03 aprile 2023

TRANSGENDER di SUSAN STRYKER. Le radici di una rivoluzione

 


LE RADICI DI UNA RIVOLUZIONE: SUSAN STRYKER E LA STORIA TRANSGENDER

di Stella Margoni 

Cos’è il genere? Questa la domanda che torna a piè sospinto nelle cronache non solo politiche dei giorni più recenti. Le polemiche un po’ pretestuose cui ahinoi si assiste sono quantomeno utili a mostrare che non si dà una riposta capace, come per un tocco di verga, di sciogliere dubbi e disincagliare pregiudizi. Nel tentativo impacciato di offrirne qui almeno un abbozzo, ci serviamo delle parole di Judith Butler, immediate ed efficaci nella loro scarna essenzialità: «Una copia di cui non esiste l’originale». Insomma, uno script che si ripete ed esiste come tale solo perché lo si replica nei gesti della vita quotidiana e nelle ritualità della vita sociale, ma che, come tale, non ricalca nulla che sia inscritto in un ordine naturale delle cose.

Distinto dal sesso, cioè la categoria anatomica e biologica di appartenenza, il genere racchiude quegli elementi psicologici e sociali così come vengono a costruirsi culturalmente e ad articolarsi nei contesti relazionali, ed è destinato pertanto a una continua ridefinizione. Ecco che un individuo nasce femmina o maschio (in taluni casi può incorrere in un quadro di intersessualità), ma la sua identità di genere e il suo ruolo di genere, quindi l’adesione a comportamenti e aspettative socio-culturali di mascolinità, femminilità o altro, possono non coincidere con il sesso attribuito alla nascita. Ma il sospetto, oggi, è che la tradizionale topologia binaria ed eteronormata sia pressoché decidua; che le diverse componenti dell’identità emergenti via via pongano dinnanzi ai nostri occhi un quadro ben più complesso di quanto la polarizzazione maschio-femmina/uomo-donna non concedesse un tempo. Se questo è vero – e certo vale ancora come perizia di parte – siamo tutt* chiamat* a interrogarci sul significato di concetti come identità, genere, corpo, nonché sulla storia che dietro questi vocaboli si cela.

Ed è così che la penna di Susan Stryker, una delle più note e celebrate esperte di studi di genere, con una prosa lucida e tagliente, elegante e disincantata, nel saggio Storia Transgender. Radici di una rivoluzione (Luiss University Press 2023), ripercorre le tappe salienti della storia dell’attivismo trans nel contesto degli Stati Uniti, offrendoci al contempo uno sguardo ben più ampio e inclusivo, capace di investire la vita di ciascun*.

L’autrice ha la buona creanza di non presupporre in chi legge il padroneggiamento di uno strumentario sofisticato come quello degli studi di genere e offre una guida sicura nell’acquisizione dei primissimi lemmi: introduce così a un linguaggio che richiede più di qualche perizia per uscire dalle secche di una contrapposizione ancora tutta ideologica. Non c’è sforzo linguistico che consenta di afferrare per intero l’articolato arcipelago che si dispiega entro ciascuna categoria (che è sempre l’esito angusto di un’approssimazione – determinazione che al contempo nega). Stryker ci viene però in soccorso e interviene con metodo sin dalle prime pagine, fornendo un prontuario terminologico, ricco quanto asciutto, relativo al tema oggetto della trattazione: ciascuno potrà così muoversi con più confidenza nelle pagine a seguire e in quelle ben più spesse della vita di tutti i giorni, maneggiando vocaboli come cisgendergender-non conformingcross-dresser o cogliendo a pieno il senso di un asterisco, dietro cui si cela la “rappresentazione visiva di un’intersezione”(p. 34), segmenti orientati in direzioni distinte eppure nunzi di qualcosa “da far transitare” (p. 34).

L’attivismo transgender negli Stati Uniti, spiega l’autrice, non è poi troppo risalente. Se è vero che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, “il desiderio omosessuale e la varianza di genere furono spesso strettamente associati”, non c’era uno spazio riservato al travestitismo e al transgenderismo, considerati manifestazioni mutevoli di un orientamento di genere atipico. In un terreno così accidentato iniziano a farsi strada i primi spunti più o meno timidi verso l’affermazione di un cambiamento. Emergono allora, nitide, le prime voci fuori dal coro: il medico e sessuologo tedesco Magnus Hirschfeld (1868-1935), figura cruciale per la storia politica della sessualità e del genere nonché pioniere della difesa delle persone transgender; Harry Benjamin (1885-1986), endocrinologo migrato in America e primo fautore delle terapie ormonali; Virginia Prince (1912-2009), attivista statunitense, ideatrice della rivista d’avanguardia «Transvestia» e fondatrice della Foundation for Personality Expression. Dietro le orme di questi personaggi, lungo le sole schiere privilegiate di quanti erano vittime di ingiustizie legate all’identità di genere, si affacciano, benché un poco maldestre, le prime forme di organizzazione transgender. Queste, ammonisce tuttavia Stryker, sono ancora espressione di una fetta ristretta di oppressi tenacemente attaccata alla propria posizione sociale e dunque restia al concepimento di un “movimento transgender inclusivo, espansivo, progressista e poliedrico”, di cui l’autrice tesse le lodi.

Sebbene incapaci di estendere lo sguardo oltre le rivendicazioni più prossime (del resto la miopia si configura come l’anomalia refrattiva più frequente) e di abbracciare in un unico nucleo spinte diverse mosse da matrice comune, tali forme di organizzazione transgender allestirono lo scenario per gli atti successivi. In effetti apprendiamo dal racconto dei primi, tonitruanti, anni Sessanta: in seguito allo scontro del 1959, primo episodio di resistenza collettiva tenutosi nella caffetteria Cooper Do-Nut (Los Angeles) contro i soprusi mediati dalle forze dell’ordine ai danni delle sessualità fuorilegge e delle soggettività di genere non conforme, nuovi disordini si affacciano sul corso della storia e ne segnano tappe significative. Così, nel 1965, presso la caffetteria e tavola calda Dewey’s (Philadelphia), si accende uno scontro non violento indotto dall’inattesa alleanza tra attivismo gay e transgender. A seguire, nel 1966, spostandoci a San Francisco, nuovi disordini di più ampia portata si consumano dietro l’insegna al neon della caffetteria Compton’s, dove i reclami a lungo taciuti irrompono con veemenza, facendo per la prima volta di questioni quali il sessismo, la povertà, l’orientamento e l’identità di genere una battaglia comune, animata da una forza nuova esito dell’intreccio scottante di molteplici voci di protesta. Nel 1969 approdiamo infine a New York, lungo i vicoli caotici del Greenwich Village, tra i tavolini affollati dello squallido e oggi celeberrimo Stonewall Inn, quando drag queen, persone lesbiche, gay, gender non-conforming e altri membri della controcultura urbana protestano contro la repressione della polizia. Si trattò di un evento dall’altissimo potere simbolico e latore di un lascito che ancor oggi si ripercorre anno dopo anno per celebrare le migliaia di persone galvanizzate e introdotte all’azione politica, da un lato, e lo sviluppo più sistematico e massiccio di reti attiviste e centri di aggregazione, dall’altro. Il racconto di Stryker prosegue lungo il ritmo degli eventi, sempre più incalzante, ora spezzato da ritagli di giornale, pubblicazioni scientifiche, lacerti di storia personale, fatti di cronaca, tasselli di un puzzle che si ha difficoltà ad abbracciare nella sua interezza, ma nella cui ricostruzione la voce dell’autrice, che pure quella storia ha vissuta e incisa sulla propria pelle, sostiene e infonde energia vitale.

Grazie a un’andatura galvanizzata dal senso partecipato di un riscatto collettivo, chi legge può compensare almeno in parte l’amarezza di quelle spinte conservatrici che, già negli anni Settanta e poi negli Ottanta, arginarono l’entusiasmo veicolato dai movimenti di liberazione. L’incapacità di stabilire alleanze tra i gruppi al margine, l’omonormatività della cultura gay dominante, le campagne di depatologizzazione dell’omosessualità conclusasi con successo nel ‘73 grazie alla stesura della III edizione del DSM (dove si guadagna la rimozione dell’ omosessualità come entità psicopatologica, sancendo però il crollo della vertenza, condivisa dalle comunità gay e trans, contro il sapere medico e le istituzioni psichiatriche), i tratti di marcata transfobia della seconda ondata femminista, furono, secondo l’analisi critica dell’autrice, elementi che concorsero a una drammatica involuzione del processo di emancipazione sessuale e identitaria trans.

Occorre attendere gli anni Novanta per assistere a una nuova e definitiva espansione delle questioni transgender, sempre più intese come ventaglio policromo pronto ad accogliere “tutte le forme non normative dell’espressione e dell’identità di genere” (p. 161). Una nuova alleanza con il pensiero queer, che prende le distanze dal femminismo ostile e trans-escludente della seconda ondata, concede alla lotta trans un rinnovato vigore necessario alla ridefinizione del concerto di genere, ora teso a scardinare il binarismo ostinato per darsi all’esplorazione profusa di ogni tipo di genere, mutevole in quanto espressione di soggettività “meticce”,” impure”, prive di categoria. Sulla scorta di Butler e altr* studios*, si approda al concetto di “performatività di genere”: essere qualcosa consiste “nel farlo”, come si diceva in apertura. Non più qualità oggettiva del corpo, il genere si mostra “costituito da tutti gli innumerevoli atti che lo performano”, uno strumento per comunicare agli altri chi siamo, pertanto multiforme nella sua stessa definizione. E laddove si ricerchino nel corpo elementi che provino l’appartenenza ad un genere specifico, non si fa che offrire narrazioni la cui verità si colloca nella sua “perpetua ripetizione” (pag. 169).

Il cambiamento di paradigma sul genere e sulla sessualità ha offerto in tal modo al movimento transgender nuovi strumenti per dirsi, per narrare la relazione tra il proprio genere, il proprio ruolo sociale e il proprio corpo, sito di interpretazione del linguaggio, generatore di scambi simbolici. Storia Transgender è un saggio che parla a tutt*, è la storia delle minoranze che ritagliano i loro spazi partendo dalla parola, è la storia dell’essere umano e della difficile convivenza con sé stesso, è l’affermazione dell’espressione caleidoscopica di un sé che resiste ad ogni prigionia. Ripensarci noi tutt* come soggettività politiche – questo il monito dell’autrice – capaci di scrivere la storia attraverso microrivoluzioni quotidiane, che muovono i loro passi dall’interno, proprio in quelle configurazioni odiose che fanno del genere una rete di relazioni di potere.


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