06 marzo 2015

70 ANNI DOPO CARLO LEVI

Lucania  di Carlo Levi

Riprendiamo da   http://www.minimaetmoralia.it/ l'articolo seguente:

Settant’anni dopo Carlo Levi, fermarsi a Eboli oggi


EBOLI (Salerno) «Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania». In piazza Carlo Levi, queste prime righe di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi sono scolpite sul piedistallo del busto di Carlo Levi, eseguito da studenti e insegnanti del liceo artistico Carlo Levi. In calce: La città di Eboli a ringraziamento per la notorietà resa, 4 settembre 1999.
Nella vita, diceva Oscar Wilde, c’è solo una cosa peggiore dell’essere chiacchierati, ed è non esserlo affatto. Quindi la cittadinanza rende grazie. Perché nonostante i reperti neolitici, la dignità di Municipium, il castello eretto da Roberto il Guiscardo, la casa dove dormì Garibaldi la notte prima di entrare a Napoli, il Me ne frego! (delle sanzioni) pronunciato da Mussolini proprio qui, Eboli stava uscendo dalla Storia. Ma Levi  ce l’ha rinfilata con il suo romanzo autobiografico che racconta undici mesi di confino trascorsi fra il 1935 e il 1936 prima a Grassano, distante 128 chilometri e poi ad Aliano (140 km), nella desolata Lucania, appunto. Che è una regione storica dell’Italia antica cui Eboli (28 mila anime) formalmente, non appartiene da secoli. Levi la cita come confine tra due mondi e due tempi: dove i contadini erano trattati da cristiani, cioè da uomini, e dove invece da bestie.
Un ragazzo che ha tentato la fortuna a Melbourne mi racconta: «Quando gli australiani  mi chiedevano da dove venivo e rispondevo Eboli, la reazione era: Ah, where Christ stopped». E lui si compiaceva per la notorietà di cui sopra, senza stare tanto a sottilizzare.  Altri sottilizzano, con ammaccato orgoglio meridionale: «Il problema è capire se Cristo veniva da Sud o da Nord». Ma il problema è un altro: che ha fatto poi Cristo? È andato avanti portando speranza, progresso e giustizia sociale o si è arreso? A settant’anni dalla pubblicazione di questo libro meraviglioso che rilanciò in modo inedito e controverso (specie nel Pci) la questione meridionale, a quaranta dalla morte di Levi e a due mesi da quella di Francesco Rosi, che nel 1979 trasformò in film il romanzo, è il caso di domandarlo.
Sarà la crisi, il clima uggioso, i tanti afflitti raccolti nella sua chiesa (che risale al 1260), ma don Alfonso, parroco di San Francesco, non trova un altro aggettivo per definire la situazione: drammatica. «Con orgoglio e tristezza, devo dire che siamo il punto di riferimento di antichi e nuovi bisogni, di braccianti stranieri e gente di qui, dei padri di famiglia disperati. Assaporiamo l’impotenza che genera sconforto e la Chiesa torna ad essere la fontana del villaggio, ma non era questo che volevamo». Don Alfonso ne ha viste, anche la guerra in Ruanda, non porta la tonaca, ma la giacca a vento. E affonda: «Vedo un’incertezza politica e una mancanza di spessore culturale che ostacola la ricerca del bene comune: appena c’è un’iniziativa è subito osteggiata. Bisogna trovare un comun denominatore, la dimensione religiosa potrebbe aiutare. Oggi sarebbe anacronistico proporre divisioni».
La concordia non è virtù dei politici ebolitani: la giunta di centro sinistra si è sciolta a settembre. L’ex sindaco pd Martino Melchionda liquida l’evento con sufficienza: «Una lotta fra tribù locali. Un altro clan ha sabotato la maggioranza». Clan, tribù: le primarie del Pd di Eboli per le elezioni di marzo saranno bellicose. Si maligna che la giunta Melchionda abbia preferito suicidarsi con lo scioglimento ordinario per evitare gli spiacevoli effetti di quello straordinario: l’ indagine giudiziaria.
L’opposizione schiera l’astrofisico Erasmo Venosi per i  5 Stelle; un po’ di sano familismo con il giovane FI Damiano Cardiello, figlio del senatore azzurro Franco; e il trasformismo estremo di Massimo Cariello, ex Dc, Rete, Rifondazione e ora nel Nuovo Psi del governatore Caldoro.  Incontrandolo nel passeggio domenicale, spiega così la sterzata a destra: «A sinistra qui sono tutti camorristi». Forse  ce ne sono pure a destra: nella vicina Battipaglia, il sindaco Udc Giovanni Santomauro è stato arrestato nel 2013 e il Comune sciolto per infiltrazioni mafiose. Prima di traslocare a Battipaglia, Santomauro era il segretario comunale di Eboli.
Nella Piana del Sele, la camorra non è appariscente come nel Napoletano o nel Casertano, ma nel 1979 Raffaele Cutolo è stato arrestato in un casolare di Albanella, comune assai rurale confinante con Eboli. Anche il clan dominate aveva un nome assai rurale: Maiale. Gli anni Ottanta furono selvaggi. Decine di morti, gli affari sporchi della ricostruzione dopo il terremoto che aveva dato il colpo di grazia al centro storico, già devastato dalle bombe del 1943, i boss che  tenevano i politici a braccetto, o un po’ più giù.  Si aprirono due discariche in puro  stile Terra dei Fuochi, ma più contenute, che hanno prodotto torrenti di percolato alla faccia dei fertili campi e delle serre della Piana.  Nel 1996, l’Operazione California della Procura di Salerno ha dato una ripulita e di lì a poco il sindaco di Rifondazione Gerardo Rosalia ha bonificato il litorale con le ruspe: giù 437 villette abusive dei soliti noti. E poi? Giù con nuovi condoni di Stato.
Anche il commissario prefettizio Vincenza Filippi si è messo a far pulizia, per  esempio  con lo sportello Sos imprese contro le estorsioni. Nemmeno in Comune era tutto specchiato: però in una città disoccupata al venti per cento, con i ragazzi, laureati e non, che scappano in cerca di lavoro, ha trovato un’inaspettata vitalità: «C’è gente che si impegna, i giovani imprenditori dell’eno-gastronomico, le associazioni di volontariato, le madri che  si mobilitano contro la chiusura del  reparto di Ostetricia dell’ospedale. Il tessuto sociale c’è».
C’è, c’è. Magari frastagliato, con troppe associazioni di due persone e poche di molti, tante iniziative d’impresa che non riescono a fare network. Tenta di metterli in rete weboli.it, portale turistico e culturale, che segnala e connette il bello e il buono della città.  Poi ci sono quelli del Moa, praticamente dei volontari che nel 2012 hanno allestito nel complesso monumentale di Sant’Antonio il Museum of Operation Avalanche, dove lo sbarco alleato del 1943 viene raccontato con le strepitose fotografie dei soldati, ma anche della popolazione locale, scovate nei National Archives di Washington, e con reperti bellici, gavette, giornali, e una sala emozionale che ricostruisce le fasi dell’operazione. Uno dei molti pregi del Moa è che per arrivarci bisogna arrampicarsi per il centro storico dissennatamente aperto traffico, scoprendo così (oltre  ruderi  ed  ecomostri  sequestrati da decenni) antiche bellezze insospettabili dall’autostrada o dalla disastrata stazione che accolse la salma di Levi diretta verso il cimitero di Aliano, dove riposa. (Molti dei cinquantenni con cui parlo andarono con le scuole a omaggiarla).
«Siamo il più grande contenitore di eventi culturali della Piana; convegni, spettacoli, feste: si fa tutto qui.  Ma non abbiamo accesso ai fondi europei perché ci manca il certificato di prevenzione incendi» dice Marco  Botta, presidente del museo. «Abbiamo regalato il progetto del piano antincendio al Comune: deve solo firmarlo. Ma la firma non arriva».
Le cose non sono sempre andate così:  «Questa, fino all’ Ottocento, era un’area agricola avanzatissima, Giustino Fotunato lo definiva un modello virtuoso per tutta l’Italia» ricorda lo storico Giuseppe Fresolone. «Fino agli anni Settanta eravamo il più grande polo agricolo della Campania, poi ci sono stati i dissennati piani industriali che hanno bruciato soldi e suolo. Ma qui la modernità è la ruralità». Si parla della formula Matera, cioè territorio&cultura, o del modello rinascimentale (toscano) per rimettere ordine tra città e campagna. Ci ha provato nel 2003 il piano regolatore coordinato da Vezio De Lucia, che ha posto qualche vincolo. Ma, vista dall’alto, la Piana del Sele è una distesa caotica di brutte casette moderne e abbacinanti teloni di plastica che coprono le enormi serre dove si produce l’oro di Eboli e dintorni: la quarta gamma, ovvero le insalate in bustina che non devi neanche lavare e che insieme a mozzarelle, pomodori, carciofi e ortaggi vari mandano avanti l’economia. Insieme a un terziario assistenziale e stracco.
L’agricoltura, sebbene sotto plastica, consente di mantenere un’identità sempre più slabbrata. Un’identità che gli ebolitani di buona volontà tentano di ricucire. Prendiamo il pensiero magico, che tanta parte occupa nel libro di Levi: Magia, fatture e pozioni nella Lucania antica è l’ultima fatica di Giuseppe Barra, ricercatore storico ed editore. Dal malocchi agli specchi velati nelle case dei morti (per impedire che le anime, riflettendosi, perdano la strada), dai lupi mannari all’usanza di fornire al caro estinto pettine, occhiali e denaro per affrontare l’estremo viaggio,  Barra elenca tutte le credenze che, dice, persistono. Nel popolo, nella borghesia e tra i laureati. «A mio padre gli hanno voluto mettere pure le pantofole nella bara». Anche questo può servire: in fin dei conti Melpignano non ha costruito la sua fortuna sulla notte della Taranta?
Tra le eccentricità di Eboli si segnala l’orafo Rosmundo Giarletta, ordinato  cavaliere da Ranieri di Monaco, discendente dei marchesi di Campagna, comune non lontano da qui, ottenuto per fedeltà (o a saldo di un debito) da Carlo V. Era innamorato, Ranieri, dei laboriosissimi lavori in oro traforato e pietre di Rasmundo. Gli ha commissionato stemmi, gemelli, gioielli e quant’altro e gli ha chiesto di trasferirsi a Montecarlo. Ha ricevuto un cortese e netto rifiuto perché Rosmundo vuol stare qui:  ha aperto bottega a Corso Garibaldi, sperando di rivitalizzare il centro storico. Che, a parte qualche ristorante cool, è abbastanza deserto. Perché il sabato pomeriggio gli ebolitani preferiscono i centri commerciali. Sorti come funghi in una notte di nebbia.

Articolo pubblicato mercoledì, 4 marzo 2015

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