04 febbraio 2015

L' INVENZIONE DELLA MADRE



È in libreria per minimum fax L’invenzione della madre, il romanzo d’esordio di Marco PeanoCome raccontare la malattia e la perdita di un genitore? Pubblichiamo un’intervista di Nicola Lagioia a Marco Peano e vi segnaliamo l’incontro di domani, giovedì 5 febbraio, alle 19.30 alla libreria Giufà di Roma. Con l’autore intervengono Michela Murgia e Nicola Lagioia.


L’invenzione della madre: Nicola Lagioia intervista Marco Peano


Il tuo romanzo si apre con un’epigrafe di Donald Antrim. È una frase molto potente, e anche per certi spaventosa nella sua definitività. Dice che il deterioramento della vita di sua madre ne riassume la storia. E dice anche che questa storia è legata indissolubilmente a quella del figlio. Antrim non arriva a dire in modo esplicito che l’idea stessa di madre contiene quella di figlio senza che a quest’ultimo sia data la possibilità di emanciparsene, ma la sensazione che accarezzi un pensiero simile c’è. Allora, da una parte (questo nel tuo romanzo mi sembra di percepirlo in modo chiaro) tra madre e figlio si consuma il rapporto d’amore più profondo e antico (e forse anche spaventosamente bello) che all’uomo sia dato di provare. Dall’altra mi chiedo se questo non significhi costringere i figli in una gabbia per uscire dalla quale non esiste una chiave. Come se ne esce? È necessario uscirne?
Uno dei motivi per cui ho scritto L’invenzione della madre, oltre alla necessità di doverlo fare, è legato al desiderio di raccontare il rapporto madre-figlio in una situazione estrema come quella della fine vita. In fase di stesura, mi sono accorto che uno dei temi che stavo affrontando – e che innervavano la storia in maniera significativa – era la difficoltà ad accettare il cambiamento. Cosa accade in un nucleo famigliare composto da due genitori e un figlio quando la madre si ammala gravemente? Come si modificano le dinamiche interne? All’inizio della vicenda il mio protagonista ha 26 anni, un’età in cui la cosiddetta vita adulta chiede prepotentemente spazio – se già non si è presa tutto quello disponibile. Eppure Mattia temporeggia, non riesce davvero a crescere perché non vuole: è terrorizzato all’idea di scoprirsi diverso da come si è sempre pensato. Indirizza tutte queste sue nevrosi concentrandosi solo sulla malattia della madre: intuisce che quello che sta succedendo nella sua famiglia è qualcosa che lo segnerà in maniera definitiva. E così facendo (tagliando fuori il rapporto con la fidanzata, ad esempio), rallenta ulteriormente la sua emancipazione e anzi regredisce.
Antrim, in quel capolavoro che è La vita dopo, racconta di una madre difficile, ingombrante, che ha problemi di alcol, e che il figlio nonostante tutto non può impedirsi di amare. La madre di Mattia, invece, è un personaggio decisamente più facile: il «deterioramento» che l’epigrafe vuole richiamare non è tanto quello dell’animo quanto quello fisico causato dalla malattia.
Nel mio romanzo, il cancro della madre – che nelle sue varie forme l’accompagna da dieci anni – è cresciuto mentre Mattia stava fermo, piantato nella sua adolescenza. E in previsione della morte del genitore, il figlio attua numerose strategie per conservarne il ricordo. Sa che in sua assenza se la dovrà inventare, proprio lui che a sua volta dalla madre è stato inventato (la valenza oggettiva e quella soggettiva di questo rapporto sono racchiuse nel titolo). Finché persiste questa condizione, perlomeno nel mio romanzo, al figlio è negato l’accesso alla vita adulta. Però c’è una cosa da dire. La chiave per uscire dalla gabbia di cui parli – che in molti casi non è neppure dorata, ma una gabbia e basta – è sempre a portata di mano. Basta avere il coraggio di afferrarla.
Raccontare la malattia significa oggi raccontare l’indicibile. La stessa parola «cancro», o «tumore», sembra circondata di un potere malefico pronto a attivarsi per il fatto stesso di essere pronunciata o letta. Morte in battaglia, omicidio, suicidio, decesso accidentale – la letteratura si occupa da sempre della nostra finitudine. Eppure il racconto della malattia resta un tabù. Per leggere La morte di Ivan Il’ičdobbiamo aspettare la fine dell’Ottocento. Come te lo spieghi?
Ma non solo nella letteratura, quella che descrivi è un’attitudine riscontrabile nella vita di ogni giorno. La parola «cancro» è, per eccellenza, quella più spesso aggirata, evitata, omessa quando si parla di malattie gravi. Le si preferiscono perifrasi più o meno fantasiose: «male incurabile», «male che non perdona» e «brutto male» sono le più ricorrenti. Quella che è stata chiamata erroneamente «malattia del secolo» (espressione associata di volta in volta, nel corso dei secoli appunto, a patologie o disturbi clinici di varia natura) è qualcosa con cui l’umanità, invece, ha a che fare da sempre.
Un libro che per me è stato fondamentale durante la stesura del mio romanzo è L’imperatore del male, di Siddhartha Mukherjee, un oncologo che ha raccolto in questo saggio davvero voluminoso (l’edizione italiana, pubblicata da Neri Pozza, supera le 700 pagine – ma sembra che la prima bozza originale fosse addirittura lunga più del doppio) le riflessioni sull’evoluzione della malattia a partire dai suoi pazienti fino a risalire all’epoca dell’antico Egitto. Risultato: c’era già, casi di tumori alla mammella sono attestati fin da allora. È come se il cancro fosse nato con l’uomo. Penso sia questo il motivo per cui la morte per malattia, in passato, è stata così poco raccontata: perché accade da sempre, non è nulla di eccezionale. O meglio, non era considerata nulla di eccezionale: con il progredire delle conquiste mediche e farmacologiche ci siamo voluti convincere che tutto sia curabile.
Le braccia allargate in segno di rassegnazione da parte di chi indossa un camice bianco sono qualcosa che fatichiamo ad accettare: siamo increduli, sembra impossibile non ci sia una cura. Quello che Mukherjee racconta anche, ed è davvero appassionante se non fosse insieme così terribile, sono i modi con cui fin dagli albori la scienza ha tentato di sconfiggere il cancro.
Quali sono state le difficoltà – proprio dal punto di vista linguistico, quali parole utilizzare o ribattezzare – nella costruzione de L’invenzione della madreUno dei termini con cui nel tuo romanzo si entra in “consonanza” con la malattia, è per esempio «guerra».
L’immaginario bellico è strettamente connesso a quello legato al cancro, e alla malattia in generale: quante volte abbiamo sentito frasi come «vincere la battaglia contro i tumori», «aggredire le cellule malate», «debellare», «espugnare», «distruggere», «annientare»… Mi sono interrogato a lungo su queste espressioni che anch’io spesso ho usato, e mi sono accorto che lo facevo senza riflettere che sempre di corpo si stava parlando. E allora mi sono domandato: ma come si fa a odiare la malattia di una persona che amiamo? Non dovremmo amare anch’essa, in quanto parte integrante del qualcuno a cui vogliamo bene?
È un cortocircuito che dà i brividi, ne sono consapevole. Ma è anche un modo, io credo, per essere meno miopi: «la malattia è una cosa che hai, non una cosa che sei», ha scritto David Foster Wallace in uno splendido racconto intitolato Solomon Silverfish (un concetto che hanno espresso in molti, ma la sua sintesi mi sembra la più convincente). E mi sembra che questo possa essere uno slogan – non consolante, ma intelligente – per chi è malato o per chi sta accanto a una persona malata.
Mattia, il protagonista del romanzo (il punto di vista da cui osserviamo il mondo, nonostante l’uso della terza persona), mette in atto tutta una serie di rituali attraverso i quali contenere la malattia della madre, o prepararsi a affrontare il lutto. Quale importanza ha in queste situazioni la ritualità, una ritualità senza Dio considerando che il romanzo è totalmente calato nel mondo laico del XXI secolo?
L’invenzione della madre nasce da un’esperienza autobiografica che poi, nel corso di una prima stesura durata molti anni, ho rielaborato narrativamente. Fin da subito ho scelto la terza persona perché avevo la necessità di porre una distanza fra me e la materia che andavo affrontando, ancora troppo incandescente. Senza dubbio la ritualità può essere un appiglio importante, per me lo è stato – e non sto parlando della ritualità della scrittura, non credo nell’atto dello scrivere romanzi a fini terapeutici. Volevo che il mio personaggio (un irrisolto, che sembra aver trovato nella malattia della madre la scusa perfetta per la sua indolenza) si scontrasse con l’evento più irrevocabile dell’esistenza umana, e cioè la sua fine.
Mattia è letteralmente ossessionato dall’esaurirsi delle cose, e non riesce ad accettare che tutto ciò che ha a che fare con la vita debba avere un termine. Per questo si inventa soluzioni per procrastinare la fine in ogni sua forma, a costo di sfiorare il ridicolo. E per questo è destinato a essere un perdente, a meno che il suo percorso non gli permetta di cambiare prospettiva sulla realtà. Se l’unico dio al quale ti puoi appellare quando non hai una fede, ovvero quello della medicina, ti dice che quella persona non si salverà, non ti resta altro da fare che costruirtela da solo, la tua religione.
È allora che ogni più piccolo gesto si carica di un significato enorme.
Certo. Per esempio: sai che quella che stai vivendo con un tuo caro è l’ultima estate che potrete condividere, e allora durante quel periodo ti metti a cercare (trovandole) un numero potenzialmente infinito di occasioni per compiere esperienze uniche, che difficilmente scorderai. Ma per quanto ci si possa preparare, il momento inevitabile prima o poi arriva: e spesso non è mai come ce lo si era immaginato. Ogni morte ci ricorda la nostra condizione di esseri mortali, è questa la cosa più devastante.
Frequentando molto gli ospedali, parlando con i malati e i loro famigliari, leggendo libri sull’argomento e raccogliendo in ogni dove testimonianze, mi sono reso conto che – sebbene ci siano delle costanti – ogni lutto è diverso dagli altri. E anche la sua elaborazione è qualcosa che passa attraverso sentieri molto personali, la cui durata non è mai prevedibile; per questo è così difficile aiutare chi soffre. Tutte le separazioni implicano una mancanza di obiettivi, una condizione che è l’anticamera della depressione.
Ovviamente non ho una risposta a quello che la tanatologia sta studiando fin dai suoi esordi (né avrei gli strumenti per argomentare), ma sono d’accordo con Marina Sozzi quando teorizza che l’accettazione della nostra mortalità implichi una maggiore responsabilità personale. Se so che il tempo a mia disposizione non è infinito, so altresì che devo affrettarmi nel porre rimedio – laddove questo sia possibile – agli errori che ho causato.
A proposito di laicità. Una delle cose che mi hanno più impressionato, nella lettura del tuo romanzo, è lo scontro continuo tra mondo del sentimento e mondo della tecnica. Sembra che il secondo aggredisca continuamente il primo. Prendi solo le statistiche. Quando qualcuno si ammala in modo serio, parte subito questa pratica necessaria, eppure agghiacciante, della misurazione: ti dicono che il paziente ha il 60% di possibilità di sopravvivere, il 50%, il 30%, il 10%. Oppure, quando il decorso della malattia diventa irreversibile, le statistiche assumono le forme della calendarizzazione: al paziente manca un anno da vivere, sei mesi, venti settimane. Aggiungici il potere della burocrazia, che è l’altro volto della medicalizzazione. La cosa vertiginosa è che tutto si stringe intorno a ciò che non è quantificabile se vogliamo conservare la nostra umanità: il sentimento che ci lega alle persone amate.
È così. La domanda che gli oncologi si sentono rivolgere più spesso, dopo aver risposto negativamente a «È curabile?» credo sia proprio «Quanto tempo resta?» Questo innesca un conto alla rovescia che getta nel panico, che fa perdere ancora di più la già instabile lucidità propria di quei momenti drammatici. La vita e la morte si tramutano in estremi all’interno dei quali la sopravvivenza assume gli aspetti di una vincita al lotto, di un sorteggio più o meno fortunato. Non riesco a immaginare le difficoltà di un medico di fronte al famigliare di un paziente terminale o peggio ancora al malato stesso: comunicare quella notizia è un compito delicatissimo. Nel mio romanzo a un certo punto il protagonista se la prende con Elisabeth Kübler Ross, la psichiatra che negli anni Settanta ha formulato il cosiddetto «modello a cinque fasi»: uno schema – ormai considerato superato – che è stato a lungo utilizzato per mappare, fra le altre cose, gli stati d’animo che accompagnano l’elaborazione del lutto. Ma quando inizia esattamente il lutto?
Diamo per scontato che avvenga dopo la morte di una persona cara, anche se spesso – soprattutto nel caso di lunghe malattie – si è già a lutto prima che quella persona muoia. Ignoro se sia un modo per «prepararsi», e ignoro se sia efficace. Quello che so, anche qui per esperienza personale e testimonianze raccolte, è che la terza fase del modello Kübler Ross – quella del «patteggiamento» – trova terreno fertile nel mondo delle statistiche e delle percentuali. A un certo punto sei pronto ad accettare che, purché continui a vivere, la persona che ami perda tutto ciò per cui la ami: ti fai andare bene la progressiva disgregazione dell’individuo – l’autonomia, la capacità cognitiva – senza renderti conto di quanto questo ragionamento possa (ripeto: possa) suonare egoista. Ma l’accanimento terapeutico è solo uno degli aspetti che complicano la questione, c’è appunto anche la burocrazia, che spesso rischia di coincidere con l’umiliazione.
La burocrazia è terribile.
Documenti d’identità da esibire in farmacia per l’acquisto di oppiacei, moduli da compilare e impiegati con cui confrontarsi quotidianamente per ottenere le assistenze sanitarie a domicilio, sfinenti discussioni con le ASL per garantire ai malati la famigerata «qualità della vita»… Non fraintendermi, non sto dicendo che tutto questo sia sbagliato – dico soltanto che ogni istante trascorso durante una fila allo sportello (sia che tu sia il malato o un famigliare) è un istante sottratto alla vita.
Nonostante ciò che negli ultimi anni dicono spesso i medici a proposito dell’approccio ai pazienti e ai loro parenti (penso ai discorsi di Umberto Veronesi sull’empatia), leggendo L’invenzione della madrenon mi sembra che tra oncologi, chirurghi e infermieri ci sia tutta questa propensione a rompere il guscio della nuda professionalità per mettere l’elemento emotivo e umano al centro del discorso.
Forse perché vogliamo essere rassicurati, a ogni costo. Vogliamo che i medici ci dicano che non dobbiamo preoccuparci di nulla, che andrà tutto bene, chiediamo loro di sbilanciarsi – salvo poi aggredirli quando le cose, nonostante i tentativi fatti, vanno diversamente da come loro avevano previsto. Quello che racconto nel romanzo (restando sempre nel campo della medicina tradizionale, l’unico che mi interessava affrontare) è proprio questo: l’atteggiamento isterico di chi pretende una risposta positiva perché non ne ammette nessun’altra. La circospezione con cui i famigliari del malato terminale cominciano a dubitare dei protocolli sanitari, la nevrosi che ti porta a interpretare ogni silenzio da parte dei medici, ogni alzata di sopracciglio, come un’informazione taciuta a tuo discapito.
In questo caso il rammendo (cercare informazioni in Rete) rischia di essere peggiore dello strappo.
Internet trabocca di presunti esperti di questo e quel malanno, lo sappiamo e ne diffidiamo, sebbene sui forum che trattano la salute abbondino gli utenti che vorrebbero avere una diagnosi semplicemente elencando i propri sintomi. Tutti noi, anche se siamo consapevoli di quanto sia profondamente sbagliato, andiamo a cercare in rete quale significato può avere quel disturbo fisico che da un po’ di tempo ci infastidisce: questo comportamento raggiunge vette di follia quando si tratta di indagare qualcosa che va al di là della cattiva digestione o del mal di denti. L’elemento emotivo di cui parli è qualcosa che chi esercita in modo serio la professione maneggia con molta cautela, spesso affidando a figure terze questa incombenza.
Mi riferisco ad esempio alle cure palliative, che possono offrire non soltanto un aiuto pratico ai malati e ai loro famigliari, ma anche un supporto psicologico. Anche se se ne parla poco, esistono gli hospice: apposite strutture dove l’aspetto umano è sempre al centro del discorso. Spesso, soprattutto quando la situazione è critica, fare affidamento esclusivamente alle proprie forze purtroppo non basta. Per fortuna esiste la letteratura.

Pezzo tratto da  http://www.minimaetmoralia.it/

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