“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
04 novembre 2024
03 novembre 2024
GOFFREDO FOFI CRITICO CINEMATOGRAFICO
“Parthenope”
e, più in generale, il cinema di P. Sorrentino divide la critica ed il giudizio
del pubblico. Oggi sul Corriere del Mezzogiorno tocca al novantenne
Goffredo Fofi dire la sua. Noi, pur senza condividere il suo giudizio, lo riproponiamo
di seguito. Ma Fofi non è il Vangelo e a
quanti si riparano dietro di lui ricordiamo
che, proprio negli anni settanta che adesso santifica, proprio Fofi mostrò di non aver capito nulla del cinema di Pasolini (fv)
“Mezzogiorno
di fuoco”
di Goffredo Fofi
<Sorrentino
e Parthenope
senza
Poesia e senza Storia>
Il film di
Paolo Sorrentino
Partenope è
un atto d'amore per Napoli, in quanto tale lodevole e benvenuto.
Racconta la
città nei suoi anni Settanta e conclude sull'oggi, sul ritorno a Napoli di
Partenope, la protagonista del film, finita a insegnare antropologia
nell'università di Trento. Gli anni Settanta napoletani Sorrentino li ha visti
da bambino , essendo nato proprio nel ‘70.
E non mi
sembra che si sia molto documentato su un decennio che, per chi l’ha vissuto
con qualche intensità, è stato uno dei più belli dello scorso secolo, per la
città.
La musica,
il teatro, il cinema, la fotografia e perfino la letteratura hanno prodotto in
quel tempo artisti di grande valore, opere di grande sostanza. E, pensando
all’uso che ne fa Sorrentino, anche le più adulte opere di un grande scrittore
come La Capria, alla cui idea della «bella giornata» e agli ambienti e ai
momenti di Ferito a morte il regista si è apertamente ispirato, aggiungendovi
qualche crudele bizzarria alla Malaparte: invece del pranzo a base di sirena,
il bambino-mostro figlio del professore universitario di antropologia che nel
film indica a Parthenope la sua strada di intellettuale, con notevole
superficialità. Ma non c’era solo la «bella giornata» nella Napoli di quegli
anni, e non c’era solo una formidabile vitalità delle arti, c’erano altre cose
di peso sociale e culturale qui appena sfiorate, come la contestazione
studentesca o il nascente femminismo, e c’erano Pomigliano d’Arco e Bagnoli con
la loro classe operaia in lotta, c’erano i disoccupati organizzati e c’era un
fermento sociale e pedagogico nel «proletariato marginale» dei vicoli, che è
stato in parte narrato in un bel saggio storico di Luca Rossomando. Appena
sfiorati, come a disagio, Maradona e il colera...
In quegli
anni vivevo a Napoli anch’io, e credo che gli amici che erano napoletani veraci
avrebbero detto di Sorrentino che era «un chiattillo», una definizione
«antropologica» che aveva allora gran corso. Insomma, il film di Sorrentino non
scava in niente e non dimostra un senso della Storia, ma purtroppo ha un senso
fragile anche della Poesia, E la sua Parthenope non sembra mai prender corpo,
vivere e respirare come emblema di una città e della sua bellezza, come gli
avrebbe desiderato che fosse. In definitiva il suo è un film superficiale
storicamente e proprio «antropologicamente», e di una scarsa poesia, con un
fiacco personaggio centrale a sostenerla. Un’occasione perduta, insomma, alla
quale ci si augura che il regista sappia e possa rimediare in futuro, con altri
film meno ambiziosi ma più profondi e sentiti.
E per quanto
riguarda San Gennaro, chiamato in ballo con una certa rozzezza, ha ben altro
spessore il recente recital che Mimmo Borrelli - un attore in grande crescita -
ha elaborato con l’aiuto prezioso e mai invadente di Roberto Saviano. Altra
convinzione e altra forza, ben altra «napoletanità».
GOFFREDO FOFI
PS: Le scene bunueliane in cui Sorrentino, sfiorando la blasfemia, prende in giro il Vescovo di Napoli e la devozione popolare a S. Gennaro credo che siano alla base di tante critiche al film. Se Sorrentino avesse letto Sciascia, forse, avrebbe tagliato quelle scene. I Santi contano ancora tanto in questo Paese. (fv)
SALVATORE COSTANTINO e PIERO VIOLANTE SULL' ULTIMO LIBRO DI FRANCO LO PIPARO 1 e 2
La Repubblica, Palermo 3 novembre 2024
“SICILIA ISOLA CONTINENTALE
PSICOANALISI DI UNA IDENTITA”
I processi identitari, sono per loro natura assai complessi.
Li percepiamo attraverso momentanee sensazioni, opinioni, prese di posizione politiche,
storiche ideologiche, letterarie e istituzionali. In primo piano è la loro
fragilità e durata, la loro labilità, il ripetitivo e ossessivo alternarsi di
strutturazione e destrutturazione. C’è addirittura chi, come Francesco Remotti,
si schiera contro l’identità, e chi come Ferdinando Albertazzi, contro la
“rivendicazione di sé - etnica, politica, religiosa, localistica che fissa il
confine tra noi e gli altri”. In primo piano, se proprio vogliamo approfondire
al meglio possibile i processi identitari, è l’esigenza di studiarli non
accontentandosi delle cicliche e labili fiammate identitarie, ma di avvalersi
dell’intreccio di categorie storiografiche, letterarie, linguistiche,
economiche, politiche, istituzionali. Ma possiamo anche avvalerci di categorie
psicoanalitiche come ci propone Franco Lo Piparo in questo molto interessante
libro: “Sicilia isola continentale. Psicanalisi di una identità” (Sellerio,
2024), che non si lascia imbrigliare nei labirinti identitari.
Ed è un’operazione riuscita quella di mettere a nudo
l’inconscio dell’isola, “come tana, fodero ovattato o trappola, luce e lutto,
orgoglio e condanna, esclusione dal mondo ma anche specola privilegiata per
indovinarne il destino, con una sensibilità, ancor più che nazionale,
audacemente cosmopolitica (come ha scritto Nunzio Zago nel saggio “Un'isola non
abbastanza isola”. I siciliani fra gli scrittori d'Italia”), e come la ha
descritta il palermitano d’origine Angelo Maria Ripellino «imbrattata delle fuliggini
del Mitteleuropea» e di mille altri «umori stranieri» (A.M. Ripellino, Poesie.
1952-1978, a cura di A. Fo, A. Pane e C. Vela, Einaudi, Torino, 1990, p. 249).
Già lo storico Giuseppe Giarrizzo aveva messo in evidenza paradossi e contraddizioni di una storia siciliana «difficile, persino paradossale, tesa tra contraddizioni epocali, di somma civiltà e di crudeltà primitiva, di civile arretratezza e di raffinata cultura» G. Giarrizzo (1987), “Sicilia oggi 1950-86”, nel volume a cura di G. Giarrizzo, M. Aymard “ Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità ad oggi, La Sicilia, Torino, Einaudi, p. 669, che ospitava pure il saggio di Lo Piparo, su “Sicilia linguistica”). Giarrizzo di fronte ai mutamenti degli anni ’60 che lasciavano intravedere una possibile Sicilia “normale”, criticava la Sicilia dei miti e delle metafore.
SALVATORE COSTANTINO (Dal suo Diario Facebook)
Giarrizzo si soffermava sugli stereotipi e sulla produzione e
riproduzione di miti e metafore che, come prismi deformanti, stravolgono
l’analisi della Sicilia reale. Ma come si formano gli stereotipi e i miti? Che
uso vien fatto della sciasciana “Sicilia come metafora”? Lo storico esemplifica
con un riferimento al romanzo di Stefano D’Arrigo “Horcynus Orca” e, in
particolare, ad un brano in cui l’elaborazione metaforica si sviluppa nella
narrazione del feroce e macabro amore offerto all’ignaro marinaio “afflitto e
stanco” dalle sirene nello Stretto di Messina:
Lo storico catanese non si lascia ammaliare dai giochi
linguistici e dalla mitologia grondante sensualità, erotismo e violenza della
prosa di D’Arrigo. Anche questa prosa gli pare lasciar sprofondare la Sicilia,
ancora una volta, nel pozzo senza fondo dei miti e delle metafore per sancirne
l’inesorabile, fatale, arcaica impossibilità di essere normale, per stressare e
rimuovere la stessa idea normalissima di progresso quella mistura strana «tutta
apparenza, illusione, e presunzione» di cui parlava Federico De Roberto ne
L’imperio.
Con queste osservazioni di Giarrizzo mi piace concludere
queste mie piccole osservazioni su “Sicilia isola continentale”, meritevole di
ben altri approfondimenti , riprendendo la nota conclusiva di Lo Piparo di cui
riporto qui la parte iniziale:
“Nel congedare il libro un pensiero va a Giuseppe Giarrizzo.
Ricerche e riflessioni qui contenute non sarebbero mai nate senza le nostre
numerose chiacchierate che iniziarono alla fine degli anni Settanta del secolo
scorso”. Ha ragione Franco: nessuno meglio di Giarrizzo avrebbe potuto fare la
prefazione al testo che è ora il libreria.
"IL POLITECNICO" di ELIO VITTORINI
Ieri su DIALOGHI
MEDITERRANEI , recensendo un bel libro di Giuseppe Muraca dedicato alle riviste
culturali italiane del secondo 900, mi sono soffermato particolarmente nell'
analisi della celebre rivista di Elio Vittorini, convinto come sono dell'
attualità di quel progetto.
Mi è stato obiettato che è
improponibile oggi una rivista come IL POLITECNICO perché viviamo in un’epoca
storica profondamente diversa da quella che ha generato quel progetto. L’obiezione
ha più di un fondamento ma è anche vero che oggi, come ai tempi di Vittorini,
c' è tutto un mondo da ricostruire. E per ricostruire il mondo c’è bisogno
proprio della cultura sognata da Vittorini.
In ogni caso ripropongo di
seguito le pagine dedicate al POLITECNICO
anche perché vanno oltre il libro di Muraca. (fv)
La prima idea de IL POLITECNICO sorge nel clima della
Resistenza antifascista, intorno al 1943, quando sorgono i primi Comitati di
Liberazione Nazionale (C.L.N.). L’idea diventa progetto nel corso delle
riunioni organizzate da Elio Vittorini a Milano, nei primi mesi del 1945; a queste
riunioni partecipano diversi intellettuali antifascisti tra cui i futuri
redattori: Franco Fortini, Franco Calamandrei e il famoso grafico Albe
Steiner. Ai promotori si uniscono presto, come collaboratori, Giansiro
Ferrata, Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Giulio Preti, Oreste Del Buono, Sergio
Solmi, Antonio Giolitti, Antonio Banfi, Felice Balbo, Carlo Bo e Italo Calvino.
La rivista segna una svolta nella storia culturale nazionale,
innanzitutto per la volontà di superare lo steccato tradizionale tra le due
culture: la cultura scientifica e quella umanistica.
IL POLITECNICO settimanale nasce nel settembre del 1945 col
sostegno, anche finanziario, del PCI e viene stampata dall’editore Einaudi.
Accanto a Vittorini si ritrovano, alla fine della guerra, i migliori
intellettuali antifascisti del tempo di area comunista, socialista e cattolica.
Allora si trattava di ricostruire tutto, non solo le case e le industrie, ma
anche gli animi e la società. Vittorini, in specie, comprende che non basta
dichiararsi antifascisti per rinnovare la società italiana. Per evitare che gli
orrori generati dal fascismo e dalle guerre possano ripetersi, occorre un
cambiamento profondo della stessa cultura e del senso comune.
Il primo numero del Politecnico esce il 29 settembre del 1945 con un memorabile editoriale firmato dallo scrittore siciliano intitolato Una nuova cultura che si apre con queste parole: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini».
Vittorini chiarisce, nelle prime righe dell’articolo,
il suo pensiero:
«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in
questa guerra. […]. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di
soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di
case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le
quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più
sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la
sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che,
attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei
bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era
sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini
sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e
distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la
inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava
l’inviolabilità loro? Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la
cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo
latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo
ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce,
Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana,
Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa
cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha
avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad
esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e
perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa
cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da
quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che
l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse
nessuna, influenza civile sugli uomini [corsivo mio] [1].
Ecco il punto: la vecchia cultura ha fallito perché, essendo
patrimonio esclusivo di una èlite, è rimasta sostanzialmente estranea alla
società e a gran parte del popolo. In altri termini, sono stati i suoi limiti
di classe a rendere inefficace la grande cultura del passato; Vittorini lo dice
chiaramente questo quando afferma:
«Essa (la vecchia cultura) ha predicato, ha insegnato, ha
elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma
non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha
condotto eserciti per la società. […]. La società non è cultura perché la
cultura non è società» [2].
Questo editoriale scosse l’intellighenzia del tempo. Nei
numeri successivi della rivista intervennero tanti a dire la loro ma penso che
pochi compresero fino in fondo il senso delle parole di Vittorini. Ancora oggi,
infatti, tanti dimostrano di non averle ben comprese .
Il programma del Politecnico puntava anche
ad aggiornare e sprovincializzare la cultura italiana, mettendola a confronto
con le diverse culture del mondo intero. Gli articoli e le inchieste dei primi
numeri del settimanale comprendevano analisi accurate sul latifondo meridionale
e le grandi industrie italiane; notizie aggiornate sulla Russia sovietica, sul
franchismo e la guerra civile spagnola, sulla società e sulla letteratura
americana. Non mancavano, inoltre, contributi teorici sulle diverse
interpretazioni del marxismo, dell’esistenzialismo e della psicoanalisi,
articoli di divulgazione scientifica, di critica letteraria,
cinematografica, artistica e di costume.
Vittorini, insieme ai suoi più stretti collaboratori – tra
cui spiccavano Franco Fortini, Carlo Bo, Felice Balbo, Giulio Preti – riescono
a creare un vero e proprio laboratorio politico-culturale sperimentale che si
poneva il compito di formare le masse e di cambiare la società italiana. Il
lavoro del settimanale venne avviato con grande entusiasmo, Vittorini scriveva
a molti intellettuali per invitarli a collaborare. Fortini ha ben descritto il
clima e l’entusiasmo che animava i redattori della rivista:
«Capitavano i personaggi di quegli anni: operai affamati,
giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, […].
Arrivavano montagne di manoscritti la più parte diari di guerra, di prigionia,
di vita operaia. […]. Si aveva l’impressione che dovunque il settimanale
giungesse molti animi scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre
incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo
fatto durante la guerra; quella delle incredibili possibilità
della nostra provincia, delle energie latenti delle classi mute (corsivo
mio) […] Era l’indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo
attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che
l’opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa
significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani»
[corsivo mio] .
Le parole di Fortini ci sembrano particolarmente felici e
calzanti per capire lo spirito che animava i principali autori della rivista.
D’altra parte lo stesso Vittorini affermava che «Per fare Il
Politecnico ci vogliono le fiamme sul didietro».
Eppure Vittorini si accorse presto di essere stato lasciato
solo sia dalla casa editrice (Einaudi) che stampava il settimanale che dal
Partito (il PCI di Togliatti) che l’aveva inizialmente incoraggiato. La
trasformazione del Politecnico da settimanale a mensile non fa
che sancire il suo progressivo isolamento: «il passaggio da settimanale a
mensile – scrive ancora Fortini – coincide con la fine dell’idillio tra gli
intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei C.L.N. e i
dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili
prove degli anni seguenti» (Muraca, 2024: 13)
La rottura tra la Direzione del PCI e Vittorini, in gran
parte, è un segno delle prime avvisaglie della guerra fredda che dividerà
l’Europa proprio in quegli anni. Ad innescare la polemica è un articolo di
Mario Alicata pubblicato dal periodico comunista Rinascita che attacca senza
mezzi termini la linea culturale del Politecnico considerata troppo ecumenica
ed aperta nei confronti dell’Occidente e della cultura borghese. Contro
Vittorini interviene lo stesso Togliatti in una nota nello stesso periodico che
Il Politecnico, ormai trimestrale, pubblica nel Natale del 1946. Il
segretario nazionale del PCI, dopo aver ricordato di aver “salutato con gioia”
la nascita del Politecnico, rimprovera allo scrittore siciliano di
aver tradito il programma iniziale della rivista e di procedere in modo
equivoco alla ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente.
Vittorini nel numero natalizio che pubblica la lettera di Togliatti fa sue
alcune osservazioni critiche del segretario del PCI ma si riserva di
rispondergli in modo più articolato e approfondito successivamente. Cosa che
farà tre mesi dopo, ed esattamente nel n. 35 del marzo 1947, in una lunga
lettera aperta che affronta il tema di fondo dei rapporti tra cultura e
politica.
Lo scrittore siciliano, innanzitutto, ritorna a parlare della
sua idea di cultura precisando di essere «l’opposto di quello che in Italia
s’intende per ‘uomo di cultura’. Io non ho studi universitari. Non ho nemmeno
studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il greco. Non
so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai e mio padre, ferroviere, ebbe
i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si chiamavano
tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo nel modo
vizioso in cui si impara da soli. Le lingue straniere, per esempio, le so come
un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma non posso
parlarle né capire chi le parla». Lo scrittore siciliano precisa, innanzitutto,
di essersi iscritto al PCI per motivi umani e politici e non ideologici. È
stata l’esperienza della Resistenza al fascismo a condurlo, insieme a tanti
altri, al PCI. Nella prassi Vittorini ha verificato che i comunisti «erano i
migliori, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più onesti, i più seri,
i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi» .
A seguito del V Congresso Nazionale (1945/46) l’adesione di
Vittorini al PCI è ancora più convinta perché egli interpreta il deliberato del
Congresso di non porre alcun obbligo ideologico ai militanti come una chiara
apertura ad una lettura non dogmatica del pensiero di Marx: «ha riportato il
marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada
aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come
sistema». Anche per questo, afferma con forza Vittorini, «il diritto di
parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità, quanto
piuttosto dal fatto che si cerca la verità» [corsivo mio]. Di
conseguenza Vittorini vede nel libro di Lenin, Materialismo ed
empiriocriticismo, considerato un testo sacro in URSS, il rischio di
una ricaduta del marxismo nel Sistema e nel dogmatismo. Questo rischio il
marxismo italiano non lo corre grazie soprattutto al pensiero di Gramsci.
Nel corso di questa lettera il Direttore del Politecnico fa
più di una concessione a Togliatti, riconoscendo apertamente di essersi
sbagliato sui rapporti tra politica e cultura; concorda pienamente nella
critica a Benedetto Croce e ammette che «c’è anche nella cultura la tendenza
all’inerzia» (ivi: 127-130). Soltanto nelle conclusioni Vittorini prende
nettamente le distanze da Togliatti e, precisamente, nei paragrafi
intitolati: Suonare il piffero alla rivoluzione? e Uno
sforzo contro l’arcadia (ivi: 132-138). È in queste pagine che
lo scrittore di Uomini e no difende a spada tratta le sue
scelte culturali, spiegando le ragioni per cui ha pubblicato sulla rivista
Hemingway, Kafka e tanti altri scrittori borghesi. Vittorini afferma:
«Rifiutare e ignorare i migliori scrittori della crisi del
nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla
crisi della società occidentale contemporanea. […]. Molta letteratura della
crisi è senza dubbio di provenienza borghese. Discende dal romanticismo, è
intrisa di individualismo e decadentismo. Ma è anche carica della necessità di
uscirne. Si può chiamare letteratura della borghesia solo nel senso che è
autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna
d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria»
L’atteggiamento critico giusto nei confronti degli autori da
cui vogliamo prendere distanza, osserva Vittorini, non è quello di ignorarli o
insultarli ma quello che hanno utilizzato con intelligenza sia Marx con Balzac
che Gramsci con Benedetto Croce. Suonare il piffero alla
rivoluzione non è rivoluzionario, conclude polemicamente la sua lunga
lettera a Togliatti
Lo scontro tra Vittorini e il PCI di Togliatti rimane uno
degli episodi cruciali della politica e della cultura del nostro ultimo
dopoguerra. Muraca, pur ricostruendo in modo problematico questo scontro, alla
fine riesce a cogliere i termini reali del conflitto:
Prima di tutto, dal punto di vista teorico, il marxismo
problematico e antidogmatico del Politecnico contraddiceva «la
linea storicistica del ‘meridionalismo democratico’ (la linea De
Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci ai quali sarebbero stati innestati, con l’inizio
della guerra fredda, Stalin e Zdanov) su cui si basavano sia l’azione che la
ricerca politico-culturale del ‘partito nuovo’ e dei suoi intellettuali
organici» (ivi:17) Inoltre le posizioni di sinistra espresse dalla rivista (ad
esempio, i continui attacchi rivolti al Vaticano) mettevano in discussione la
linea politica e la strategia delle alleanze del Partito di Togliatti che, per
la verità, poco aveva in comune con il pensiero autentico di Gramsci.
Riguardo a quest’ultimo va detto che Vittorini – prima ancora
di conoscere integralmente gli scritti del sardo e alcuni documenti relativi
alla rottura che c’era stata nel 1926 tra i due dirigenti comunisti nel
giudicare la piega che aveva preso l’ URSS dopo la morte di Lenin – è stato uno
dei primi ad intuire l’originalità del pensiero gramsciano. Non a caso
pubblicherà sul Politecnico mensile un saggio dell’eretico Lukacs
e alcune lettere dal carcere di Gramsci. Cose che contribuiscono ad evidenziare
la modernità e la lungimiranza della rivista.
Muraca in conclusione fa suo il bilancio critico del Politecnico di
uno dei principali redattori della rivista, Franco Fortini:
«Nata da una forse ingenua fiducia nel garibaldinismo
culturale; cresciuto fino ad intravedere quale avrebbe dovuto il lavoro di
gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio
Paese; finito quando, all’avvicinarsi del lavoro difficile, oscuro e rischioso,
si è rilevata la debolezza teorica, l’incertezza, la mancanza di pazienza, di
costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini
di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato […] tanto lungo
discorso se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se
soprattutto –e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i
principali problemi d’oggi sono quelli medesimi che esso ha posti e, per primo,
descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, di un
linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra
dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il
pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di
nuove possibili vie di metodologia critica»
02 novembre 2024
MARINEO RICORDA LE ANTICHE RIVOLTE CONTADINE
01 novembre 2024
EREDITA' DISSIPATE letto da ALDO GERBINO
ALDO GERBINO sul nuovo numero di DIALOGHI MEDITERRANEI offre una nuova chiave di lettura di EREDITA' DISSIPATE: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/tra-dissipazione-e-solitudine-noterelle-e-divagazioni-da-una-lettura/
TRA DISSIPAZIONE E SOLITUDINE
di Aldo
Gerbino
Poi a un
tratto si fanno / gravi: e a lavarsi tornano / umilmente ridicoli… / perché si
vergognano / di trovarsi felici / senza lavorare [Vann’Antò, da “Contadini al
mare”, 1945].
Leggendo
le Eredità dissipate, assistiamo in modo palmare al
pluridecennale cammino analitico condotto da Francesco Virga. Un tragitto non
privato di quell’eccitante e proficua ossessione che fa brillare quei suoi
smalti critici, in cui Gramsci, di certo non a caso primario oggetto delle sue
attenzioni, fu ed è, la vivida attrazione verso una figura esemplare della
nostra cultura. Un baricentro per l’autore, sin dalla sua lontana tesi di
laurea capace di trasformarsi, per necessaria e intima disposizione, in un
nucleo indefettibile nel quale convergono i nodi dell’uso abnorme del potere,
alimentando così il proprio pensiero di un efficace imprinting esistenziale.
Ma, si
potrebbe anche asserire, come da tale sua giovanile esigenza sia maturato il
bisogno di protrarre sempre più avanti l’interesse di tale indirizzo in un oggi
offerto quale irrinunciabile testimonianza, e che trova identificazione in
questa raccolta di saggi concretata, appunto, nel volume Eredità
dissipate: Gramsci, Pasolini, Sciascia (Diogene Multimedia Editrice,
Bologna 2024), arricchiti, in appendice, da una catenaria d’interventi critici:
da Claudia Calabrese a Salvatore Costantino a Santo Lombino, da Nicolò Messina
a Gaspare Polizzi a Bernardo Puleio. Un oggi qui posto quale esito d’integrità
intellettiva nutrita nell’ardente combustibile che da sempre ha covato in
Francesco, docente e saggista, per natura avverso a quei raddolcimenti
provenienti dal mondo tradizionale e la cui fallacia è stata già
dialetticamente esaminata da Eric Hobsbawm e Terence Ranger (The Invention
of Tradition,1983).
Ciò,
ovviamente, non è cosa da poco in quanto egli trasporta tale sua condotta
d’analisi lungo un processo di traslitterazione capace di ricollocare i
‘cercatori di verità’, dalla pedana della ideologia all’ampio palco della
idealità; qui vengono riversate pasión e amore per la
conoscenza e la prontezza a decrittare i segnali della gestione politica al
fine di partecipare a quelle dinamiche sociali che hanno mosso questi grandi
intellettuali.
Non è un
caso che Luigi Russo, critico letterario, storico della letteratura italiana e
direttore della Scuola Normale di Pisa, scrivendo sulla ‘sua’ rivista
«Belfagor» intorno alla poesia risorgimentale (“I poeti-numi del 1848”;
Vallecchi n.2/ 31 marzo del 1948: 129-142), evidenziava come l’interno fuoco
della poesia civile, e forse dell’interezza espressiva del lavoro poetico, si
estendesse nella fervida agitazione della politica. Così, prendendo ad esempio
Foscolo nell’inno terzo delle Grazie, lo storico di
Delia vi legge una poesia la quale, proprio in tale suo “velo” foscoliano, «non
spegne le passioni politiche, ma le assorbe e le sublima. Nitido il verso
suonerà al poeta (egli aggiunge); ma quel verso nitido ribolle dentro di tutta
la febbre della storia, a cui gli uomini che vengono dopo attingono dolcezza ma
anche furore di vita e di combattimenti».
Questo
pensiero si colloca, stabilendo quasi una sorta di vicinanza parallela e
visionaria, all’asserzione di Leonardo Sciascia ‒ l’empirista eretico per Pier
Paolo Pasolini ‒ che possiamo raccogliere dal lucido saggio su Pirandello. Qui,
in una Sicilia del primo Novecento, mortificata e impoverita dall’aspra
violenza del lavoro (esempio emblematico, l’esercito dei “Servi” chini nei
cunicoli delle miniere e amaramente cantati da Calogero Bonavia), si staglia la
sanguinosa gravezza della cupa mafiosità, gli intricati lacci con la borghesia.
Da tale opprimente povertà e dall’esilio migratorio di un popolo soffocato
ecco, valvola di nuova consapevolezza, vien colto dallo scrittore di Racalmuto
lo sfiatare di un inatteso dono offerto da quei poeti dell’Isola che rispondono
ai nomi di Pirandello, Rosso di San Secondo, Di Giovanni, Lanza: coloro i quali
hanno contribuito a liberare, dalle stringhe di tale realtà, l’epifanico avvento della
poesia.
Antonio
Gramsci
Coltivatori
di eresie, dunque, Gramsci, Pasolini e Sciascia son posti nella veste di veri e
propri ‘anatomisti della natura umana’, pronti ad esercitare il loro magistero
sulle esistenze affinché facciano propria una nuova consapevolezza civile,
accogliendo i nuovi umori gemmanti dallo strato germinativo della società. Dal
travaso gramsciano ricevuto da Pasolini (intellettuali e potere, omologazione
delle masse, TV, consumismo), al contributo di antropologi di vaglia, da De
Martino a Cirese, unitamente al registro critico della scrittura sciasciana,
non possono non emergere le intollerabili discrasie infiltrate negli interstizi
tra classi dominanti e subalterne fino a preconizzarne, nell’arco del ‘secolo
breve’ e violento, la baumaniana liquidità del nostro presente o le variabili
del postmoderno.
Per Virga il
ligante di tale umano trittico è riscontrabile nella loro comune azione posta
in quel vischioso collagene sociale permeato, sia durante la loro vita sia dopo
la loro scomparsa, dall’incomprensione e da quell’ostinato non comprendere come
la contraddizione, l’opposizione possano essere stimolanti esercizi per la
crescita del pensiero libero. Diverse, peraltro, appaiono le urgenze degli
eretici che agiscono, senza condizionamenti, sull’architettura plastica del
loro stesso pensiero critico, politico e artistico: dall’avvento, come detto,
della poesia al canto popolare, dalla dinamica felibrista al nucleo rovente
della lingua al turgore del mito, ad una nuova lettura antropologica delle
masse.
La loro
empatica partecipazione civile fluisce col trasportare le osservazioni della
lingua dilatandola sullo scenario dialettale, interrogandosi sulla
sopravvivenza o sull’agonica trasformazione della cultura popolare e
dell’assuefazione alla subalternità, al trasformismo. Lo scrittore della
raccolta “La meglio gioventù”, dagli anni Quaranta, è lettore privilegiato
delle lotte dei contadini friulani; nel 1950, tocca la realtà delle borgate,
delle loro angustie, delle violenze e doglianze del sottoproletariato romano.
Una subalternità il cui ritratto, da Gramsci a Cirese, si tinge di realtà
umilianti, di miserie comportamentali in un registro calco delle devianze del
potere, della pervicacia di una incipiente, quanto feroce, massificazione.
Leonardo
Sciascia e Ferdinando Scianna alla festa di Santa Maria del Monte a Racalmuto,
1987; e alla casa della Noce, 1986 (ph. Angelo Pitrone)
Una camera
picta elaborata in parole, in atti e fatti che sbalzano, non necessariamente
citati, anche dall’Uva puttanella. Contadini del Sud di Rocco
Scotellaro. Vi sono anche i contadini di Vann’Antò della poesia in quartine
“Contadini al mare”, tratta dalla raccolta “’U vascidduzzu” (vincitrice, nel
1951, del ‘Premio Cattolica’ la cui giuria era formata da Eduardo De Filippo,
Salvatore Quasimodo e Luigi Russo). Essi commuovono, in quanto tracciano un
tragitto d’esistenza all’ombra d’una preoccupata scoperta
della felicità, proprio nel momento in cui provano vergogna per aver usufruito
d’uno scampolo di appagamento ‘rubato’ alla crudezza del loro lavoro.
E c’è anche
il popolo-formica raccontato e vissuto con realistica lucidità da Tommaso
Fiore, di quel suo insistere sul diffuso bisogno di libertà dei ‘cafoni’
pugliesi, verso i quali, osservava: «se le nostre idee sono giuste»
(un’esistenza connaturata alla vita dello spirito) di certo «la saggezza
popolare non può, sia pure indistintamente, esserne lontana». Una contiguità ai
bisogni sociali surriscaldata (sostanziata) dalla lingua (Virga non a caso
rimanda al pasoliniano quadro di chiusura del “Volgar’ eloquio”), il tutto
scosso da quel vortice di bioatmosfere che furono in altri momenti consegnate
nell’ambito di questa letteratura d’opposizione (così intese Sciascia):
dall’affresco del Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi,
agli interventi magico-realistici dell’etnologo Ernesto De Martino, degli
scritti sulla Lucania, sul Salento, al grido giunto dalla civiltà agropastorale
in Sicilia con voci dalle diverse sfumature ed estetiche: da Ignazio Buttitta, a
Giacomo Giardina a Giuseppe Giovanni Battaglia.
Una
necessità di rilevare da ogni fonte quella agognabile «fraternità umana» e di
come la contraddittorietà esista sin dalle profondità genetiche delle relazioni
parentali emerse e riscontrabili in Pasolini nell’intervista con Jean Duflot,
“Il sogno del Centauro”: «In realtà», afferma il poeta, «con il passare del
tempo, dopo l’infanzia, l’immagine si è moltiplicata, e insieme con essa il
rifiuto si è diversificato: si è mutato in odio trans-storico o metastorico,
per cui sono stato indotto a identificare con l’immagine paterna tutti i
simboli dell’autorità e dell’ordine, il fascismo, la borghesia… nutro un odio
viscerale, profondo, irriducibile, contro la borghesia, la sua sufficienza, la
sua volgarità: un odio mitico, o se si preferisce, religioso». Ma anche si
differenziano, come in un chroma key, le «persone vive», tangibili,
in quanto «per mezzo del friulano» ‒ egli avverte – «venivo a scoprire che la
gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere
obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne
ebbi però una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia
di poeti friulani. Col passare del tempo avrei imparato man mano a usare il
dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica». Un ‘mistero del
carattere contadino’ posto a genesi dei suoi romanzi, per quei reietti della
società i quali, come per Sciascia, sono metafora di un Sud del mondo immersi
nell’inestricabile simbiosi tra lingua e realtà umana, affetti contrastanti e
profondità dei sentimenti, tra ritualità religiosa e laica, e dai quali temi
Virga ne sottolinea, anche sulla scia dell’antropologo napoletano (con qualche
suggestione esercitata da Giuseppe Cocchiara), in che modo «il pensiero del
folklore stia col pensiero di Gramsci in un nesso organico e sostanziale,
esistenziale».
Scatti per
Pasolini, catalogo Mostra nell’agrigentino “Centro Pier Paolo Pasolini” (ph.
Mario Dondero)
Ancora una
lingua, ancora dialetti e loro declinazioni, che toccarono lo stesso Sciascia
già con l’attenzione giovanile dedicata alla antologia della poesia romanesca
prefata dallo stesso Pasolini (Il fiore della poesia romanesca, S.
Sciascia 1952). Vi risaltano considerazioni che investono l’unità della lingua,
così dell’intelletto e del cuore, tema che interessava molto l’autore di
Casarsa, attraverso quei margini frastagliati della poesia in cui, scrivendo di
Roma, si guarda alle dinamiche della stessa lingua ‘rionale’, al meticciato
prodotto dalle maglie linguistiche meridionali e dalle fimbrie settentrionali.
Lingua e canto visti anche come epifenomeni riflessi criticamente, e con
intense sollecitazioni (ad esempio, intorno al 1958, con la giovane Giovanna
Marini) che consentono lo sviluppo del loro arco lungo e interagente tra poesia
e canto popolare agitando il fertile colloquio critico/folklorico su cinema e
musica: un differenziarsi del realismo poeticamente tragico con un ‘realismo
rosa’ grazie al coinvolgimento del popolo minuto della provincia italiana.
Allora,
politica e musica toccano e definiscono l’ulteriore dichiarazione pasoliniana
rintracciabile in “Le regole di un’illusione” (Fondo P.P. Pasolini,
1991: 274): «la musica popolare non ha storia: il suo livello culturale si pone
oltre agli eventi storici; è sempre preistorica. Anche quando se ne conosce la
data di nascita, la sua collocazione è fuori dalla storia» (blog ‘Centro
Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa’, 2016; G. Bruni). Per il poeta,
canto popolare, dialetto plebeo e borghese si svolgono in «un gioco di
compromessi»: tra sacrilegio e intelligenza. Cultura popolare e dinamiche della
subalternità, sono ben evidenziate da Virga, con il percorrere la cupa forza
del potere e innescando l’ellissi di quei dispositivi intellettuali in cui
l’esistenza appare sempre presente con la sua inusitata crudezza e con una sua
precisa morfogenesi leggibile sin dall’esperienza di “Poesie a Casarsa”
(accolte con interesse da Contini), sotto l’acceso fuoco dell’«idioma materno»: la materna
locutio.
Un insieme
di saggi, questo, in cui si dà spazio ad una sorta di ‘anima interna musicale’
(termine caro a Silvestro Baglioni, otorinolaringoiatra degli anni Venti) e
all’interezza di quel ‘pensiero musicale’ che attraversa punti fondativi del
linguaggio poetico e filmico di Pasolini, sottolineato in volume da Claudia
Calabrese. Il valore della contraddizione cui facevamo cenno assume energia per
la sua capacità di opporsi al proprio stesso pensiero, e ciò vale in
particolare per Pasolini, per Sciascia. Su Pasolini narratore Giorgio Bárberi
Squarotti parla di «lacerazioni interiori, fatti della storia e la loro natura
estrema: strazio, diversità, opposizioni alla norma; per Fortini vi è primaria
l’antitesi, la “duplicità e ubiquità polare»; Sciascia rivendica a sé la
libertà di mutare il proprio punto di vista a chiarimento del suo approdo etico
verso la società.
E ciò, dalla
ricchezza di un cammino nell’Intra moenia dei saggi (ristampa di
una seconda edizione), Virga sciorina i suoi ragguagli appesi al vento del
rimprovero insito nel titolo, parlando appunto della ‘dissipazione’ di tale
ricchezze di pensiero. Dissipazione in quanto, per omologia alla meccanica,
registra la trasformazione d’una energia in altra che va ineluttabilmente
perduta, dissipata, dispersa. Una dissipazione associabile all’abbandono, alla
derelizione, per usare un termine giuridico che Cesare Brandi coniuga con la
città di Palermo, per sottolineare l’incapacità politica ad incanalare le
giuste energie dissipandone nel silenzio valori e funzioni utili alla crescita
della società civile; dissipazione ancora come dispersione e obsolescenza, quindi
consumo accelerato e incontrollato (argomenti tracciati da Argan e, proprio a
Palermo nel 1968, sottolineati dalla critica militante di Francesco Carbone) e
che trainano amaramente, apocalitticamente verso quelle umoralità presenti
in Dissipatio H.G., illuminante romanzo degli anni Settanta dalle
tinte distopiche, opera del ‘fobantropo’ suicida, Guido Morselli.
Nella Poesia
in forma di rosa egli accenna, infatti, ad «un’idea che
risale al 1963, ma finora» – egli lamenta – di non esser «riuscito a trovare la
chiave giusta. Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito
qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in
prosa. Per questo, pubblico appena i primi due canti: a un inferno medioevale
con le vecchie pene si contrappone un Inferno neocapitalistico. Ma siamo, per
il momento, al «“mezzo del cammin di nostra vita”, all’incontro con le tre
fiere». Diffuso dopo la tragica morte del poeta e scrittore (1975), in una
«Nota dell’editore» – si riferisce – furono rintracciati, tra questi suoi
“Frammenti infernali”, appunti, foglietti: «un blocchetto di note… addirittura
trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine,
dettaglio macabro ma anche – lo si consenta – commovente, un biglietto a
quadretti (strappato evidentemente da un blok-notes) riempito da una decina di
righe molto incerte – è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere
(egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso)». Sì,
Palermo qui è pre-immaginata dallo scrittore quale orrido scenario del proprio
assassinio. Palermo ‘la Terribile’, d’altronde, è l’aggettivo che troviamo persino
nel deamicisiano ‘Cuore’. Luogo che diventa palco di rappresentazione onirica
e, per bizzarra legge del contrappasso, zattera d’un ‘bene’ fluttuante e
tenace, portatore di un vessillo su cui può essere trascritto, ‒ e il
pessimismo di Francesco Virga forse ne trarrebbe lenimento ‒ quel verso di
Jannis Ritsos che ci ricorda con perentoria assolutezza, il «valore delle cose
nude».
Dialoghi
Mediterranei, n. 70,
novembre 2024
PS: La recensione di Aldo Gerbino a prima vista può apparire un pò aulica e poco gramsciana. Eppure a me è piaciuta perché, oltre ad offrire una diversa chiave di lettura del saggio, offre numerosi spunti di riflessione. (fv)
RIVISTE DEL 900: Da IL POLITECNICO ai QUADERNI PIACENTINI
Ecco la recensione del bel libro di Giuseppe Muraca pubblicata oggi dalla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI (fv)
LA FERVIDA STAGIONE DELLE RIVISTE DEL SECONDO 900
di Francesco Virga
Le riviste hanno svolto un ruolo importante nella storia
d’Italia. Basti pensare al peso che hanno avuto, nella prima metà del 900,
La Voce di Prezzolini, La Critica di Benedetto
Croce, La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e L’Ordine Nuovo di
Gramsci.
Giuseppe Muraca, nel suo ultimo libro, Un fare
comune. Da “Politecnico” a “Diario”. Riviste italiane del secondo (Il
Convivio Editore, Catania 2024), propone una rassegna critica di alcune
riviste culturali che hanno animato il dibattito pubblico in Italia dalla fine
del Secondo conflitto mondiale al 2000. Essendo impossibile in una recensione
dare pieno conto di tutte queste riviste e delle problematiche ad esse
connesse, concentreremo la nostra attenzione su due testate che Muraca ha
saputo ben analizzare nel corso del suo lavoro: Il Politecnico e
i Quaderni Piacentini. Non si può ignorare, infine, il breve
saggio di Gabriela Fantato sulle riviste femministe degli anni Settanta con cui
si conclude il libro.
Muraca muove proprio dall’analisi de Il Politecnico di
Elio Vittorini a cui dedica le sue pagine migliori. La rivista segnò una svolta
nella storia culturale nazionale, innanzitutto per la volontà di superare lo
steccato tradizionale tra le due culture: la cultura scientifica e quella
umanistica.
La prima idea della nuova rivista sorge nel clima della
Resistenza antifascista, intorno al 1943, quando sorgono i primi Comitati di
Liberazione Nazionale (C.L.N.). L’idea diventa progetto nel corso delle
riunioni organizzate da Elio Vittorini a Milano, nei primi mesi del 1945; a
queste riunioni partecipano diversi intellettuali antifascisti tra cui i futuri
redattori: Franco Fortini, Franco Calamandrei e il famoso grafico Albe
Steiner. Ai promotori si uniscono presto, come collaboratori, Giansiro
Ferrata, Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Giulio Preti, Oreste Del Buono, Sergio
Solmi, Antonio Giolitti, Antonio Banfi, Felice Balbo, Carlo Bo e Italo Calvino.
Il primo numero del Politecnico esce il 29
settembre del 1945 con un memorabile editoriale firmato dallo scrittore
siciliano intitolato Una nuova cultura che si apre con queste
parole: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una
cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini» [corsivo
mio].
Vittorini chiarisce, nelle prime righe dell’articolo,
il suo pensiero:
«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in
questa guerra. […]. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di
soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di
case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le
quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più
sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la
sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che,
attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei
bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era
sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini
sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e
distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la
inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava
l’inviolabilità loro? Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la
cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo
latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo
ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce,
Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana,
Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa
cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha
avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad
esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e
perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa
cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da
quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che
l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse
nessuna, influenza civile sugli uomini [corsivo mio] [1].
Ecco il punto: la vecchia cultura ha fallito perché, essendo
patrimonio esclusivo di una èlite, è rimasta sostanzialmente estranea alla
società e a gran parte del popolo. In altri termini, sono stati i suoi limiti
di classe a rendere inefficace la grande cultura del passato; Vittorini lo dice
chiaramente questo quando afferma:
«Essa (la vecchia cultura) ha predicato, ha insegnato, ha
elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma
non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha
condotto eserciti per la società. […]. La società non è cultura perché la
cultura non è società» [2].
Questo editoriale scosse l’intellighenzia del tempo. Nei
numeri successivi della rivista intervennero tanti a dire la loro ma penso che
pochi compresero fino in fondo il senso delle parole di Vittorini. Ancora oggi,
infatti, tanti dimostrano di non averle ben comprese [3].
Il programma del Politecnico [4] puntava
anche ad aggiornare e sprovincializzare la cultura italiana, mettendola a
confronto con le diverse culture del mondo intero. Gli articoli e le inchieste
dei primi numeri del settimanale comprendevano analisi accurate sul latifondo
meridionale e le grandi industrie italiane; notizie aggiornate sulla Russia
sovietica, sul franchismo e la guerra civile spagnola, sulla società e sulla
letteratura americana. Non mancavano, inoltre, contributi teorici sulle diverse
interpretazioni del marxismo, dell’esistenzialismo e della psicoanalisi,
articoli di divulgazione scientifica, di critica letteraria,
cinematografica, artistica e di costume.
Vittorini, insieme ai suoi più stretti collaboratori – tra
cui spiccavano Franco Fortini, Carlo Bo, Felice Balbo, Giulio Preti – riescono
a creare un vero e proprio laboratorio politico-culturale sperimentale che si
poneva il compito di formare le masse e di cambiare la società italiana. Il
lavoro del settimanale venne avviato con grande entusiasmo, Vittorini scriveva
a molti intellettuali per invitarli a collaborare. Fortini ha ben descritto il
clima e l’entusiasmo che animava i redattori della rivista:
«Capitavano i personaggi di quegli anni: operai affamati,
giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, […].
Arrivavano montagne di manoscritti la più parte diari di guerra, di prigionia,
di vita operaia. […]. Si aveva l’impressione che dovunque il settimanale
giungesse molti animi scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre
incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo
fatto durante la guerra; quella delle incredibili possibilità
della nostra provincia, delle energie latenti delle classi mute (GRASSETTO
MIO) […] Era l’indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo
attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che
l’opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa
significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani»
[corsivo mio] [5].
Le parole di Fortini ci sembrano particolarmente felici e
calzanti per capire lo spirito che animava i principali autori della rivista.
D’altra parte lo stesso Vittorini affermava che «Per fare Il
Politecnico ci vogliono le fiamme sul didietro».
La rottura tra la Direzione del PCI e Vittorini, in gran
parte, è un segno delle prime avvisaglie della guerra fredda che dividerà
l’Europa proprio in quegli anni. Ad innescare la polemica è un articolo di
Mario Alicata pubblicato dal periodico comunista Rinascita che attacca senza
mezzi termini la linea culturale del Politecnico considerata troppo ecumenica
ed aperta nei confronti dell’Occidente e della cultura borghese. Contro
Vittorini interviene lo stesso Togliatti in una nota nello stesso periodico che
Il Politecnico, ormai trimestrale, pubblica nel Natale del 1946. Il
segretario nazionale del PCI, dopo aver ricordato di aver “salutato con gioia”
la nascita del Politecnico, rimprovera allo scrittore siciliano di
aver tradito il programma iniziale della rivista e di procedere in modo
equivoco alla ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente.
Vittorini nel numero natalizio che pubblica la lettera di Togliatti fa sue
alcune osservazioni critiche del segretario del PCI ma si riserva di
rispondergli in modo più articolato e approfondito successivamente. Cosa che
farà tre mesi dopo, ed esattamente nel n. 35 del marzo 1947, in una lunga
lettera aperta che affronta il tema di fondo dei rapporti tra cultura e
politica.
Lo scrittore siciliano, innanzitutto, ritorna a parlare
della sua idea di cultura precisando di essere «l’opposto di quello che in
Italia s’intende per ‘uomo di cultura’. Io non ho studi universitari. Non ho
nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il
greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai e mio padre,
ferroviere, ebbe i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si
chiamavano tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo
nel modo vizioso in cui si impara da soli. Le lingue straniere, per esempio, le
so come un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma
non posso parlarle né capire chi le parla». Lo scrittore siciliano precisa,
innanzitutto, di essersi iscritto al PCI per motivi umani e politici e non
ideologici. È stata l’esperienza della Resistenza al fascismo a condurlo,
insieme a tanti altri, al PCI. Nella prassi Vittorini ha verificato che i
comunisti «erano i migliori, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più
onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più
allegri e i più vivi» [6].
A seguito del V Congresso Nazionale (1945/46) l’adesione di
Vittorini al PCI è ancora più convinta perché egli interpreta il deliberato del
Congresso di non porre alcun obbligo ideologico ai militanti come una chiara
apertura ad una lettura non dogmatica del pensiero di Marx: «ha riportato il
marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada
aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come
sistema». Anche per questo, afferma con forza Vittorini, «il diritto di
parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità, quanto
piuttosto dal fatto che si cerca la verità» [corsivo mio] [7].
Di conseguenza Vittorini vede nel libro di Lenin, Materialismo ed
empiriocriticismo, considerato un testo sacro in URSS, il rischio di
una ricaduta del marxismo nel Sistema e nel dogmatismo. Questo rischio il
marxismo italiano non lo corre grazie soprattutto al pensiero di Gramsci [8].
Nel corso di questa lettera il Direttore del Politecnico fa
più di una concessione a Togliatti, riconoscendo apertamente di essersi
sbagliato sui rapporti tra politica e cultura; concorda pienamente nella
critica a Benedetto Croce e ammette che «c’è anche nella cultura la tendenza
all’inerzia» (ivi: 127-130). Soltanto nelle conclusioni Vittorini prende
nettamente le distanze da Togliatti e, precisamente, nei paragrafi
intitolati: Suonare il piffero alla rivoluzione? e Uno
sforzo contro l’arcadia (ivi: 132-138). È in queste pagine che
lo scrittore di Uomini e no difende a spada tratta le sue
scelte culturali, spiegando le ragioni per cui ha pubblicato sulla rivista
Hemingway, Kafka e tanti altri scrittori borghesi. Vittorini afferma:
«Rifiutare e ignorare i migliori scrittori della crisi del
nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla
crisi della società occidentale contemporanea. […]. Molta letteratura della
crisi è senza dubbio di provenienza borghese. Discende dal romanticismo, è
intrisa di individualismo e decadentismo. Ma è anche carica della necessità di
uscirne. Si può chiamare letteratura della borghesia solo nel senso che è
autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna
d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria»
[9].
L’atteggiamento critico giusto nei confronti degli autori da
cui vogliamo prendere distanza, osserva Vittorini, non è quello di ignorarli o
insultarli ma quello che hanno utilizzato con intelligenza sia Marx con Balzac
che Gramsci con Benedetto Croce. Suonare il piffero alla
rivoluzione non è rivoluzionario, conclude polemicamente la sua lunga
lettera a Togliatti
Lo scontro tra Vittorini e il PCI di Togliatti rimane uno
degli episodi cruciali della politica e della cultura del nostro ultimo
dopoguerra. Muraca, pur ricostruendo in modo problematico questo scontro, alla
fine riesce a cogliere i termini reali del conflitto:
Riguardo a quest’ultimo va detto che Vittorini – prima
ancora di conoscere integralmente gli scritti del sardo e alcuni documenti
relativi alla rottura che c’era stata nel 1926 tra i due dirigenti comunisti
nel giudicare la piega che aveva preso l’ URSS dopo la morte di Lenin – è stato
uno dei primi ad intuire l’originalità del pensiero gramsciano. Non a
caso pubblicherà sul Politecnico mensile un saggio dell’eretico Lukacs
e alcune lettere dal carcere di Gramsci. Cose che contribuiscono ad evidenziare
la modernità e la lungimiranza della rivista.
Muraca in conclusione fa suo il bilancio critico del Politecnico di
uno dei principali redattori della rivista, Franco Fortini:
«Nata da una forse ingenua fiducia nel garibaldinismo
culturale; cresciuto fino ad intravedere quale avrebbe dovuto il lavoro di gruppo
di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio Paese;
finito quando, all’avvicinarsi del lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è
rilevata la debolezza teorica, l’incertezza, la mancanza di pazienza, di
costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini
di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato […] tanto lungo
discorso se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se
soprattutto –e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i
principali problemi d’oggi sono quelli medesimi che esso ha posti e, per primo,
descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, di un
linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra
dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il
pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di
nuove possibili vie di metodologia critica» [10].
Dopo l’attenta ricostruzione della storia del Politecnico,
il libro di Muraca offre un sommario esame di altre riviste sorte
successivamente – come Officina, Il Verri, Il Menabò, Discussioni ecc
– su cui sorvoliamo. Colpisce però il suo silenzio su due riviste – come Il
Ponte e Nuovi Argomenti – che hanno svolto un ruolo
non meno importante in quegli stessi anni e hanno resistito a lungo al logorio
del tempo.
«Compito dell’intellettuale è ripensare i termini storici e
gli errori attraverso i quali si è sviluppato, da noi e nel mondo moderno, il
rapporto fra intellettuali e potere politico e di riprendere coscienza, dopo un
decennio di oscuramento (morte della Resistenza e delle ideologizzazioni
forzate) della portata social-politica del proprio lavoro e della propria
esistenza. Da queste premesse scaturisce la necessità di una scelta
radicale:[…] La scelta è tra una prospettiva di omogeneizzazione progressiva
del corpo sociale nella società del benessere, eterodiretta e
pseudodemocratica, scientifica e buro-tecnocratica e una prospettiva di massimo
intervento attivo sui destini e sulle scelte, tramite la collettivizzazione
degli strumenti capitalistici di produzione e di scambio […] e attraverso
l’identificazione e lo sviluppo delle reali antitesi sociali, oggi occultate o,
detto altrimenti, della lotta di classe» [11].
Insomma Fortini, avendo rotto definitivamente col PSI,
vedeva nel nascente centro-sinistra l’ennesima “operazione Gattopardo”
italiana, e, pur consapevole degli spazi sempre più stretti che restavano alla
via rivoluzionaria, avanzava «una proposta assolutamente romantica, […], una
proposta di ‘dover essere’ »[12]. È comprensibile che i giovani di Piacenza
abbiano rivissuto nelle parole di Fortini il mito de Il Politecnico e
delle altre esperienze del marxismo critico che, nel corso del primo decennio
del dopoguerra, avevano lavorato per affermare un’altra linea rispetto allo
stalinismo e al togliattismo imperanti.
Nel primo numero dei Quaderni Piacentini, sotto
l’intestazione della rivista, veniva stampata la seguente Avvertenza:
«Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non
solo all’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni
anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che
serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve esser
seri senza essere noiosi. Con allegria» (in Muraca, 2024: 64).
Già da questa Avvertenza si poteva cogliere l’originalità
dello stile comunicativo della rivista. E sarà questa una cifra caratteristica
dei Quaderni Piacentini; così, contro tutte le retoriche
celebrazioni della Resistenza, in un altro numero della rivista si afferma:
«No, no no. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano
‘onorati’ con monumenti ‘ai caduti di tutte le guerre’ inaugurati da Vescovo,
Prefetto, Presidente del Tribunale, Commissari, Intendenti e Soprintendenti.
Meglio il silenzio. Il senso della Resistenza fu: RIVOLUZIONE,
RINNOVAMENTO».
La rivista pubblica contributi importanti di R. Solmi, C.
Cases, V. Strada, L. Amodio, S. Bologna, S. Timpanaro, R. Panzieri e F.
Fortini. Indubbiamente la rivista coprì un vuoto politico e culturale reale.
Infatti i Quaderni piacentini contribuirono, nella seconda
metà degli anni Sessanta, a diffondere un nuovo patrimonio di idee, un
atteggiamento radicale ed antagonista e a preparare il terreno all’affermazione
del Sessantotto.
Non possiamo chiudere questa recensione senza un accenno al
saggio finale di Gabriela Fantato con cui si conclude il libro di Giuseppe
Muraca. Il saggio s’intitola: Un pensiero eretico: il femminismo degli
anni Settanta e le sue riviste. Innanzitutto bisogna riconoscere che
ha fatto bene Muraca a non dimenticare le riviste femministe della fine del
secolo scorso anche perché, come è stato osservato da molti, tra tante
rivoluzioni fallite quella femminista risulta essere, ancora oggi, una di
quelle meglio riuscite.
Il movimento femminista in Italia si manifesta e si sviluppa
anni dopo quello francese, inglese e americano. L’ Italia degli anni Sessanta
era ancora un Paese arretrato e prevalentemente contadino. Il Codice
penale e civile, fino ai primi anni Settanta, prevedevano perfino
il delitto d’onore; il divorzio non era
consentito e l’aborto era considerato un grave reato.
Si dovrà aspettare la fine degli anni Settanta per l’affermazione di un nuovo
diritto di famiglia.
Libreria delle donne a Milano, 1970 (ph. Bibi
Tomasi)
Ma, dal punto di vista culturale, le donne italiane erano
già più avanti dei vecchi codici. Già alla fine degli anni 60 circolavano in
Italia i libri di Simone De Beauvoir e delle femministe inglesi e americane.
Nel 1970 viene pubblicato il saggio di Carla Lonzi, Sputiamo su
Hegel, che tanta risonanza avrà nei primi movimenti femministi
italiani. Il libro della Lonzi aprì anche un dibattito in campo filosofico
perché svelava il grande rimosso del corpo e della voce femminile, attraverso
un percorso di critica del pensiero occidentale. A Milano sorge la famosa Libreria
delle donne e, nel 1973, la prima rivista femminista italiana Sottosopra che
diventa portavoce delle principali istanze del movimento: insistere sulla differenza tra
uomini e donne; mettere in luce la specificità delle donne,
il corpo e il desiderio delle donne.
Naturalmente il Movimento femminista venne accolto inizialmente con sospetto
dalla stessa Sinistra che considerava eretiche tante sue posizioni.
Tutte le riviste esaminate da Giuseppe Muraca, pur nelle
loro differenze, avevano un tratto comune: erano opere di gruppo, opere
collettive, segno appunto – come ben dice l’autore del saggio – di un Fare
comune. Oggi, tra le tante cose perdute, va segnalata questa:
la perdita della voglia di fare gruppo in una società sempre più frammentata
dove sembra che ci sia spazio solo per individui isolati che se la cantano e se
la suonano da soli.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Cito dall’ottima Antologia de Il Politecnico curata
da Marco Forti e Sergio Pautasso, edita da Rizzoli Milano, 1975: 55
2[] Ivi: 56
[3] Vedi, ad esempio, cosa scrive Romano Luperini nel
suo Novecento, Loescher, Torino 1981: 384, cit. da Muraca: 15.
[4] Il “Programma” del Politecnico,
inedito per diversi anni, venne stampato la prima volta nel n. 17- 18
(luglio-settembre 1964) dei Quaderni Piacentini.
[5] Franco Fortini, Che cosa è stato il Politecnico,
in Dieci inverni citato da Muraca: 12-13.
[6] Politica e cultura. Lettera a Togliatti Il
Politecnico n.35, gennaio-marzo 1947, ora in Antologia
de Il Politecnico, op. cit.:121.
[7] Ivi: 122-123.
[8] Ivi: 128. Vittorini mostra chiaramente di
aver letto in anticipo, come Luigi Russo, almeno una parte del Quaderno
gramsciano sul Materialismo storico e la filosofia di Benedetto
Croce che sarà pubblicato da Einaudi nel gennaio del 1948: «Antonio
Gramsci ristabilisce la piena attualità del marxismo, non senza aver accolto
talune delle obbiezioni crociane, e non senza essersene giovato» (ivi: 132).
D’altra parte Togliatti, fin dal 1945, aveva preso contatto con l’editore
Einaudi per pubblicare la prima edizione tematica dei Quaderni.
[9] Ivi: 137.
[10] Franco Fortini cit. da Muraca: 18-19.
[11] Franco Fortini, Lettera ad amici di
Piacenza, in Ospite ingrato, Marietti 1985: 78-84
[12] Fortini cit. da Muraca: 62