01 ottobre 2024

STRONCATURE

 



Tante stroncature, secondo me, sarebbe meglio ignorarle. E la migliore stroncatura per certi autori - tra questi, al primo posto, metterei Walter Siti - credo che sia il silenzio. (fv)


Fenomenologia della stroncatura
di ALFIO SQUILLACI
La stroncatura elegante della Kulturkritik

In questa carrellata di stroncature non si possono ignorare, fuori dallo stretto recinto letterario, le sferzate inferte nel terreno più vasto della "Kulturkritik". Qui occorre sicuramente segnalare "Stili dell'estremismo" di Alfonso Berardinelli (Editori Riuniti, 2001). Si tratta di una serie di "medaglioni" dei seguenti intellettual: Franco Fortini, Elémire Zolla, Roberto Calasso, Mario Tronti, Martin Heidegger, Emanuele Severino, Jacques Derrida, Émile Cioran. Il titolo del libro non è un invito al pensiero conformista. A Berardinelli interessa mostrare che «l'estremismo più che essere audacia e coraggio intellettuale è diventato ad un certo punto del Novecento rigidità e cifra stilistica, forma estetica, linguaggio che paralizza e svuota il pensiero dei suoi oggetti e contenuti reali». Gli stili dell'estremismo (retorica dell'oltranza, gergo dell'ontologia, coerenza teorica a scapito dei fatti ecc.) «si sono diffusi creando fenomeni che fanno pensare ad una vera e propria patologia del linguaggio». A questo libello, ai suoi colpi di frusta, devo un duplice vaccino: contro Heidegger e contro Cioran. Autori di cui prelevo due estratti dal libello di Berardinelli.
A) Heidegger. «Con Heidegger il pensiero filosofico assume volentieri la posizione primordiale del devoto e dell'orante. Cosí è avvenuto che quel pensiero si sia inchinato con irreprensibile pietas davanti all'accadere delle camicie brune e all'avvento del Führer.
Se proprio ci si deve inchinare nell' attitudine della preghiera, sempre meglio le divinità delle grandi e piccole religioni tradizionali piuttosto che l'Essere nel Tempo o lo Spirito del Mondo. E poi guardare bene, prima di inchinarsi, la cosa davanti a cui ci si inchina sarà un'empietà critica, ma è una precauzione illuministica che comunque va presa. [...] Come gomma da masticare, il gergo filosofico di Heidegger può essere ruminato senza fine. [...] L'esser-ci, il Da-sein è forse il massimo esempio novecentesco di categoria filosofica vuota, nella quale empiricamente si cancella e si nega ( non si vede) esattamente ciò che in teoria viene enfatizzato: cioè il modo di esistenza reale di chi pensa, nel momento e nella situazione in cui lo fa. Il maggior difetto dell'heideggerismo è un difetto di linguaggio. Dell'esser-ci hanno parlato molto meglio altri linguaggi (quello della narrativa, quello letterario in generale, quello dei diari e degli epistolari per esempio) che non il gergo dell'ontologia. Sartre è stato certamente un filosofo meno originale, rigoroso e suggestivo di Heidegger. Ma è stato almeno capace di parlarci del suo esser-ci, scrivendo splendide e acute pagine di autobiografia. Il che Heidegger non è mai riuscito a fare, restando avvolto per tutta la vita nella nebbia protettiva dei suoi eterni preliminari ad un pensiero che deve pur osare di pensare qualcosa, oltre che pensare in assoluto e in essenza».
B) Cioran: «Come autore di belle frasi tutte terribili E.M. Cioran non teme confronti. La sua maldicenza è inflessibile e soddisfatta. È globale. Il suo umore ha un costante colore bigio, livido, cinerino, violaceo, penitenziale e spavaldo. Coerente fino allo spasimo nella confessione puntigliosa dei suoi odii, Cioran ha già previsto tutto il peggio e perciò, in materia di sventure, disillusioni e distruzioni, non corre rischi […] In un’epoca popolata di caricature, questa perfetta caricatura dell’aforista amarissimo non è neppure un caso raro, sebbene finga la rarità e perfino l’unicità assoluta. Rappresentando la quintessenza del pensiero negativo e antiprogressivo, impersonandolo senza incertezze e senza ironia, Cioran è molto prevedibile. La sua regola, infatti, è questa: egli dirà, a proposito di qualunque argomento, la frase più pessimista che si possa concepire […] Perciò, senza saperlo né volerlo, Cioran si trova a essere con questa edizione italiana ciò che neppure in Francia poteva diventare: l’autore più esemplarmente, più manualisticamente "Adelphi" che la casa editrice Adelphi abbia pubblicato. Da qualunque parte cominci (l’esaurimento della civiltà europea, il destino di certi popoli, i vantaggi dell’esilio, il carattere ebraico, lo stile, i mistici ecc.), Cioran non perde tempo in preamboli. I massimi problemi sono il suo passatempo quotidiano. Essi sono sempre lì, davanti al suo occhio acrimonioso e splenetico. Naturalmente non c’è nulla, per quanto grande, che egli prenda sul serio, perché questo sarebbe inelegante: cioè, dal suo punto di vista, imperdonabile. Infatti non c’è questione che non si presenti a Cioran come una questione di gusto e stile. Parlando di Kleist afferma: ‘Ineguagliato, perfetto, capolavoro di tatto e di gusto, il suo suicidio rende inutili tutti gli altri’. Dove non si sa se prevalga l’estetismo, la mancanza di immaginazione o la prepotenza morale (anche suicidarsi, dopo la sua frase su Kleist, diventa una caduta nel cattivo gusto, è cioè proibito). Il suo modo di pensare si nutre appunto di infatuazioni, di piccoli dogmi personali e di quelle continue alzate di spalle con cui il parvenu dello Spirito deve sempre dimostrare di essere ‘il più fine’. [...] La lucidità di Cioran si trasforma così facilmente in puro stile della lucidità perché brancola su uno sterminato, artificioso spazio culturale in cui ogni elemento può essere confrontato con ogni altro, dopo essere stato ridotto a una sintetica fisiologia, morfologia o cifra morale. L’Esiliato, l’Occidentale, il Taoista, il Mistico Medievale, il Romanziere, il Russo, il Poeta, il Moralista, Yahweh, i Tedeschi, Prometeo, Giobbe: per tutti e per ogni condizione, Cioran trova una definizione e una formula, su tutto lancia la maledizione delle sue frasi. Ma ciò che la sua lucidità soprattutto non capisce è che la lucidità «metafisica» a cui egli aspira non è di una specie sola, non risponde a canoni generali e non veste sempre gli stessi panni. Chi aspira al Nulla non può fondare sul Nulla nessuna opinione. Cioran crede che il Nulla abbia delle preferenze in fatto di opinioni e di stile, e immagina che il suo stile sia ispirato, come le sue opinioni, dal Nulla in persona».
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Anche "Contro l'impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura" (2021) di Walter Siti è un libro impaziente e ricco di malumori critici da meditare attentamente e da tenere come livre de chevet. La questione al centro è quella, vecchissima, su quale sia la reale missione dell'Arte. Ora, se il personaggio più torbido dell'Educazione sentimentale di Flaubert, ossia Sénécal (l'estremista à tout prix che significativamente negli sviluppi successivi del romanzo in una giravolta plateale finirà con lo sparare contro i propri ex compagni), protesta nella prima fase del radicalismo ricattatorio contro tutti i flebili e gli indecisi: «L'arte deve essere finalizzata esclusivamente alla moralizzazione delle masse! Solo i soggetti letterari che incoraggiano le azioni virtuose devono essere riprodotti; tutto il resto è dannoso»... Se invece Flaubert, di tutt'altro avviso rispetto al proprio protagonista (a cui assegna la parte del 'villain', alla faccia della sua pretesa 'imparzialità' - altrove ho osservato che nei dettagli e nella distribuzione dei ruoli Flaubert "rompe" coi suoi principi estetici) allorché scrive a Maupassant il 19 febb.1880: «Ciò che è bello è già morale, ecco tutto, e nient'altro di più da aggiungere»... Se Arbasino motteggiava in "Un Paese senza" «Una volta per tutte: le "denunce" si fanno in Questura, le "istanze" si presentano ai Superiori, i "messaggi" si spediscono per posta»... Se infine gli stessi fondatori del materialismo storico, Marx e Engels (cfr. i loro "Scritti sull'arte", Laterza 1976) ammonivano a non scrivere romanzi "a tesi", virtuosi e tutti dalla parte del Bene, e amavano uno scrittore tutt'altro che progressista, anzi codino e legittimista come Balzac... Ebbene appare più che sensato asserire che Siti si pone sulla scia di Flaubert, Arbasino e Marx e Engels. Siti, in questi saggi sul neo-impegno considera ovviamente la letteratura come intransitiva, impegnata sì, ma esclusivamente nella problematica della sua stessa testualità. La distingue dall'oratoria (epidittica), come mero strumento espressivo della "buona causa", e le assegna il carico e l'incarico di veicolare nella rappresentazione il più possibile "en artiste" - ossia col soggetto davanti a sé, staccato dal redattore del testo - , le ragioni della profondità inattesa e della complessità sorprendente del Reale che solo la letteratura nella sua ambiguità suprema sa cogliere. Siti, è sobrio, garbato, ironico, schiva l'affondo polemico, ma punge se non come uno scorpione come una vespa. "Strazia" perciò Saviano, Murgia, Carofiglio, D'Avenia, Arminio, Mannocchi ecc. di cui non è qui importante riprendere i giudizi critici. Questo libro è scritto da un letterato anziano che sa maneggiare il suo argomento con leggerezza e maestria. Si concede anche la flemma di non rovesciare il tavolo e di suggerire implicitamente per fare buona letteratura, anche impegnata, almeno tre modalità:
1.« l’assoluta onestà intellettuale ed emotiva, la naturale incapacità di aderire agli stereotipi«». In E. Carrère.
2. «lasciar entrare nel testo il discorso dell’avversario, stratificare il testo stesso come una struttura dialettica perennemente aperta al dubbio». In B. Brecht.
3. Questa potrebbe essere la terza, ineludibile caratteristica: «ammettere una subordinazione e una passività dell’impegno rispetto al farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene. “Poi piovve dentro a l’alta fantasia”». In Dante.
[Segue]
P.s. Avrei voluto aggiungere i sublimi ritratti-stroncature di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti per mano di Alberto Arbasino in "Ritratti italiani". Ma il post è già lungo e un tantino indigesto.

ALFIO SQUILLACI da La Frusta letteraria

LA GRANDE ABBUFFATA DELL' OCCIDENTE

 


"La grande abbuffata" (1979) di Marco Ferreri è un film audace e provocatorio che affronta tematiche profonde come la società dei consumi e l'autodistruzione. Attraverso la storia di quattro uomini che si ritirano in una villa per mangiare fino a morirne, il regista crea un'opera surreale e grottesca, ricca di ironia e critica sociale. Le performance degli attori, in particolare quelle di Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, sono straordinarie, dando vita a personaggi complessi e indimenticabili. Ferreri riesce a mescolare commedia e dramma, offrendo uno spunto di riflessione sul nostro rapporto con il cibo e il senso della vita. Un film che, sebbene provocatorio, invita a una profonda meditazione e rimane impresso nella memoria.

Il film di Ferreri oggi a me appare più attuale di quando uscì. Oggi, infatti, le spinte autodistruttive in Occidente sono più forti di ieri. (fv)