05 luglio 2024

COSI' FRANCESCO VINCI HA PRESENTATO "EREDITA' DISSIPATE" A MARSALA

 



Ecco come Francesco Vinci ieri, nel Baluardo Velasco di Marsala,  ha presentato  EREDITA'  DISSIPATE:


"Quando il buon Franco Virga mi ha proposto, credo in combutta con Gaspare Polizzi, di fargli da interlocutore per presentare Eredità dissipate, debbo confessare che mi sentivo piuttosto inadeguato. Io mi considero sostanzialmente un autodidatta, e ho comunque una formazione più letteraria che filosofica: della triade (Gramsci Pasolini Sciascia) conosco meglio Pasolini – forse meno peggio –  perché è il mio primo amore, letterariamente parlando, mentre Sciascia è un autore che sto (ri)scoprendo da lettore ‘adulto’. Per quanto riguarda Gramsci, che è l’autore paradigmatico di questo libro, in più di un’occasione mi sono dichiarato, in modo evidentemente semiserio, un gramsciano per difetto, in quanto odio più la retorica che gli indifferenti. Accostandomi nel frattempo al libro di Franco, però, mi sono accorto di quanto questi saggi, scritti in tempi e occasioni diverse, componessero un libro di lettura per certi versi avvincente, oltre che un libro denso e importante, non il solito tedioso saggio accademico né tantomeno (e per fortuna) il saggetto divulgativo e paranarrativo, nel solco di una certa ermeneutica tascabile, che tanto va di moda negli ultimi tempi. E così, l’invito di Franco è diventato per me anche una sfida, e il mio ruolo questo pomeriggio è prima di tutto quello del lettore cosiddetto ‘comune’, che attraverso le sue sollecitazioni vorrebbe lui per primo comprendere meglio le ragioni di questo testo.

 

Dopo una fortunata prima edizione, il libro di Francesco Virga viene ripubblicato in una edizione riveduta e ampliata, che ancora una volta riesce perfettamente a coniugare il rigore scientifico dell’impianto saggistico, con tanto di citazioni e apparato critico, e una larga godibilità di lettura: una chiarezza di linea espositiva che forse proviene anche dal suo mestiere di insegnante e di blogger militante. O magari è in qualche modo una di quelle eredità gramsciane evocate nel titolo e messe a frutto nel taglio argomentativo e nel tono della scrittura. Non amo molto, in genere, usare il termine divulgazione (lo ribadisco, soprattutto perché lo trovo riduttivo per un lavoro come questo), ma sicuramente il libro è anche un ausilio prezioso per approcciarsi a queste tre figure o approfondirle, oltre i luoghi comuni, le vulgate e le nozioni scolastiche. Le tre parti che compongono il libro si possono infatti agevolmente leggere come dei corposi contributi critici a sé stanti sulle figure di Gramsci, Pasolini e Sciascia, ma nel libro confluiscono anche degli scritti occasionali – in gran parte pubblicati previamente su varie testate e riviste – in cui lo spettro d’indagine si allarga su aspetti meno battuti dei tre autori: penso per esempio al capitolo dedicato a Pasolini e Bach, che prende le mosse da uno studio recente di Claudia Calabrese sul rapporto tra Pasolini e la musica.

Come tanti testimoni e lettori eccellenti hanno attestato nel corso delle due edizioni (in appendice a questa nuova edizione troviamo una galleria di note critiche, firmate tra gli altri dallo stesso Polizzi e dal nostro Nicolò Messina), Eredità dissipate si colloca come punto di incrocio tra critica e esegesi letteraria, analisi politica e storia della cultura italiana nel secondo ‘900. Un lavoro di ricerca annoso e di lungo respiro in cui l’autore si mette sulle tracce della ricezione di Antonio Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia, scandaglia e collega testi, documenti, testimonianze con una perizia filologica e una passione militante davvero esemplari.

Di Pasolini si rileva in primo luogo che la sua interpretazione del marxismo è assimilabile a quella di Gramsci, in quanto metodo e strumento per comprendere i fatti storicamente determinati, e non sistema fisso e pura dottrina dogmatica, soprattutto nel Pasolini interventista e collaboratore del settimanale comunista “Vie Nuove” (mentre si tralascia volutamente il Pasolini tormentato delle Ceneri di Gramsci, diventato quasi un luogo comune critico). Di Sciascia si ricorda invece la lunga e intensa attivista pubblicistica sulle pagine de “L’Ora” di Palermo che – come scrive Virga – sono di “inconfondibile impronta gramsciana, persino nello stile graffiante della sua scrittura”.

Come l’autore stesso esplicita, sia nell’introduzione che nella nota conclusiva, la tesi di fondo, e se non una vera e propria tesi, una preoccupazione che anima le pagine di questo libro è che la grande lezione di questi tre giganti del secolo scorso venga dissipata (appunto), dimenticata o rimossa: un po’ per la loro sostanziale inclassificabilità e il loro percorso eretico, ma soprattutto per la crisi della cultura e del pensiero critico nell’epoca dell’opinionismo estemporaneo dei talk e delle approssimazioni social.

Aggiungerei una chiosa finale: a mio modesto avviso sta accadendo qualcosa di peggio rispetto a Gramsci, Pasolini e Sciascia (così come a tanti altri classici che vengono più citati che letti per davvero): la loro riduzione a pura icona social per cui di ogni grande autore conosciamo ormai soltanto qualche fugace citazione (a volte persino errata o manipolata), spesso esibita come un feticcio o uno slogan. Di conseguenza, di Gramsci sappiamo poco o nulla, ma ci basta sapere e reiterare col copia e incolla che odiava gli indifferenti e che ogni giorno per lui era capodanno; Pasolini è quello che sapeva ma non aveva le prove, quello dell’inflazionatissima supplica alle madri e l’imbalsamato autore di “T’insegneranno a splendere, e tu splendi invece”; e il povero Sciascia, naturalmente, quello dei professionisti dell’antimafia (un titolo giornalistico attribuitogli come una delle sue frasi memorali): uno Sciascia sempre à la page, buono per tutte le occasioni di polemica e tutti i sicilianismi."

FRANCESCO VINCI

 

 

 

 

04 luglio 2024

ANTONIO GRAMSCI IN CARCERE

 


Ecco come il regime fascista ha ridotto Gramsci in carcere: in questa foto, che riporta il numero di matricola del carcerato, Gramsci aveva soltanto 35 anni anche se ne mostra ottanta... Tanti hanno dimenticato che il grande sardo venne illegalmente arrestato nel novembre del 1926 quando, nella sua qualità di deputato, godeva dell'immunità parlamentare. Il carcere ha poi aggravato le sue già precarie condizioni di salute al punto tale che è morto il 27 aprile del 1937 quando aveva solo 46 anni! (fv)

PARLARE DI PACE IN TEMPO DI GUERRA

 


Parlare di pace in tempo di guerra

Pasquale Pugliese
04 Luglio 2024

Disvelare la verità della guerra, nascosta dietro la propaganda bellica: in qualsiasi angolo del mondo da sempre è questa la prima operazione da fare per parlare di pace. Il timore della verità dei signori della guerra è dimostrato anche dai 120 giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano

Foto di Donne In Nero Parma

Per capire il senso profondo del parlare di pace in tempo di guerra bisogna risalire a Mohandas K. Gandhi il quale, con un neologismo, chiamava il metodo nonviolento – sperimentato in Sudafrica e applicato per la liberazione dell’India – satyagraha, ossia “fermezza nella verità”, o “forza della verità”, e tra i principi fondamentali di questo metodo, oltre a non usare la violenza, c’è l’attenersi in ogni fase della lotta alla verità. Ma la verità – come diceva Eschilo, o come viene a lui attribuito – in guerra è la prima a morire: ne è la prima vittima perché in guerra domina la menzogna. Non a caso per Aldo Capitini, analogamente a Gandhi, non ci può essere nonviolenza senza nonmenzogna. E la verità per i greci è aletheia, non nascondimento, ossia dis/velamento. Quindi, la prima operazione da fare per parlare di pace in tempo di guerra è quella di disvelare la verità della guerra dietro alla propaganda bellica, ossia smascherarne le menzogne.

La verità, il disvelamento della realtà della guerra, è ciò che il complesso militare-industriale-mediatico teme più di ogni altra cosa: il calvario di Julian Assange, che ha passato dodici anni in cattività – di cui sette nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e cinque in un carcere di massima sicurezza in una cella di due metri per tre – per aver disvelato che cosa sono davvero i collateral murders, gli “effetti collaterali” delle guerre di aggressione dei cosiddetti “buoni”, cioè i “nostri” per definizione, è stato un avvertimento alla stampa libera. Vicenda che si è potuta concludere con un patteggiamento nel quale Assange ha dovuto riconoscersi colpevole di una inesistente “associazione a delinquere”, anziché con il carcere a vita, grazie alla mobilitazione internazionale dal basso che ha continuato a tenera alta l’attenzione sul suo caso, alla forza della “protesta pacifica”, come la chiama Sara Chessa nel sui libro (Distruggere Assange, Castelvecchi, 2023).

Il timore della verità dei signori della guerra è dimostrato, inoltre, dagli oltre 120 giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano, al punto che l’inchiesta del consorzio internazionale di giornalisti indipendenti Forbidden stories certifica che essere giornalisti nella Striscia significa essere target, inseguiti e uccisi anche con i droni, per cui è meglio non usare la pettorina identificativa della stampa, perché non salva ma uccide. I crimini di guerra israeliani sono inoltre pesantemente coperti dalla “scorta mediatica” della stampa italiana (come ho raccontato anche qui Il genocidio mediatico).

Ma oltre alle menzogne sulla conduzione delle guerre è la legittimazione culturale della guerra in quanto tale – strumento obsoleto di regolazione dei conflitti, soprattutto in epoca nucleare, ma costantemente alimentato – ad essere fondata sulla menzogna originaria, su una vera e propria formula magica, falsa e irrazionale, ma ripetuta all’infinito a tutti i livelli decisionali e mediatici, nazionali e internazionali: si vis pacem para bellum, se vuoi la pace devi preparare la guerra. Eppure non è difficile dimostrare – ossia disvelare, dicendo appunto la verità – che si tratta di una illusione fondata sul pensiero magico, per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche crescentemente sottratte agli investimenti sociali e civili. I governi complessivamente non hanno mai speso così tanto per la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati Sipri) e i conflitti armati dilagano ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dai Uppsala Conflict Data Program), fanno impennare incredibilmente le vittime civili da un anno all’altro (+72% nel 2023 rispetto al 2022, dati Onu), con il conseguente dilagare di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati Unhcr). Preparando le guerre non si ha ovviamente la pace, ma più guerre e più vittime in un perverso circolo vizioso. Inoltre, ad un livello più profondo, questa sacca di pensiero magico incistata ai vertici politico-mediatici serve ad alimentare il consenso delle opinioni pubbliche che devono approvare l’ideologia della guerra, o almeno non vedere la contraddizione sulla doppia morale tra la risoluzione dei conflitti interpersonali e quella dei conflitti internazionali. La prima fondata universalmente sulla nonviolenza e i dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza; la seconda fondata ancora sulla guerra, attraverso il processo di etificazione della violenza, se voluta dalla Stato, e sanzionamento del suo rifiuto. Un doppio standard morale che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali e quella violenta nei conflitti internazionali.

Dunque, parlare davvero di pace in tempo di guerra significa, in primo luogo, svelare i diversi livelli di mistificazione: decostruire la narrazione bellicista è già preparare la pace. Come fanno, in ultima istanza, gli obiettori di coscienza di tutti i paesi in guerra, con la fermezza nella verità del proprio rifiuto.

Pezzo ripreso da https://comune-info.net/parlare-di-pace-in-tempo-di-guerra/


FRANCESCO VINCI PRESENTA 'EREDITA' DISSIPATE'. Prime immagini dell'iniziativa 1 e 2

 


Questo pomeriggio presenteremo un libro che coniuga rigore critico e piacevolezza di lettura come 𝘌𝘳𝘦𝘥𝘪𝘵𝘢̀ 𝘥𝘪𝘴𝘴𝘪𝘱𝘢𝘵𝘦 del buon Francesco Virga, recentemente ripubblicato da Diogene Multimedia.
Sarà l'occasione per tornare a parlare - in modalità meno social - di Gramsci, Pasolini e Sciascia.
Sono benvenuti persino gli "indifferenti".

Francesco Vinci

Ecco le prime immagini dell'iniziativa ben riuscita:











03 luglio 2024

LE MISTIFICAZIONI PRODOTTE DAI MASS MEDIA

 


La guerra del linguaggio. Come proteggerci?

Amador Fernández-Savater
04 Luglio 2024

Il linguaggio è brutale quando distrugge l’uguaglianza tra parlanti, il tempo di elaborazione della parola, l’apertura all’altro. È, ad esempio, il linguaggio dell’estrema destra contemporanea. Una via di fuga possiamo cercarla laddove si svolge la conversazione. Del resto cos’è la psicoanalisi se non una conversazione risanatrice? Cosa è l’educazione, quando non si riduce all’atto di trasmissione tra chi sa e chi non sa, se non un dialogo nel quale ricercare insieme il sapere? Cos’è l’amicizia se non una lunga conversazione tra amici? “Non si tratta di rispondere al brutalismo di destra con un brutalismo di sinistra, competere con certezze e sicurezze… – scrive Amador Fernández-Savater – Si tratta di aprire e ampliare gli spazi di conversazione, meglio se con persone sconosciute…”

C’è una guerra nel linguaggio, inteso come macchina per tradurre gli affetti e  le percezioni in orientamenti, e in azioni. Il linguaggio brutalista dell’estrema destra contemporanea traduce la frustrazione di vivere in aggressione contro i più deboli, traduce l’umiliazione quotidiana in delirio persecutorio, e la disperazione in voglia di rivincita. Per capire cosa sia il linguaggio brutalista basta vedere come parlano Milei,  Trump, o Jiménes Losantos: mentono come mitragliatrici, dicono una cosa e il suo contrario nel giro di un secondo, poi si offendono e attaccano, squalificano e insultano, indicano capri espiatori per il malessere. Vogliono solo vincere, e usano il linguaggio come arma di distruzione di massa.

Il linguaggio è brutale quando distrugge l’uguaglianza tra parlanti, il tempo di elaborazione della parola, l’apertura all’altro, il gioco delle distanze. Nel suo dire letterale, istantaneo e automatico, il linguaggio brutalista non è altro che il linguaggio dei media radicalizzato all’estremo.

Il linguaggio è un virus secondo Burroughs. Il linguaggio brutale attiva questo virus che portiamo dentro. Gli affetti si oscurano, i corpi si irritano i discorsi diventano crudeli. Siamo come posseduti. Impossibile discutere razionalmente con un posseduto.

Come proteggersi allora? La diserzione non può essere topologica, non si può limitare ad andarsene in un altro posto. Non c’è nessun luogo al di fuori del linguaggio. Là dove siamo, nel quartiere o nella scuola, a casa o al lavoro, e anche nelle reti, occorre trasbordare all’altra sponda del linguaggio.

Chiamiamola conversazione.

La conversazione è una pratica del linguaggio che presuppone l’uguaglianza tra parlanti: non c’è qualcuno che sa, ma ci siamo noi che parliamo e discorriamo in congiunzione. Questo richiede un tempo di elaborazione, non c’è alcun accesso diretto alla “cosa”, soltanto deviazioni e aggiramenti. Ogni parola apre uno spazio per l’altro: io parlo tu rispondi, noi pensiamo. Ogni parlante affina la sua voce singolare in una trama comune, di tutti e di nessuno.

La conversazione rende possibile una elaborazione distinta degli affetti, può cortocircuitare la traduzione brutalista degli affetti, la possessione. Crea senso nel bordo tra l’insensato totale e i significati assoluti. Il cerchio protettore del linguaggio si delinea laddove si svolge la conversazione. Senza garanzie, la protezione si fa e si disfa, perché occorre di continuo riannodare la conversazione.

Cos’è la psicoanalisi? Una conversazione risanatrice, è la scoperta che il linguaggio è corpo, e che ci sono parole che commuovono e quindi curano.

Cosa è l’educazione? Quando non si riduce all’atto di trasmissione tra chi sa e chi non sa, è un dialogo in cui si può produrre l’appropriazione singolare di un sapere.

Cos’è l’amicizia? La lunga conversazione tra amici, come dice Hanna Arendt, che insieme danno senso a un mondo che non ha senso.

E la politica? Potrebbe essere terapia educazione e amicizia se rinunciasse alla propaganda, alla parola strumentale e strumentale per eccellenza…

Non si tratta di rispondere al brutalismo di destra con un brutalismo di sinistra, competere con certezze e sicurezze, trincerarsi nei linguaggi-rifugio di coloro che sono già convinti, monologare dal lato corretto della storia, ma si tratta di aprire e ampliare gli spazi di conversazione, meglio se con persone sconosciute. La conversazione è ironica, ci permette di giocare con le nostre identità, le nostre opinioni, le nostre bandiere. Prendere distanza salvatrice rispetto a noi stessi, l’ironia antidoto contro la possessione.

Siamo animali di linguaggio. Il linguaggio non è solo un ponte tra me e te che lascia intatto quello che unisce, ma il mondo condiviso che ci afferra e ci trasforma. Non è solo la base della politica, ma l’esperienza politica stessa. Non la sovrastruttura, ma l’infrastruttura.

C’è una guerra nel linguaggio. Come proteggerci dalla possessione? Là dove si trova il pericolo cresce anche ciò che salva. Altra pratica di linguaggio, comunità di conversazione.



La guerra en el lenguaje. ¿Cómo protegernos?

Hay una guerra en el lenguaje. El lenguaje entendido ahora como “máquina de traducir” los afectos en percepciones, en orientaciones, en acciones.

El lenguaje brutalista de la extrema derecha contemporánea traduce la frustración de vivir en agresividad contra los más débiles, la humillación cotidiana en delirio persecutorio, la desesperación en ganas de revancha.

¿Qué es el lenguaje brutalista? No hay más que ver discutir a Milei, a Trump, a Jiménez Losantos: mienten como ametralladoras, dicen esto y lo contrario en cuestión de segundos, se ofenden enseguida y atacan, descalifican e insultan, señalan chivos expiatorios al malestar. Sólo quieren ganar, usan el lenguaje como arma de destrucción masiva.

Es un lenguaje brutal porque destruye la igualdad entre los hablantes, el tiempo de elaboración de la palabra, la apertura al otro, el juego con las distancias. En su decir literal, instantáneo y automático, el lenguaje brutalista no es otra cosa que el lenguaje de la comunicación radicalizado hasta el extremo.

El lenguaje es un virus dice William Burroughs. El lenguaje brutal activa ese virus que llevamos dentro. Los afectos se oscurecen, los cuerpos se crispan, los discursos se vuelven crueles. Estamos poseídos. Imposible discutir racionalmente con un poseído.

¿Cómo nos protegemos entonces? La deserción no puede ser topológica: a otro lugar. No hay ningún afuera del lenguaje. Hay que desertar sin moverse del sitio. Un gesto de sustracción protectora: otra práctica del lenguaje. Allí donde estemos, en el barrio o la escuela, la casa o el trabajo, incluso en las redes, cruzar a la otra orilla del lenguaje.

Llamémosla conversación.   

La conversación es la práctica del lenguaje que presupone la igualdad entre los hablantes: nadie sabe, hablamos y discurrimos juntos. Implica un tiempo de elaboración: no hay acceso directo a “la cosa”, sólo desvíos y merodeos. Abre un espacio para el otro: yo hablo, tú respondes, nosotros pensamos. Cada hablante afina su voz singular en una trama común, de todos y de nadie.

La conversación habilita un procesamiento distinto de los afectos, puede cortocircuitar la traducción brutalista de los afectos, la posesión. Crea sentidos en el filo entre el sinsentido total y los sentidos absolutos. El círculo protector del lenguaje se dibuja allí donde sostenemos la conversación. Sin garantías, la protección se hace y se deshace, siempre hay que reanudar la conversación.

¿Qué es el psicoanálisis? Una conversación sanadora, el descubrimiento de que el lenguaje es cuerpo y hay palabras conmovedoras que curan. ¿Qué es la educación? Cuando no se reduce al acto de transmisión entre quien sabe y quien no, un diálogo donde puede producirse la apropiación singular de un saber. ¿Qué es la amistad? La larga conversación entre los amigos, según Hannah Arendt, que dan sentido juntos a un mundo que no lo tiene. ¿Y la política? Podría ser terapia, educación y amistad si renunciase a la propaganda, la palabra instrumental e instrumentalizadora por excelencia…

No se trata de responder al brutalismo de derechas con un brutalismo de izquierdas, competir en certezas y seguridades, atrincherarse en los lenguajes-refugio de los ya convencidos, monologar desde el “lado correcto” de la historia, sino de abrir y ampliar los espacios de conversación, con cuantos más desconocidos mejor. La conversación es irónica, nos permite jugar con nuestras identidades, nuestras opiniones, nuestras banderas. Tomar una distancia salvadora con respecto a nosotros mismos, la ironía es un antídoto contra la posesión.

Somos animales de lenguaje. El lenguaje no es sólo un puente entre tú y yo que deja intacto aquello que une, sino el mundo compartido que nos arrastra y transforma. No la base de la política, sino la experiencia política misma. No la superestructura, sino la infraestructura.

Hay una guerra en el lenguaje.

¿Cómo protegernos de la posesión?

Allí donde está el peligro, crece también lo que salva.

Otra práctica de lenguaje, comunidades de conversación

[Amador Fernández-Savater]


Testo e traduzioni sono apparsi su una pagine web curata da Franco Berardi Bifo: https://francoberardi.substack.com. La versione originale: elsaltodiario.com



RITROVATA UNA STORIA DIMENTICATA DI CAMILLERI

 


UN FATTO MEMORABILE

di ANDREA CAMILLERI

(L’Ora del popolo, 29 maggio 1949)

 

B. è un piccolo paese dell’interno della Sicilia, uno di quei paesi come tanti se ne incontrano quaggiù, con le viuzze strette desolate e maleodoranti, con le case l’una a ridosso dell’altra che sembrano guardarsi in cagnesco come per un antico rancore, con l’unico caffè nel mezzo della piazza principale, con l’immancabile circolo dei nobili e infine con il minuscolo cimitero ben tenuto, proprio in fondo al paese dove già comincia ad estendersi la campagna. Un luogo insomma dove la vita trascorre monotona e tranquilla nel susseguirsi sempre uguale dei giorni e dove le uniche novità sono date dalle campagne elettorali, dalle nascite, dalle morti, dai matrimoni e, una volta all’anno, dalla festa del santo patrono.

Detto ciò, non vi sarebbe assolutamente altro da aggiungere su B. se quest’anno non vi fosse accaduto qualcosa di grosso, un vero e proprio fatto memorabile: fu proprio in questo sperduto paese, evidentemente dimenticato dagli uomini ma non da Dio, che Gesù Cristo rivelò all’umanità, nell’anno di grazia 1949, la sua vera fede politica.

La cosa cominciò così. Una mattina, mancavano ancora due giorni per la Pasqua, il prete del paese mentre attraversava la piazza principale per recarsi in Chiesa s’accorse che un’accesa discussione si andava svolgendo con un eccessivo spreco di gesti, come si usa fra noi gente del sud, tra alcuni uomini.

Avvicinatosi incuriosito, egli poté distinguere al centro del gruppetto un giovinotto con dei basettoni lunghi fino al mento e i capelli ricciuti abbondantemente imbrillantinati che gridava con gli occhi fuori dalle orbite: “Sì! Sì! Ed è inutile che mi guardiate così! Ve lo torno a ripetere: Cristo era comunista! Non solo, ma posso anche dimostrarvelo!”

“Forza allora, dimostralo” - incoraggiò uno del gruppo che sembrava enormemente interessato a tutta la faccenda.

“Subito” – disse con foga il giovanotto e dopo essersi guardato attorno con aria di sfida, aggiunse: “Quando Cristo risuscitò salì al cielo con una bandiera in mano. Lo sapete di che colore era questa bandiera?”

Fece una pausa drammatica e nel silenzio profondo degli altri scandì: “Rossa! Rossa!”:

Lasciando il gruppo ormai caduto in una perplessità sbigottita, il prete si allontanò facendo tra di sé divertite considerazioni sull’ignoranza umana. Per tutto il resto della mattinata e per buona parte del pomeriggio egli fu occupato in chiesa e solo verso sera poté uscire per recarsi come sempre faceva a scambiare quattro chiacchiere con il farmacista.

Stava perciò riattraversando la piazza quando gli giunse improvviso all’orecchio un rumore di sedie e di tavoli rovesciati assieme ad un confuso vocio proveniente dal caffè e immediatamente di seguito vide un uomo che, dopo essersi fermato un istante sulla soglia del locale gridando a squarciagola: “è bianca! è bianca!”, rapidamente s’eclissava nell’ombra della sera mentre un altro individuo furente e gesticolante si lanciava ad inseguirlo.

A scanso d’equivoci il prete decise sull’istante di non intromettersi nella questione ma di accelerare piuttosto la navigazione verso il tranquillo porto della farmacia. E qui un’altra sorpresa lo attendeva: il farmacista, sovvertendo quella che ormai era una tradizione, invece di dirgli il consueto: “come va, reverendo?”, sollevò appena gli occhi da un libro di ricette che stava consultando e chiese con aria ironica:

“E’ bianca o rossa? Lei dovrebbe saperlo”

“Ma cosa?”, domandò il prete sbalordito.

“La bandiera, la bandiera che Cristo ha in mano quando sale al cielo – disse calmissimo il farmacista e seguitò: “in paese oggi non s’è parlato d’altro”.

“Sciocchezze!” – tagliò corto il prete. E tirò fuori un discorso qualsiasi. Ma l’indomani mattina mentre dopo aver detto messa egli indugiava in sacrestia e sentiva pesargli addosso lo sguardo impaurito del sacrestano il cui viso si era addirittura trasformato in un enorme punto interrogativo, vide comparire la massiccia figura dell’avvocato Z, uomo di provata fede democratica.

“Reverendo” – disse quest’ultimo a bassa voce e avvicinandosi tanto da fargli sentire il caldo fiato odorante di mattutine libagioni! – “Reverendo, qui la cosa è semplice e io sono un uomo di mezza parola. Dunque ci siamo capiti”.

“Ma io non ho capito niente!”- insorse disperatamente il prete – “E lei non ha detto neppure quella mezza parola che è solito dire!”.

“Reverendo, non faccia lo gnorri e non mi faccia scappare la pazienza!”.

E avvicinando ancora di più la bocca all’orecchio dell’altro impaurito soffiò: “Bianca!”.

“Ma …”.

“Non ho altro da dire. Baciolemani” – concluse secco l’avvocato e uscì.

Sconvolto, a mezzogiorno il prete non poté toccare cibo. Se ora assieme agli ignoranti si mettevano a discutere anche le persone che si credevano colte, le cose si sarebbero messe certo a male.

Dove si andava a finire di questo passo? E quel giovanotto brutto coi basettoni che aveva attizzato tanto fuoco chi era, il diavolo?

A sera, mentre rimuginando continui pensieri si dirigeva verso la farmacia, da una traversa gli si parò davanti un uomo che il prete riconobbe per uno dei più accesi estremisti del paese.

“Reverendo – disse tutto d’un fiato l’uomo – so che stamattina è venuto da lei l’avvocato Z. Questo disgraziato in vita sua non ha fatto altro che cambiare le carte in tavola. Ma questa volta ha poco da cambiare perché io ho in tasca una santina dove c’è stampato Gesù che sale in cielo con una bandiera rossa in mano e se l’avvocato s’arrischia a dire qualcosa gliela faccio mangiare, gliela faccio. Io so che lei, malgrado sia un prete, è un galantuomo. Perciò voglio metterla in guardia: se Cristo non risuscita con la bandiera rossa, domani in chiesa e in paese finisce a macello. Non le dico altro. Buonasera”.

E l’uomo sparì misteriosamente così come era venuto, mentre il parroco come un automa riprendeva a camminare verso la farmacia. Qui fu accolto senza una parola dal volto preoccupato del farmacista. Il prete si abbandonò di peso su di una sedia e asciugandosi il sudore della fronte esclamò:

“Dio mio, illuminami tu!”.

“Cattivo tempo!” - disse il farmacista alzando gli occhi al tetto come per scrutare delle nuvole cariche di pioggia e aggiunse:

“Ma lei una soluzione deve trovarla”.

“Tra l’altro – sospirò il prete – ora è troppo tardi per informare i miei superiori della situazione”.

Il farmacista non rispose. A parte il fatto che non era Dio, non aveva proprio nessuna idea in proposito. Allora il prete si alzò, disse un buonasera a fior di labbro.

Il giorno dopo la chiesa era inverosimilmente gremita di gente con occhi rossi dal sonno perduto (avevano tutti trascorso la notte a coprirsi d’insulti) che si scambiavano a voce alta supposizioni e commenti.

Quando un istante prima di incominciare la messa il prete sporse la testa dalla sacrestia, mille occhi s’appuntarono su di lui. Ma egli appariva così straordinariamente tranquillo e sorridente che il farmacista, andato anche lui in chiesa per vedere come andava a finire la faccenda, tirò un sospiro di sollievo e si sentì rassicurato.

“Ha trovato la soluzione” – pensò e guardò con curiosità il telone nero che copriva, sospeso da una funicella sull’altare maggiore, la statua del Cristo resuscitante e che al momento opportuno sarebbe stato tolto via acquietando così l’attesa spasmodica e minacciosa del paese.

Ma un silenzio spesso e pesante come nebbia calò sui presenti appena giunse il momento di scoprire la statua. Tutti trattennero il respiro e serrarono i denti mentre il prete, con un gesto deciso, ingiungeva al sacrestano di tirare via il telone. Il silenzio durò ancora un attimo a telone caduto, poi una risata immensa e irrefrenabile scoppiò da tutte le bocche, fece fuggire i colombi in amore dal tetto della chiesa, eclissò addirittura il suono delle campane festanti.

Il prete, per non scontentare nessuno, aveva del tutto tolto la bandiera dal braccio levato in alto della statua. E Cristo, salendo al cielo con la mano destra chiusa a pugno e alzata al di sopra della sua testa, rivelava agli uomini, col ben noto saluto, la sua vera e profonda convinzione politica.


LA QUESTIONE MERIDIONALE SECONDO GRAMSCI ***

 


SUDISMO CULTURALE - cultural southernism

“In Gramsci la questione meridionale assumeva per la prima volta centralità in un’ottica rivoluzionaria.”

(Edward Said, Culture and Imperialism, Knopf, New York 1993)

- [Gramsci mostra] in che modo un’unica formazione sociale possa contenere al suo interno la combinazione di più modi di produzione, generando non solo squilibri o specificità regionali, ma anche diversi modi di incorporare i cosiddetti settori «arretrati» entro il regime di capitale (per esempio, il Meridione nella nazione italiana; la sponda settentrionale del Mediterraneo entro i più avanzati settori «settentrionali» dell’Europa industrializzata; le economie «contadine» nelle società asiatiche e latinoamericane sulla via dello sviluppo capitalistico «dipendente»; le enclave coloniali nello sviluppo dei regimi capitalistici metropolitani). Da un punto di vista teorico, si deve notare il modo persistente in cui queste forme specifiche e differenziate di incorporazione sono state costantemente associate al sorgere di segmentazioni razziste o etniche o con caratteristiche sociali di questo tipo.

(Stuart Hall, L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità, in Cultura, razza, potere, ombre corte, Verona 2015)

Pezzo ripreso da

Subaltern studies Italia


Giovedì prossimo, alle 18.30, al BALUARDO VELASCO di MARSALA


 

UN' EREDITA'  DA  NON  DISSIPARE

Non è facile riassumere in due parole un libro di 400 pagine, che raccoglie una ricerca durata una vita, e che poteva superare le 500 pp. se avessi voluto citare e commentare tutti i libri sul tema usciti tra il 2022 e il 2023. Ma ci provo: Gramsci, Pasolini e Sciascia - tre giganti del nostro 900 - hanno lasciato una preziosa eredità in gran parte incompresa e dissipata. Il libro documenta ampiamente i punti d'incontro e le differenze tra i tre autori, con puntuali riferimenti alle fonti citate spesso in modo deformato da tanti pubblicisti. Anche se il nostro tempo è molto cambiato rispetto a quello in cui si sono formati i tre, continuo a pensare che hanno ancora tanto da dirci. Sarebbe davvero un peccato mortale dimenticarli.(fv)

 


LA MEMORIA CORTA DI TANTI DISCEPOLI DI DANILO DOLCI

 


I 100 anni dalla nascita di Danilo Dolci, quell’omissione sulle accuse al padre di Mattarella e la condanna per diffamazione

di Giuseppe Pipitone | 1 LUGLIO 2024,  IL FATTO QUOTIDIANO

 

Lo hanno ricordato come il Gandhi di Sicilial’attivista non violento che scelse una delle terre più povere d’Europa per lottare in difesa degli ultimi. Ma se quell’isola era alla fame, la responsabilità era anche dello strapotere di Cosa nostra e dei suoi legami col potere politico. Ecco perché oltre a essere sociologo e poeta, Danilo Dolci fu anche cronista e attivista antimafia: fu il primo a indagare sul sistema clientelare che ha regolato i rapporti politici dal Dopoguerra. Ed è partendo da questo tipo di analisi che Dolci arrivò a denunciare i rapporti tra i boss ed esponenti di primo piano della Democrazia cristiana. Per questo motivo venne processato e condannato. Queste vicende, però, sono completamente scomparse dai ricordi pubblicati da giornali e dai siti d’informazione nel centenario della nascita del sociologo. Un’omissione abbastanza rilevante, se pensiamo che a portare a processo Dolci fu anche Bernardo Mattarella, il padre dell’attuale presidente della Repubblica. Ma andiamo con ordine.

Il primo processo – Originario di Sesana – oggi in Slovenia, ma all’epoca in provincia di Trieste – Dolci visse gran parte della sua vita a Trappeto, minuscolo centro tra Palermo e Trapani, dove all’epoca la miseria era talmente nera che i bambini potevano pure morire di fame. Molto si è scritto delle denunce di Dolci sulle condizioni di vita dei contadini in quella Sicilia del Dopoguerra. Il sociologo è l’inventore dello sciopero al contrario: nel 1956 organizza centinaia di disoccupati, che si mettono all’opera per ricostruire una strada abbandonata. Per questo motivo finisce sotto processo con l’accusa di invasione di terreni. In sua difesa si schierano tra gli altri Norberto BobbioItalo Calvino, Alberto MoraviaBertrand RussellJean-Paul Sartre. Ad assisterlo come avvocato c’è Piero Calamandrei, che nella sua arringa chiede l’assoluzione con queste parole: “Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!”. Le tesi del padre costituente non bastano a convincere il giudice di Partinico: alla fine Dolci viene condannato a 50 giorni di reclusione.

Le accuse a Mattarella – Ma a essere omesso, nel centenario della nascita, è soprattutto il secondo processo al quale fu sottoposto il Gandhi di Sicilia. Una vicenda ancora oggi controversa, ma storicamente rilevante e che per questo motivo merita di essere ricordata. È il 1965 quando Dolci convoca una conferenza stampa a Roma, per presentare un dossier appena illustrato alla Commissione Antimafia, che sarà poi pubblicato nel libro Chi gioca solo (Einaudi). In quei documenti il sociologo accusa di collusioni con la mafia alcuni tra i democristiani più importanti dell’epoca in Sicilia: Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Entrambi deputati fin dai tempi dell’Assemblea costituente, in quel momento sono rispettivamente ministro per il Commercio Estero e sottosegretario alla Sanità del secondo governo di Aldo Moro. Le accuse di Dolci provocano molto clamore, i due politici reagiscono con una querela: il sociologo finisce di nuovo alla sbarra, insieme al suo collaboratore Franco Alasia. A difendere Mattarella ci sono due principi del foro: Giovanni Leone, già presidente della Camera, del Consiglio e futuro capo dello Stato, e Girolamo Bellavista, già deputato e in passato difensore di Michele Navarra, capomafia di Corleone, ma poi anche del suo assassino, il boss Luciano Liggio. Molto tempo dopo il nome di Bellavista comparirà tra gli iscritti alla loggia massonica P2: l’avvocato, però, era già morto da cinque anni quando nel 1981 gli elenchi di Licio Gelli diventano di dominio pubblico.

La condanna del Gandhi di Sicilia – Vista anche l’importanza dei protagonisti, il processo a Dolci e Alasia diventa un caso politico-giudiziario. Per due anni i giornali seguono le udienze in cui sfilano decine di testimoni: Giulio Andreotti, il cardinale Enrico RuffiniCharles Poletti, il commissario per gli Affari civili dell’Amgot, il governo militare americano nell’Italia occupata. Alla fine Dolci e Alasia non riescono a dimostrare le loro accuse contro Mattarella e Volpe: il 21 giugno 1967 il tribunale li condanna a due anni per diffamazione. Una pena che non viene scontata grazie all’indulto, approvato alcuni mesi prima. La sentenza verrà confermata dalla Corte d’Appello nel 1972 e poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Nelle motivazioni si legge che “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”. Secondo i giudici il padre di Sergio Mattarella ha “portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l’atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. I magistrati non credono alle accuse di Dolci e Alasia: “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati nient’altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”. Bernardo Mattarella non riuscirà a vedere Dolci condannato in via definitiva: morirà infatti l’1 marzo del 1971, un anno prima della sentenza di secondo grado, colpito da un malore mentre si trova Montecitorio. All’epoca era presidente della Commissione Difesa, dato che a partire dal 1966 Moro lo aveva estromesso dal suo terzo governo. Era appena cominciato il processo a Dolci, ma l’esclusione di Mattarella dall’esecutivo venne motivata semplicemente con “questioni di equilibrio” tra le correnti della Dc.

I Kennedy di Sicilia – La vicenda della condanna del Gandhi italiano per la diffamazione di Mattarella senior rimarrà confinata sulle vecchie pagine dei quotidiani fino al 2015, quando il figlio minore dell’ex ministro viene eletto al Quirinale. A quel punto tornano di attualità le ombre proiettate in passato sul patriarca della famiglia che in tanti definiscono “i Kennedy di Sicilia“. Come la dinastia del presidente Usa ucciso a Dallas, infatti, anche i Mattarella hanno avuto una storia politica costellata dai lutti e dal dolore: alle accuse di contiguità lanciate nei confronti del vecchio Bernardo (mai dimostrate e sempre smentite), si affianca l’attività antimafia del figlio Piersanti, il suo secondogenito. Fratello maggiore di Sergio, presidente della Regione Siciliana e allievo politico di Moro, venne ucciso da Cosa nostra e forse non solo. I killer lo ammazzano sotto casa il giorno dell’Epifania del 1980: tra i primi soccorritori, pochi minuti dopo gli spari, c’è anche il futuro capo dello Stato, fotografato da Letizia Battaglia mentre regge il cadavere del fratello, riverso sui sedili dell’auto. Nel febbraio del 2015 quell’istantanea in bianco e nero diventa la copertina dell’elezione al Quirinale dell’ultimogenito dei Mattarella, i Kennedy di Sicilia.

L’altra causa – Quando diventa il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella ha già avanzato una richiesta di risarcimento danni da 250 mila euro nei confronti dello scrittore Alfio Caruso. Insieme ai nipoti Bernardo junior e Maria, infatti, il futuro capo dello Stato aveva accusato l’autore del volume Da Cosa nasce cosa (Longanesi) di aver “infangato la figura di Mattarella padre” e di aver descritto “in maniera grossolana” i rapporti politici del fratello Piersanti. Il libro era uscito nel 2000, ma i Mattarella fanno causa solo nel 2009. Otto anni dopo, nel 2017, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Maura Cannella condanna Caruso al pagamento di 30mila euro. Alla base di questa sentenza, poi confermata in Appello, c’era anche la vecchia condanna di Dolci, prodotta dai difensori della famiglia Mattarella. A nulla sono servite, durante il processo, le richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale di Caruso, che ha sostenuto come la sentenza del 1967 appartenenesse “a quella giurisprudenza reazionaria che spesso negava la stessa esistenza della mafia”. Il difensore ha depositato anche alcune dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, arrivate molti anni dopo la condanna di Dolci per diffamazione: entrambi avevano accusato il padre dell’attuale dello Stato di aver avuto legami con Cosa nostra. Agli atti era stato depositato anche un verbale del 2016 in cui il pentito Francesco Di Carlo sosteneva di aver conosciuto Mattarella senior in qualità di “uomo d’onore” di Castellammare del Golfo, il borgo marinaro in provincia di Trapani da cui proviene la famiglia del presidente. Dichiarazioni, queste ultime, che il tribunale ha giudicato “tardive” rispetto ai termini istruttori.

La richiesta di revisione – È sempre utilizzando i verbali di Buscetta, Mannoia e Di Carlo che nel 2016 Repici chiede alla corte d’Appello di Roma di aprire un procedimento di revisione sulla sentenza di condanna di Dolci e Alasia. A sostegno della sua richiesta, l’avvocato sostiene che “successivamente al passaggio in giudicato della condanna (confermata dalla Cassazione nel ’73) sono intervenuti incontrovertibili elementi di prova che impongono, oggi, il proscioglimento dei due condannati”. Insomma: non sarebbe stato possibile condannare Dolci per diffamazione se le dichiarazioni di Buscetta, Mannoia e Di Carlo fossero già esistite negli anni ’70. Secondo l’avvocato, se Mattarella fosse stato ancora vivo negli anni in cui erano arrivate le dichiarazioni dei pentiti, “sarebbe seguita la sua iscrizione sul registro degli indagati per il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”. E ancora, nel vecchio processo per diffamazione, Repici sottolineava la “pregiudiziale inattendibilità dei testimoni a discolpa in ragione dell’estrazione sociale o politica“: insomma, i giudici non ritennero credibili i testi a favore di Dolci perché erano tutti comunisti. Secondo l’avvocato, dunque, appariva “ormai doveroso che la memoria di Dolci, persona che ha illustrato la nazione italiana in ogni angolo del pianeta per il suo eccelso impegno sociale e umanitario che gli ha conquistato la fama di Gandhi italiano, e la figura del suo collaboratore Alasia vengano finalmente risarcite e sgravate da un’infame condanna, anche per liberare la giurisdizione italiana da un pronunciamento che ha segnato uno dei punti più bassi in materia di mafia e di antimafia”. La corte d’Appello di Roma, però, ha rigettato quella richiesta: per i giudici non ci sono gli estremi per aprire un procedimento di revisione. Dolci, dunque, resta condannato per aver diffamato Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Una vicenda sicuramente controversa, ma che provocò grande clamore mediatico. E che ebbe una profonda influenza nella vita di Danilo Dolci. Ecco perché ometterla tout court non rende probabilmente un buon servizio alla memoria del Gandhi di Sicilia. E in fondo neanche a quella del Paese.

Giuseppe Pipitone ,  IL FATTO QUOTIDIANO  1 luglio 2024