03 dicembre 2015

IL GRANDE CESARE PAVESE



Nel '49 Cesare Pavese affrontò con particolare intensità il tema del lavoro dello scrittore. Un tentativo di sprovincializzare il mondo stagnante della cultura italiano che suscitò vivaci polemiche in una sinistra dove fortemente si faceva sentire il fardello ideologico dello zdanovismo.
Pasquale Briscolini
L’umanesimo non è una poltrona”
    Ovvero: serve una ricerca infaticabile  anche in letteratura
Il ’49 di Pavese è ancora un anno di grande pienezza creativa, basti pensare a due dei mesi finali dell’anno nei quali - dal 18 settembre al 9 novembre – scriverà “La luna e i falò”, quasi sempre un capitolo al giorno. Peraltro, scrivendo solo la mattina dalle cinque alle otto, perché poi lavora alla Einaudi e non tollera di sovrapporre le due cose. Qui è proprio “maniacale”: “La risposta ancestrale è solo questa: fare un lavoro bene perché così si deve fare”, come annota sul Diario il 7 settembre 1949.
Il ’49: anno pieno non solo di lavoro (scrittore/poeta e  direttore editoriale) ma anche di polemiche, perché Pavese non si accontenta di “produrre” in modo tradizionale in entrambi i lavori, ma si pone continuamente nuove domande e cerca di aprire nuovi fronti. In questo, ovviamente, trova nemici da varie parti in tutti coloro che, anche in buona fede, sono di fatto conservatori.
Uno dei fronti aperti riguarda proprio l’ambito del lavoro dello scrittore, quali siano i giacimenti ai quali attingere e se questi debbano avere limiti o no, per i pericoli che potrebbe presentare il loro superamento.
Attorno a questa domanda ruota il saggio che ci accingiamo a commentare, del quale capiamo il tono fortemente polemico già dai primi titoli che Pavese aveva scelto e che poi ha cancellato: “Pifferi umanistici” e  “L’umanesimo non è quieto vivere”.
Il primo titolo era un attacco esplicito ad alcune persone che aveva in mente; il secondo lasciava intendere un ragionamento più circostanziato con il quale sostenere le proprie idee, includendo anche l’attacco ma senza farne l’oggetto del saggio. Il titolo finale sarà poi sulla stessa linea del secondo, con una coloritura di “comoda immagine”: “L’umanesimo  non è una poltrona”.(1)
Il saggio inizia così, con la descrizione di una persistente insofferenza:
“Dà noia leggere, di questi tempi, ancora lamentele sulla cultura umanistica in pericolo, sullo spezzarsi della tradizione, sull’esotismo e sull’infantilismo che minacciano (da quanto tempo ormai?) i nostri sudati valori occidentali. Certe cose una volta si lasciavano dire agli accademici fascisti, fatti apposta per questo e nel loro piccolo giustificati. Gente per cui la cultura consisteva – e consiste – nell’imperiale provincia italica, nelle idee universali, nell’encomiastica di tutte le romanità (“non ci si va senza un’idea universale”), faceva l’ufficio suo additando al pubblico disprezzo le deviazioni laiche della sterile critica e il sovversivo interesse per le esotiche province della barbarie e dell’irrazionale (surrealismo, psicologia del profondo, cubismo, Africa nera e altre cose diaboliche).”
Pavese descrive una situazione – quella della cultura del ventennio – che per certi versi giudica comprensibile nella sua “chiusura”. Molto più di quanto invece si possa comprendere chi dovrebbe essere “intriso” di una più ampia visione di cultura europea, e che invece si fa prendere dallo stesso tipo di paure e finisce per ostacolare un cambiamento vero, o quantomeno il muoversi in terreni più fertili, che sarebbero l’humus di questa cultura.

Insomma, già nell' immediato dopoguerra Pavese è preoccupato del provincialismo della nostra cultura, del suo orgoglio autarchico (di ieri e di oggi), di cui con forza auspica il superamento:
“Ma non si capisce (diciamo per dire) come persone intelligenti, nutrite del midollo di leone della cultura europea, vadano anch’esse scoprendo paurose crisi e fratture, non mica dove queste minacciano veramente, cioè nella conservazione caparbia di superati istituti e valori, bensì proprio in quegli interessi che da secoli, rinnovandosi sempre, formano l’humus di questa cultura. Sarà vero, anzi è vero senz’altro che, come dice T. S. Eliot, non si dà cultura senza religione, che dissolvendosi la seconda si dissolve anche la prima, ma allora invitiamo i nostri umanisti a dichiararci con chiare parole quale secondo loro sia stata nei secoli la religione occidentale, avvertendoli che religione è una parola troppo grossa per esaurirla nel culto di uno stile, nel rispetto di un’abitudine, nell’ideologia di un mestiere o di una classe.”
Si capisce da come Pavese parla, così, di getto, che è molto preso dall’argomento e anche un po’ infastidito dal dover continuamente ribadire le sue posizioni sul come si fa letteratura e poesia. Sfida gli altri (che non capisce, ma aggiunge con sarcasmo “si fa per dire”) a dichiarare quale sia stato “il credo” della cultura europea, invitandoli con decisione a evitare risposte banali, e intanto precisa la sua posizione:
“Parliamo, com’è ovvio, di poetica, e non abbiamo difficoltà a dichiarare che per noi la religione sottesa a tutte le scuole, le ricerche, gli stili e le polemiche dell’Occidente – da Omero all’ultimo narratore sovietico o islandese – è il culto della chiarezza, la riduzione del mitico-mostruoso e dell’arbitrario al razionale e al prevedibile.”
In altra occasione dirà che “l’atto della poesia è un’assoluta volontà di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sapere”. Insomma, dal Mito al Logo, ma con un processo che, in qualche modo, non ha mai fine perché non hanno mai fine gli spazi da ridurre a chiarezza:
“Ciò vuol dire – si badi – che il compito della nostra cultura non è mai esaurito; che per chi viva secondo il suo vero spirito non viene mai il giorno in cui sia lecito abbandonarsi sul pesto guanciale della realtà demitizzata. Questa sì che sarebbe la fine, la morte della nostra cultura. Ci tocca invece perennemente passar oltre; ficcare lo sguardo e le mani nell’infinito caos mitico dell’amorfo e dell’irrisolto, e impastarlo, travagliarlo, illuminarlo finché non lo si possieda nella sua vera oggettività.”
“L’infinito caos mitico dell’amorfo e dell’irrisolto”: è molto bella e decisamente attuale questa espressione di Pavese, che distrugge le certezze deterministiche e fa riferimento invece ad una forma di caos infinito, che è proprio l’oggetto dei nostri infiniti processi di apprendimento. E fa l’elogio di tutti coloro che, nei vari campi, hanno impegnato il loro intelletto per spostare in avanti il limite dei campi della conoscenza:
“Gli eroi esemplari della civiltà occidentale sono i semidei cacciatori di mostri, i missionari mai sazi d’investire nuove terre pagane, gli accademici del cimento che provarono e riprovarono. Né c’importa se, con questo discorso, rischiamo di aver detto che dal mito passando per l’arte si arriva alla scienza. Parliamo di come si fa poesia, non di ciò ch’essa è.”
Emerge qui la forza della sua battaglia culturale, anche contro i quadri del partito, convinto com’è della necessità di operazioni culturali al di fuori e al di sopra di un taglio politico dogmatico e ottuso. Convinto e documentato, del tutto fuori anche dallo schema che vuole il poeta come “fuori dal mondo”, Pavese ha un approccio “quasi scientifico” al fare poesia, e propone una direzione di ricerca sistematica verso “una comprensione”, sempre più approfondita, di quali possano essere le origini del nostro pensiero e del nostro essere:
“L’uomo occidentale ha ben poco di comune coi poeti cinesi cui è riuscito per duemila anni di ripetere lo stesso stile, e coi boscimani che vivono oggi come usavano nel paleolitico superiore. Dicono allora gli umanisti: “E dunque. Lasciate stare i cinesi e l’arte negra, i draghi e le maschere. Queste cose nessuno di noi riandando la tradizione le ritrova nel suo passato. Queste cose imbarbariscono. Guardate, del resto, che cosa accade ai cinesi e ai boscimani che tradiscono la propria cultura per farsi occidentali. Decadono. Muoiono. Non si possono innestare le rose sui sambuchi”. Agli umanisti si risponde che, dato e non concesso che cinesi e boscimani volenterosi abbiano i giorni contati, c’è però un fatto di cui va tenuto conto; a questi popoli non è offerta altra scelta. Ricusando d’adottare la tecnica europea, sparirebbero anche più presto, e con loro morirebbe comunque la loro cultura. In tutte le tradizioni viene un momento in cui le marche di confine entrano in contatto con una tradizione diversa: hic Rhodus hic saltus, e negare l’evidenza non serve. Se mai, questa menzogna potranno tentarla proprio le culture magiche o manistiche, specializzate nella conservazione del passato, non certo la nostra di cui la gloria è sempre stata la conquista, il diboscamento e la messa a coltura di nuove province.”

E’ incredibile come Pavese sia costretto a difendersi nei suoi tentativi di ricerca: si pensi ai temi dei Dialoghi con Leucò e al tentativo faticosissimo di avviare la Collana blu, con tutta la polemica con Ernesto De Martino che non si esaurirà nemmeno con la morte di Pavese.  Intendendolo esattamente al contrario delle sue intenzioni: come se lui volesse “condurre” in quei territori anziché tentare di comprenderli per “diboscarli”:
“E siamo al punto. Che effettivamente noi abbiamo altri ideali dall’immobilità mandarina o dal tribale ritualismo dei popoli di natura, non abolisce il fatto che, nel corso della nostra conquista e riduzione a chiarezza del mondo intero, queste esotiche realtà ci sono state rivelate. Così come nell’opera di analisi e definizione dei fatti psichici ci è accaduto di battere il naso in fenomeni inesplicabili se non con una teoria dell’inconscio.”
Come si diceva prima, è innegabile che Pavese descriva qui un approccio di tipo scientifico: ci si imbatte in fenomeni nuovi per spiegare i quali serve una teoria nuova, come la teoria dell’inconscio per comprendere alcuni fenomeni psichici o come, ad esempio, la geometria non euclidea per spiegare fenomeni esistenti in natura sui quali la geometria euclidea non poteva dire alcunché. E questa è la via da percorrere, dice Pavese, anche se certo può esserci il rischio che qualche “rammollito”…:
“Ora, può darsi che qualche rammollito europeo si compiaccia di smarrirsi in questo inconscio, di drogarsene, di riempirne il suo orizzonte; come può darsi che qualche altro sia tentato d’indossarne una maschera congolese e invocare gli spiriti delle nuvole; ma tutto questo deve soltanto stimolarci a studiare più a fondo e capire, cioè rendere europei, sia l’inconscio che le culture della maschera. (Capire significa, beninteso, vichianamente “intendere”, cioè rivivere e giudicare).”
Dicevamo della forma “quasi scientifica” dell’approccio di Pavese, che ritroviamo ancora quando sostiene che l’antidoto verso certi pericoli sia quello di “studiare più a fondo e capire, cioè rendere europei, sia l’inconscio che le culture della maschera”. Non solo, ma addirittura soffermandosi sul significato profondo del “capire”, inteso nel senso di Giovambattista Vico.

“Non abbiamo altra scelta. Ignorare questi fatti culturali, o peggio negarne la problematicità, esorcizzarli a suon di piffero umanistico, respingendoli fuori del nostro terreno di caccia, tra le maledizioni dei nostri preti-stregoni, non è condotta degna dei portatori di quello spirito occidentale che – non bisogna dimenticarlo – si è già una volta nella sua storia millenaria trovato di fronte un esotico Oriente, ha cercato di condannarne l’ideologia come “odio del genere umano”, e infine entrambi si sono specchiati e riconosciuti.”
L’espressione “odio del genere umano” si riferiva ai primi cristiani che, nella società imperiale, costituivano un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune che era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni. Alla fine si sa com’è finita, a riprova che a volte “non c’è altra scelta”.
“Siamo franchi. Non c’importerebbe gran che se, come qualcuno va profetando, il trauma di questo novecentesco interesse per la psicologia del profondo e le culture e istituzioni primitive producesse una “paralisi creativa” di qualche generazione. Non ci crediamo; il mondo è grande e sono ben altri i problemi sul tappeto che s’incaricano di tenerci l’essenziale sotto gli occhi. Ma, se pure ciò accadesse, vorrebbe dire che lo spirito la creatività occidentale dormono il sonno dell’aurora e, fedeli alla loro natura, vanno svolgendo quella segreta opera metabolica che è per dar loro nuovi tessuti e nuova salute.”
Insomma, anche nel caso peggiore  di “paralisi creativa” non tutto sarebbe perduto. Si tratterebbe anzi di “opera metabolica” per alimentare il giacimento della creatività. D’altro canto, non è anche il sonno dell’aurora che produce i sogni più ricchi e forse rivelatori, in qualche modo, di alcune parti della realtà?

1. L’umanesimo non è una poltrona, pubblicato su “La Rassegna d’Italia” il 5 maggio 1949


Nessun commento:

Posta un commento