secolo, i romanzi erotici, la pettegola corrispondenza letteraria, la poesia lirica più di quella epica, le narrazioni popolari più delle storie di guerra. In generale, era un uomo felice.

Borges non pareva avere un corpo solido: dargli la mano era come stringere l’aria. Anche se sua madre o la governante, Fani, si davano da fare affinché avesse la camicia ben stirata e il fazzoletto, profumato di colonia, nel taschino della giacca, a Borges bastava soltanto sentirsi in ordine, non gli importava l’eleganza. Era poco socievole. Gli piaceva nuotare (in una poesia si rivolge all’acqua come «il tuo nuotatore, il tuo amico ») e chiacchierare camminando, non entrare in competizione. Era povero.

Ammirava la letteratura anglosassone più di quella francese e il romanzo fantastico più di quello realista. Il suo genere preferito era l’epica. Ammetteva di essere sentimentale e amava i film che lo facevano piangere. Si innamorava con una frequenza spaventosa. In generale, era un uomo infelice. [...]

Ci sono scrittori che vanno oltre la geografia della propria terra e dei propri libri, che offrono al lettore non solo nuovi paesaggi o mondi antichi, ma che propongono vette segrete dalle quali poter scoprire sorprendenti sentieri e ignote costellazioni. Attraverso la sua letteratura, il lettore può così intuire e nominare (anche se non comprendere) il quasi infinito catalogo dell’esperienza intellettuale umana; non per mezzo di favole o di morali, bensì per mezzo di un nuovo senso, di una nuova intelligenza, di una nuova perspicacia. Borges (ora lo sappiamo) è stato uno di questi rari e immensi scrittori.


La Repubblica – 3 febbraio 2015

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