Oggi 1° maggio 2023 la rivista DIALOGHI MEDITERRANEI pubblica un mio articolo su un celebre libro di Leonardo Sciascia, letto distrattamente da tanti (me compreso) quando vide la luce. Lo ripropongo di seguito senza le note che possono essere lette sulla rivista accessibile gratuitamente sulla rete. (fv)
Rileggere “L’Affaire Moro” di
Leonardo Sciascia
di Francesco Virga
«Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è
vivo, forte, sicuro e duro.
Da un secolo, da più che un secolo, convive con
la mafia siciliana,
con la camorra napoletana, col banditismo sardo.
Da trent’anni coltiva la corruzione e
l’incompetenza
disperde
il denaro pubblico
in fiumi e
rivoli di impunite malversazioni e frodi» [1]
(L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio
1978: 63).
L’affaire
Moro di
Leonardo Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo
l’orribile strage della scorta di Aldo Moro, del suo sequestro e successivo
assassinio. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me compreso) e
stroncato da due grandi giornalisti [2]. Apparve frutto di una mente delirante dopo
che stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere
di Moro non erano state scritte da Moro.
Rileggerlo
dopo 44 anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la
luce. Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi
penali, inchieste parlamentari e tanti libri [3] pubblicati sul tema, appare ancora più
straordinaria questa singolare opera di Sciascia. Anche se non tutto convince,
come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e originale analisi
delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano [4], in assoluta solitudine, quando tanti
preferirono chiudere occhi e cervello.
Sciascia
finisce di scriverlo, come si evince dalla data del dattiloscritto, il 24
agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in mano, arriva persino a dubitare
di poterlo stampare in Italia. Per questa ragione, prima ancora di parlarne con
l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi per accertare che l’editore
Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua francese.
Appare
utile, per meglio comprendere L’affaire Moro, tenere presente il
contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la Corte di Assise
di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e alcuni presunti capi
storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri
della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi
giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento
condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia.
Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà
degli intellettuali che avrà in L. Sciascia e in G. Amendola i contendenti
maggiori [5].
[…]
In questo contesto Sciascia
scrive il libro che arriva in tutte le librerie italiane e francesi
nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato considerato un instant
book perché il suo contenuto riguarda quanto accaduto in Italia nei 55
giorni del sequestro Moro, dopo la strage della scorta, avvenuta a Roma il 16
marzo 1978.
A prima vista siamo di fronte ad un pamphlet, il
cui titolo richiama immediatamente alla memoria il celebre libretto di Emile
Zola che tanto clamore suscitò alla fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le
prime righe per capire che si tratta di ben altro. I primi due capitoli, i più
letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due scrittori
particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges.
Come ha ben visto Massimo Onofri siamo di fronte a un libro
profondamente sciasciano: in esso convergono «quella contro-storia d’Italia
tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con la
tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per
citare solo alcuni dei nomi a lui più cari), intesa come «sistema
trascendentale, repertorio di possibilità, della verità» [6]. Acuta ci appare anche la lettura che ne ha
fatto il critico più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è
un vero e proprio saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal
linguaggio e dalla comunicazione umana [7]. D’altra parte, in quasi tutti i libri di
Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo stile
saggistico prevale nettamente su quello narrativo.
Il prologo pasoliniano
Nelle prime sei pagine de L’affaire Moro Sciascia
riprende letteralmente brani interi del famoso articolo Il vuoto di
potere in Italia, pubblicato da Pasolini sul Corriere della
Sera il 1° febbraio 1975, raccolto successivamente nei suoi Scritti
corsari col titolo L’articolo delle lucciole. E
sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella crepa del muro della
sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a fargli tornare
alla mente Pasolini:
«Era proprio una lucciola […].
Ne ebbi una gioia immensa. E come doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato
– l’infanzia, i ricordi, […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini.
Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile
paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano,
Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e,
credo, di reciproche insofferenze» [8].
Le lucciole conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa
metafora pasoliniana: il Palazzo. Pasolini
voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente
democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro
pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di
aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle stragi
di Milano e Brescia. Pasolini arriverà a chiedere un vero e proprio
«processo penale» contro i dirigenti nazionali della DC [10].
Sciascia sottolinea, inoltre, che il famoso articolo pasoliniano
sulle lucciole si apre con la perentoria affermazione secondo la quale «il
regime democristiano» è «la pura e semplice continuazione del regime fascista»
(AM:15) – tesi questa, in più occasioni, ripresa e condivisa dal nostro autore.
Ancora più significativa appare la citazione di un altro testo
fondamentale di Pasolini della metà degli anni sessanta, forse uno dei più
gramsciani dello scrittore bolognese, notato da Sciascia fin dal 1965 sulle
pagine del giornale palermitano L’ORA, in un corsivo
intitolato La lingua di Moro:
«L’onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull’asse Milano-Torino. E dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell’oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi elettori nei Viceré di Federico De Roberto […]. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete» [11].
Sciascia era rimasto talmente
colpito dal linguaggio di Moro, e dall’analisi che ne aveva fatto Pasolini nel
1965, da tornarci 13 anni dopo in questo prologo de L’affaire Moro:
«Pasolini aveva parlato del
linguaggio di Moro in articoli e note di linguistica (e si veda il libro Empirismo
eretico [12]). […]. “Come sempre – dice Pasolini – solo
nella lingua si sono avuti dei sintomi”. I sintomi del correre verso il vuoto
di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, “la pura e
semplice continuazione del regime fascista”. Nella lingua di Moro, nel suo
linguaggio completamente nuovo e però, nell’incomprensibilità, disponibile a
riempire quello spazio da cui la Chiesa cattolica ritraeva il suo latino
proprio in quegli anni. [...]. Pasolini non sa decifrare il latino di Moro,
quel “linguaggio completamente nuovo”: ma intuisce che in quella
incomprensibilità, […], si è stabilita una “enigmatica correlazione” tra Moro e
gli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo
latino (che è ancora il latinorum che fa scattare d’impazienza
Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia
pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In questo breve inciso
di Pasolini – “per una enigmatica correlazione” – c’è come il presentimento,
come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la
“correlazione” era una “contraddizione”: e Moro l’ha pagata con la vita. Ma
prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per
circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo “linguaggio completamente
nuovo”, sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso
diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi
capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato
per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio
dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da
prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata»[13].
Letteratura e storia. Borges,
Pasolini e le ossessioni di Sciascia
Indubbiamente la grande letteratura ha aiutato spesso a
comprendere le cose e la stessa verità storica dei fatti più di tanti libri di
storia, di sociologia e di scienza della politica. Sciascia ne è stato sempre
consapevole e, in una intervista rilasciata a un celebre giornale francese, ha
ben sintetizzato il suo punto di vista:
«Credo che all’uomo – all’uomo umano – non resti che la letteratura per riconoscersi e riconoscere la verità. Il resto è macchina, è statistica, è totalitarismo. È il sistema della menzogna: la grande mostruosa macchina che ingoia tante verità per restituirle in menzogna. E lo Stato finirà per identificarsi in questa macchina, se non si è già identificato. Non avrà niente a che fare con l’uomo, con la nozione dell’uomo che ancora abbiamo e che troviamo nella letteratura» [14].
Ma Sciascia ne L’affaire Moro, ripensando a due
suoi precedenti racconti, Il Contesto e Todo modo, scritti
nei primi anni settanta, afferma che con essi era riuscito a prevedere quanto
accaduto in Italia negli anni successivi (le cosiddette Stragi di Stato di
Milano, Brescia, Bologna, ecc. compresa la strage di via Fani e il sequestro
Moro) [15].
Qui diventa opportuno ricordare la recensione fatta proprio da
Pasolini di Todo modo che, evidentemente, ha tanto influenzato
Sciascia. In un passaggio di essa lo scrittore corsaro afferma:
«Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come diranno i futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un’aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità» [16].
Che questa lettura pasoliniana
di Todo modo abbia suggestionato Sciascia è indubbio. I suoi
amici romani riferiscono che, nei 55 giorni del sequestro Moro, Sciascia era
davvero ossessionato dall’idea che l’immaginazione e la scrittura abbiano
straordinari poteri creativi [17].
Nel libro che stiamo analizzando lo stesso autore, facendo
riferimento ad un racconto di Borges contenuto nelle sue Ficciones (Pierre
Menard, autore del Chisciotte), scrive:
«come il Don
Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una
realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte
dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da
una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene
ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il
contesto e Todo modo […]. Lasciata, insomma, alla
letteratura la verità, la verità – […] – sembrò generata dalla letteratura»[18].
Massimo Onofri ha intravisto in
queste parole di Sciascia un nuovo modo di intendere la letteratura che, invece
di rispecchiare la realtà, profeticamente la crea [19]. Ancora più discutibile mi sembra il punto
di vista di Bruno Pischedda secondo il quale lo scrittore siciliano ha ripreso
da Pasolini l’«attitudine vaticinante, il piacere inorgoglito del presentimento
e della prefigurazione» [20]. Credo che, se si vuole davvero cercare di
comprendere il valore di quest’ opera, occorre evitare gli opposti estremismi
dell’esaltazione e della denigrazione. Dal punto di vista strettamente
letterario non credo che si tratti del capolavoro dello scrittore siciliano.
Vale la pena, al riguardo, ripetere quanto scrisse lo stesso Sciascia contro
Eugenio Scalfari che, subito dopo le prime anticipazioni giornalistiche del
contenuto del libro ancora inedito, ne elogiava ipocritamente la forma
letteraria per contestarne meglio il contenuto; al giornalista il maestro di
Racalmuto replicò così: «Ma è possibile […] che il libro non abbia qualità
letterarie; che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura
verità» [21].
Penso, inoltre, che sia sbagliato ritenere che Sciascia, con
questo libro, abbia cambiato il suo modo d’intendere la letteratura. Il pregio
maggiore de L’affaire Moro, secondo me, va ricercato soprattutto
nel coraggio mostrato dall’autore di andare controcorrente nell’interpretazione
delle lettere scritte da Moro durante il suo sequestro, dimostrando ancora una
volta di non avere mai avuto timore di contrapporsi a qualsiasi potere
costituito [22]. E sta qui una delle cifre distintive
dell’intera produzione letteraria di Leonardo Sciascia, come è dimostrato anche
da una intervista rilasciata negli stessi giorni in cui scrive L’affaire
Moro:
«Le fa piacere passare per uno
scrittore impegnato? (Domanda dell’intervistatore)
Certo, io mi sento “impegnato”: ma con me stesso e con gli altri “me stessi”. I due più grandi scrittori impegnati che io conosco sono André Gide e Georges Bernanos, ed essi lo furono veramente, fino in fondo. Tuttavia, il primo, che si sentiva comunista, scrisse la verità sull’Unione Sovietica, e il secondo, che era cattolico, scrisse contro il mondo cattolico che esaltava la crociata di Franco. Ben vengano dunque gli intellettuali impegnati, ma purché si battano sempre contro il Principe, contro i Poteri, contro le Chiese, anche se si tratta di quelle in cui credono» [23].
Sono sempre più convinto che la
cosa meno sciasciana da fare di fronte a tutti i suoi libri è quella di
prendere per verità assolute tutte le sue affermazioni, le sue opinioni, i suoi
giudizi politici, storici e letterari. Credo che non sia mai stato ben compreso
il senso pirandelliano di quella sua famosa affermazione: «vorrei che nella mia
tomba venissero scritte queste parole: contraddì e si contraddisse».
L’analisi critica delle lettere
di Moro. Sciascia diviso tra filologia e ideologia
Sciascia non ha dubbi sull’autenticità delle lettere scritte da
Moro durante la sua detenzione nella cosiddetta “prigione del popolo”. Moro
naturalmente sa di essere usato dai suoi carcerieri e di non potere, pertanto,
scrivere tutto quello che vuole. Allora si autocensura «adattando alla funzione
del dire il suo antico linguaggio del non dire» [24]. Lo scrittore siciliano, pur non avendo mai
stimato né provato alcuna simpatia per l’uomo politico, di fronte al
prigioniero inerme, di fronte all’«uomo solo, tradito, dato per pazzo dai suoi
stessi amici»[25], prova pietà e intravede nelle lettere che
i suoi carcerieri gli consentono di scrivere la disperata ricerca di salvare la
sua vita.
Sciascia nell’occasione dimostra una lucidità straordinaria. Quasi
da solo, grazie alla sua antica e radicata diffidenza nei confronti dello Stato
e di ogni forma di potere costituito, comprende le ragioni che spingono Moro,
rinchiuso nella prigione del popolo «sotto un dominio pieno e
incontrollato» (AM: 50), a cercare, con la sua collaudata arte del dire e non
dire, una via per salvarsi; e comprende benissimo il doppio gioco dei
brigatisti che fanno finta di consentire al prigioniero di scrivere in modo
riservato quelle lettere per sputtanarlo.
Tutto questo Sciascia lo comprende subito dopo la prima lettera
indirizzata al Ministro degli Interni Francesco Cossiga (definito capo
degli sbirri nel comunicato delle BR che accompagna la lettera) che
gli stessi brigatisti rendono pubblica, inviandola in più copie ai principali
quotidiani nazionali. Sciascia, prima di analizzare il testo della lettera di
Moro, è colpito da un passo del messaggio delle BR (il cosiddetto terzo
comunicato dalla prigione del popolo) che riproduce:
«Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica» [26].
Moro, secondo Sciascia, non è
mai stato uno statista ma un mediocre politicante. E le stesse lettere che
invia alla famiglia e ai suoi amici di Partito stanno a dimostrarlo. Ma la vera
ragione per cui Sciascia stima poco Moro è dovuto principalmente al severo
giudizio ch’egli, in tutti i suoi precedenti libri e in tutta la sua attività
giornalistica, ha sempre espresso sul partito di cui Moro è stato uno dei
massimi dirigenti.
Al riguardo merita di essere
ricordato un particolare riferito da Matteo Collura nella sua eccellente
biografia del maestro di Racalmuto. Il giornalista racconta in maniera
documentata che Sciascia apprende la notizia del rapimento di Moro e della
strage di via Fani in casa di amici siciliani che avevano un vivo ricordo delle
polemiche suscitate tanti anni prima dalla candidatura di don Peppino Genco
Russo nelle liste locali della Democrazia Cristiana di Mussomeli (CL). In
quel periodo Moro era Segretario Nazionale del Partito e venne personalmente
investito dalle polemiche perché, dopo aver declinato ogni responsabilità e
competenza sul caso specifico, ebbe l’imprudenza di affermare che «non sembra
che ci sia qualcuno disposto ad affermare e a provare quanto si addebita a
Genco Russo» [27]. Chi non poteva avere dubbi sul carattere
mafioso del padrino di Mussomeli, erede di Don Calò Vizzini,
era proprio Sciascia che nel 1965 aveva avuto modo di intervistarlo per conto
del settimanale Mondo nuovo [28]. Comunque, dopo le polemiche, Genco Russo
venne giudicato socialmente pericoloso e allontanato dalla
Sicilia.
L’analisi critica compiuta da Sciascia delle lettere scritte da
Moro nel periodo del suo sequestro, parzialmente pubblicate dalla stampa, è
davvero esemplare. Particolare attenzione il nostro autore presta alla lettera pubblicata
dai giornali il 10 aprile 1978, che lascia intravedere una chiave di lettura
de L’affaire Moro completamente diversa da quella accreditata
dall’opinione pubblica e, almeno in parte, dallo stesso scrittore. La
lettera viene riprodotta quasi integralmente nelle pp. 68-72 del libro,
riconoscendone immediatamente l’autenticità e l’importanza, in polemica con
Montanelli, Antonello Trombadori e un gruppo di «amici di Moro» che ripetono di
non riconoscere nella lettera il Moro che hanno conosciuto.
A prima vista il documento sembra un attacco personale di Moro al
senatore Taviani, uno dei principali esponenti della DC contrari all’ipotesi di
trattare con le BR; una delle tante polemiche interne tra le correnti
democristiane cui quel partito ci aveva abituati. Nella lettera si ricostruisce
sommariamente la carriera politica del senatore che, nel periodo in cui era
stato Ministro della Difesa e dell’Interno, aveva avuto contatti frequenti con
il «mondo americano» e con «Centri di potere e diramazioni segrete» (AM: 71).
Alla fine della lettera Moro si pone una domanda inquietante: «Vi è forse, nel
tener duro contro di me, una indicazione americana e tedesca?» (AM:74).
Insomma, leggendo attentamente la lettera, sembra che lo stesso
Aldo Moro sia arrivato a sospettare «interferenze di
ambienti americani» nel suo sequestro. Sciascia lascia cadere la pesante
domanda di Moro senza trarne tutte le conseguenze; si limita soltanto ad
osservare:
«se Moro formalmente, retoricamente, se lo domanda, non vuol dire che sostanzialmente ne è certo? E dunque l’azione delle BR – nell’aver catturato Moro, nel tenerlo prigioniero – corrisponde anche a un disegno americano e tedesco, vi concorre involontariamente, casualmente lo agevola o addirittura ne è parte?» (AM: 74-75).
Sciascia non va oltre questi
punti interrogativi. Ma l’ipotesi della regia e della diretta partecipazione
dei servizi segreti americani nell’affaire Moro sarà ripresa
vent’anni dopo da un Magistrato, fratello di Aldo Moro [29]. Né può essere dimenticata la testimonianza
della vedova Eleonora Moro che, di fronte alla Commissione parlamentare
d’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro, affermerà candidamente che l’assassinio del consorte «è stato
deciso molto in alto», convinta che le BR hanno soltanto svolto l’apparente
funzione di esecutori e manovali di morte [30] .
È strano che Sciascia su questo punto appaia evasivo e finisca per contraddirsi. Infatti, dimenticando quanto affermato precedentemente, sposta la sua attenzione critica dalla DC al PCI, accusando quest’ultimo d’essere stato il principale ostacolo ad una trattativa con le BR che potesse salvare la vita di Moro. Così nella parte finale del libro la polemica e la critica al partito comunista di Enrico Berlinguer supera in veemenza quella contro la DC. Avrà sicuramente influito ad alimentare le critiche al PCI l'aspra polemica con Giorgio Amendola sulle vicende del processo torinese contro alcuni esponenti delle BR e l'ottuso attacco di Aniello Coppola al suo silenzio che lo scrittore non mancherà di riprendere in alcune pagine de La Sicilia come metafora [31].
Avrà avuto anche la sua parte il discutibile editoriale di Rossana
Rossanda apparso sul Manifesto del 28 marzo 1978 che attribuiva ai brigatisti
una patente marxista-leninista di stampo sovietico. Tant’è che lo stesso
Sciascia ideologicamente li considera «figli, nipoti o pronipoti del comunismo
stalinista», che si fanno grottescamente interpreti di «un’etica […] carceraria
maturata sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault»,
per introdurre una «esile vena libertaria nella loro pietrificata
ideologia» (AM:17)
Brigate rosse e mafia
Nel penultimo capitolo de L’affaire Moro Sciascia
analizza acutamente le somiglianze tra il comportamento delle Brigate rosse e
quello della mafia siciliana (Cosa nostra):
«Le BR funzionano perfettamente
ma (e il ma ci vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra,
quali che siano gli addentellati che possono avere con sette rivoluzionarie o
servizi segreti di altri paesi» [32].
Evidentemente questo passo
finale del suo libro dimostra tante cose: 1) Sciascia non ha dimenticato il
contenuto inquietante della lettera di Moro del 10 aprile 1978, precedentemente
analizzata, in cui, parlando dei rapporti del senatore Taviani coi servizi
segreti americani e tedeschi, arriva ad ipotizzare la regia straniera del suo
sequestro; 2) lo scrittore siciliano, pur avendo sempre rifiutato d’essere
considerato un mafiologo, è stato uno dei maggiori esperti
di Cosa nostra e non c’è un suo libro dove, in un modo o
in un altro, non c’entri la mafia; 3) particolarmente illuminante risulta il
riferimento al bandito Giuliano e alla strage di Portella – nodo cruciale della
storia d’Italia, secondo Sciascia – quando scrive: «è facile sentir dire,
specialmente in Sicilia, che questa delle Brigate rosse è tutta una
storia come quella di Giuliano [32]: e ci si riferisce a tutte quelle
acquiescenze e complicità dei pubblici poteri che i siciliani conoscevano ancor
prima che diventassero risultanze (queste sì, risultanze) nel famoso processo
di Viterbo. Atteggiamento che si può anche disapprovare, non poggiando su dati
di fatto; ma che trova giustificazione in quel distico di Trilussa che dice «la
gente non fidarsi più della campana poiché conosce la mano che la suona» [33]; 4) infine, mostrando di
non aver mai preso sul serio la matrice rossa del brigatismo italiano, conclude
con una battuta che ritorna frequentemente negli ultimi scritti di Sciascia:
«La loro ragion d’essere, la loro funzione (delle BR), il loro servizio stanno
esclusivamente nello spostare dei rapporti di forza […]. Di spostarli nel senso
di quel cambiare tutto per non cambiar nulla che il principe
di Lampedusa assume come costante della storia siciliana e che si può oggi
assumere come costante della storia italiana» [34].
Ritengo pertanto che non sia forzato concludere questa mia lettura critica
de L’affaire Moro con le stesse parole di Leonardo
Sciascia: