FRANCO BIFO BERARDI, TEMPO-MORTE-ASTRAZIONE

 

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Tempo, morte e astrazione


Franco Beradi Bifo
11 Maggio 2024

La rimozione della morte accompagna da sempre la civiltà bianca occidentale. C’è una ragione profonda, dice Bifo, di questa rimozione: il capitalismo è il tentativo più riuscito di realizzare l’eternità, l’accumulazione di capitale è eterna, non importa se non lo è la vita delle persone. Accumulazione di potere significa tentare all’infinito di intensificare in tanti modi diversi la produttività in ogni ambito della vita: in questo contesto la digitalizzazione (che implica una gigantesca e costante stimolazione informativa da cui sembra impossibile difendersi) e la precarizzazione del lavoro favoriscono effetti psichici, cognitivi e dunque sociali devastanti. Panico, depressione, ma anche azzeramento del tempo per la percezione di sé, per l’affettività, per il pensiero critico collettivo. Anche così si spiega la crescita del bisogno di violenza e del bisogno di guerra…

Foto di Jené Stephaniuk su Unsplash

Uno sguardo ironico sulla direzione del tempo, sulla ricerca di sintonia con il divenire nulla, mi appare sempre più urgente. Forse è solo una mia urgenza personale, o forse è un’urgenza filosofica per chiunque si rende conto di quanto tossica sia l’atmosfera fisica e psichica in cui siamo immersi.

Il tema su cui il Congresso di Filosofia Galiziana ci invita a riflettere è quello del tempo, ma io non pretendo di parlarne in maniera esaustiva. Mi limito a riferirmi a due prospettive filosofiche che nella modernità hanno pensato il tempo.

La prima è la prospettiva kantiana, che inaugura un filone mentalista, o innatista della filosofia moderna, facendo del tempo una categoria trascendentale, una pre-condizione dell’attività mentale. In Kant la parola “trascendentale” indica il primato della forma-tempo (e della forma-spazio) rispetto all’esperienza. Puro da ogni esperienza è dunque il tempo kantiano, perché solo nel tempo si può percepire, esperire, conoscere.

C’è però un’altra visione del tempo che mi interessa più direttamente. È quella che prende forma nel pensiero di Henri Bergson: l’idea del tempo come durata, come esperienza, come flusso di percezione che produce, esperendola, la sua dimensione temporale.

Due visioni opposte, se vogliamo, ma anche complementari: secondo la prima il tempo è condizione in cui si dà l’esperienza, per la seconda non vi è tempo se non come tempo dell’esperienza.

L’etimologia della parola latina ex-periri è equivoca. Deriva da ex-perior: ci provo, passo attraverso. Andare a/traverso: per-ire.

C’è la morte, nell’orizzonte dell’esperienza nel tempo, e il tempo soggettivo è segnato da questa consapevolezza del venir meno. Il tempo è l’autopercezione di un divenire, del divenire di un corpo entro l’orizzonte del suo divenire nulla.

Deleuze e Guattari hanno proposto il concetto di divenire come metamorfosi degli esseri viventi: hanno parlato di divenir minore, divenir donna, divenir animale, divenir altro… Non hanno parlato di divenire nulla, che invece mi pare una prospettiva non solo interessante, ma forse anche indispensabile.

Il divenir nulla rimane impensato nella cultura moderna, pur essendo il processo che meglio ci permette di comprendere la potenza della coscienza: potenza di porre in essere il mondo per un soggetto cosciente, e potenza di annientare il mondo per un soggetto cosciente. Eppure questo divenire è ignorato dal pensiero e dalla pratica, nella sfera della civiltà occidentale. Perché?

Essais sur l’histoire de la mort en Occident, di Philip Ariès, è un libro sulle ragioni per cui nella sfera culturale dell’occidente – particolarmente nella sfera culturale bianca protestante, quel divenire non può essere pensato: una società che premia soltanto chi vince identifica la morte con una sconfitta inammissibile. Rimozione della morte: la civiltà bianca occidentale non può concettualizzare quell’evento perché incompatibile con la proiezione di un futuro di espansione illimitata, che è l’anima della colonizzazione bianca del mondo.

C’è una ragione profonda di questa rimozione: il capitalismo è il tentativo più riuscito di realizzare l’eternità. L’accumulazione di capitale è eterna. Il valore, in quanto astrazione del tempo di vita, è eterna, anche se si tratta di un’eternità che ci costa la mortificazione della vita reale. Attraverso la mortificazione del tempo vissuto realizziamo l’eternità del capitalismo.

La frase di Mark Fisher “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” sembra un paradosso. Non lo è. È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo perché la fine del mondo è possibile, anzi sta effettivamente accadendo. La fine del capitalismo non è possibile perché il capitalismo è eterno, in quanto si costituisce nello spazio dell’astrazione, e l’astrazione è eterna: non esiste.

Però quella dell’astrazione è una non esistenza che presuppone il sacrificio dell’esistenza reale di innumerevoli esseri umani.

Il capitalismo instaura una dimensione percettiva in cui il futuro è espansione illimitata. Il futuro non finisce mai, dunque l’espansione è illimitata. Entro le condizioni epidemiche della modernità non si può pensare il futuro senza pensare la crescita, condizione dello sviluppo capitalistico.

Il futurismo non fu solo un movimento letterario, ma un carattere profondo della cultura capitalistica in tutti i momenti del suo sviluppo. All’inizio del secolo ventesimo il futurismo si afferma come la modalità più decisiva nella percezione del tempo, al punto che non si può immaginare una relazione sociale o produttiva, senza espansione. Il futuro deve essere espansione altrimenti c’è un disturbo, un pericolo, una disgrazia depressiva che non possiamo tollerare.

Mi viene in mente quel che scrive Milan Kundera in La vita è altrove (Adelphi):

“Pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto e immutabile? Ah, no, il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi…”.

Il passato cioè esiste solo nella memoria, e la memoria, come una giacca di taffetà cambia perché con il passare del tempo cambiamo prospettiva, e vediamo aspetti che prima non vedevamo mentre qualcosa la dimentichiamo. Il futuro, invece, ci arriva addosso come un inconoscibile che non possiamo né prevedere né modificare con la volontà.

Il futuro del capitalismo è un inconoscibile al quale non possiamo sfuggire perché il capitalismo funziona come un complesso di automatismi attraverso i quali l’astrazione (valorizzazione) si impone sopra il concreto (il lavoro vivo). La storia del capitalismo è una storia di crescita perché la tecnica rende possibile una costante accelerazione del tempo di lavoro.

È nell’intensificazione della produttività del lavoro nell’unità di tempo che si trova la soluzione dell’enigma che chiamiamo crescita, o sviluppo o progresso. In questa storia di accelerazione, che è la storia del lavoro e della sua progressiva astrazione, si è verificato qualcosa di nuovo negli ultimi decenni: la digitalizzazione del lavoro ha reso possibile un’intensificazione fantastica della produzione di plusvalore. Di questa intensificazione quel che più mi interessa non è la dimensione economica dell’accelerazione produttiva, ma gli effetti psichici e cognitivi.

Mi riferisco alla cellularizzazione del tempo di vita, all’effetto di ubiquità della produzione alla scomparsa o rarefazione del corpo dell’altro nel processo di comunicazione.

Grazie alla tecnologia digitale ogni individuo può ricevere e mandare una massa crescente di informazione; l’informazione non è solo segni immateriali ma anche trasmissione di stimoli materiali che giungono alla materia nervosa di cui il cervello è composto, stimolando l’organismo sensibile in maniera sempre più rapida. Patologie come i disturbi dell’attenzione che caratterizzano i comportamenti cognitivi delle generazioni digitali non si possono comprendere se non riflettendo sull’effetto fisico o piuttosto cognitivo prodotto dalla stimolazione informativa.

Non possiamo sapere se ci sia un punto di rottura in questa accelerazione, quel che conosciamo bene è la diffusione di patologie psichiche nella generazione più giovane. Mi pare di comprendere che ci sono due effetti essenziali della sovra-stimolazione. Il primo è un effetto che si può definire come panico, un effetto di accelerazione della reazione psichica che si manifesta come sensazione di non essere all’altezza del tempo, di essere sempre in ritardo, di essere sopraffatti da un’onda di eventi che non possiamo comprendere in successione.

Un organismo che soffra a lungo di questa stimolazione panica può a un certo punto collassare e passare a una modalità depressiva: caduta della tensione desiderante che segue all’effetto panico.

I due effetti sono da vedere – sul piano collettivo – come patologie complementari che si alimentano a vicenda.

La precarizzazione del lavoro è il contesto in cui questo doppio effetto patogeno si manifesta e si alimenta. Che significa precarietà a livello lavorativo e giuridico lo sappiamo bene: una interruzione della relazione normativa tra il datore di lavoro e il lavoratore, una rottura che obbliga il lavoratore a vivere sempre in una condizione di concorrenza e di competizione con gli altri lavoratori. In una condizione di attesa continua

Marx spiega che i proletari diventano operai quando entrano nella fabbrica. C’è concorrenza tra proletari quando si presentano davanti alla fabbrica perché competono per entrare. Quando sono entrati in fabbrica diviene possibile fra loro l’amicizia, la solidarietà di classe. È questa la trasformazione da proletari a operai. Ma la precarizzazione generale del lavoro cambia la prospettiva, perché ogni giorno i proletari sono costretti a competere tra loro senza possibilità di trasformarsi in lavoratori capaci di solidarietà.

Il concetto di precarietà non si limita alla dimensione lavorativa, ma si deve analizzare come concetto psicopatologico. Quando diciamo precarietà diciamo una condizione in cui la relazione sociale affettiva e sociale con l’altro è sempre in pericolo, è sempre in una condizione di ridefinizione. La trasformazione digitale comporta che il lavoratore non incontra mai il corpo dell’altro lavoratore pur collaborando con lui alla produzione di (astratto) valore.

La sfida del capitalismo mira verso l’eternità attraverso l’astrazione del lavoro e attraverso l’accumulazione virtualmente infinita del valore. Ma a un certo punto della storia del capitalismo, si verifica un fenomeno che definirei come esaurimento. L’eternità (astratta) della produzione di valore non toglie di mezzo il corpo, e il corpo (concreto) vive nel tempo:  invecchiamento, esaurimento, divenire nulla. Il capitalismo è virtualmente eterno, ma i corpi dei lavoratori, della società vivente, non sono eterni. Sono corpi che si esauriscono, che invecchiano, che muoiono. Questa contraddizione è scandalosa, è qualcosa che non può si può pensare, tanto è vero che pensarla, dirla ad alta voce suscita un certo imbarazzo. Questo scandalo della morte è qualcosa che lo sviluppo capitalista non intende riconoscereC’è tutta una macchineria economica, ideologica, pubblicitaria che mira negare l’esaurimento, però l’esaurimento avviene, anche se non ne dobbiamo parlare.

L’invecchiamento della popolazione bianca nel nord del mondo ha diverse facce: anzitutto è un effetto del prolungamento del tempo di vita, che è un successo straordinario della medicina e della scienza in generale, ma è anche un fallimento del filosofo, perché il filosofo non ha saputo pensare l’invecchiamento nelle sue implicazioni sociali, politiche, etiche. D’altro lato l’invecchiamento del mondo è legato a un altro fenomeno non meno interessante che si chiama denatalità.

Il tema è enorme, forse il più grande argomento del tempo in cui viviamo e di quello futuro. I politici in generale, ad esempio i politici (e le politiche) italiane parlano di inverno demografico, parlano di pericolo della denatalità. Le donne non fanno figli, è un pericolo per l’ordine sociale, che possiamo fare?

La versione ufficiale è che si tratti di un problema essenzialmente economico: non ci sono asili, occorrono soldi per le madri, occorrono congedi per i padri e cose del genere. Ma io credo che la denatalità sia un fenomeno molto più complesso di quello che l’economia può comprendere. Anzitutto è un effetto della libertà delle donne, in secondo luogo è un effetto della separazione della sessualità dalla procreazione, resa possibile dalle tecniche contraccettive e abortive. In terzo luogo, e soprattutto, mi pare che la denatalità oggi sia l’effetto di una coscienza diffusa in gran parte del mondo del carattere terminale del nostro tempo. Consciamente o inconsciamente le donne hanno deciso che non è buona cosa generare le vittime dell’inferno climatico inevitabile, le vittime della guerra nucleare sempre più probabile.

In Corea del Sud il tasso di riproduzione è sceso a 0.7 che vuol dire che i coreani sono destinati a sparire nel giro di qualche generazione. Ma lo stesso accade in tutto l’emisfero nord, e tende a divenire la tendenza generalizzato nel corso del secolo. Un crollo demografico di proporzioni eccezionali, che secondo alcuni demografi (vedi ad esempio Spear Dean) farà scendere la popolazione ai livelli in cui si trovava alla fine del secolo diciannove. (nytimes.com)


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L’invecchiamento della popolazione del nord del mondo sta producendo effetti culturali psichici e sociali enormi, che si manifestano con quel che appare come un ritorno del fascismo anche se non è propriamente un ritorno del fascismo. Chiaramente i partiti che discendono dal fascismo storico vincono le elezioni con una propaganda di tipo razzista. Ma si tratta davvero di un ritorno del fascismo storico?

Il fascismo era centrato sulla giovinezza, come ci ricorda la canzone dei fascisti italiani. Il fascismo è essenzialmente futurista, fenomeno di conquista, di aggressività colonialista, di coraggio maschile. Non mi pare che il fascismo di oggi sia giovane, né coraggioso, né finalizzato alla conquista. Gli europei come i nordamericani, come i russi temono quella che vedono come un’invasione dei poveri del mondo, degli affamati, di coloro che subiscono più duramente la guerra e gli effetti del cambio climatico. Insomma direi che il movimento reazionario globale di cui si moltiplicano i segni da un decennio, è un fascismo dei vecchi. È un fascismo che teme l’invasione dal sud, un fascismo alla rovescia. Un fascismo della paura non del coraggio conquistatore.

La genesi psichica di questo movimento reazionario la spieghiamo solo se comprendiamo il fatto che l’identificazione del futuro con l’espansione è radicata in maniera talmente profonda che non riusciamo a pensare l’esaurimento, né l’invecchiamento, né la morte. È l’impotenza che la civiltà bianca non riesce ad affrontare ed elaborare. L’impotenza dell’organismo nel tempo: questo è il nucleo della psicosi di massa che torna e ritorna nella storia dell’Occidente.

La persona che meglio parla del fascismo contemporaneo è probabilmente Michel Houellebecq, che è un razzista, se vogliamo, un machista un po’ caricaturale, ma comunque è colui che meglio racconta dall’interno la solitudine maschile contemporanea.

L’extension du domaine de la lutte è un libro che spiega la genesi dell’aggressività maschile bianca senescente come motore principale del movimento reazionario globale. Aneantir parla invece della disperazione che l’invecchiamento della civiltà bianca produce.

L’aggressività è iscritta nello psichismo della civiltà bianca, ma il problema è che adesso le energie scemano, e l’aggressività ci riesce male: non siamo in grado di riconoscere la nostra impotenza, a livello politico come a livello sessuale, e pretendiamo di riaffermare la supremazia bianca con la tecnologia, l’economia, le armi. La supremazia bianca giunge ora al suo momento declinante, e a questo punto la demenza senile sembra prendere il sopravvento. La guerra ucraina, guerra inter-bianca, rischia di evolvere in maniera sempre più drammatica, verso la guerra nucleare. Una rissa tra vecchi dementi dotati di armi spaventosamente potenti rischia di finire male per tutti.

L’invecchiamento, e la demenza senile sono la radice profonda della psicosi che si manifesta come fascismo di ritorno.

Ma un’altra radice del fascismo contemporaneo è il caos, o meglio la percezione del caos. Parliamo del caos, perché il caos ha molto a che fare con il tempo. Infatti per capire cosa vuol dire caos dobbiamo partire dal tempo vissuto, dal tempo mentale.

Il caos non esiste in sé. Nel mondo non c’è nulla che si possa definire come caos. Esso infatti è solo una misura del rapporto fra velocità dei processi in cui siamo coinvolti, velocità dell’infosfera, e ritmo dell’elaborazione mentale, emotiva oltre che intellettuale. Stiamo parlando di una relazione tra ritmo di elaborazione mentale e ritmo della stimolazione info-neurale che la mente riceve.

Per millenni la mente umana ha agito in un ambiente in cui l’informazione viaggiava con la velocità della relazione immediata, o con la velocità del testo scritto. Una velocità relativamente lenta che è andata accelerando nel corso della modernità, fino al momento di un’esplosione fantastica, conseguente più o meno all’introduzione dell’elettronica, e alla digitalizzazione della semiosi universale. Da quel momento l’infosfera ha preso a moltiplicarsi fantasticamente. E se dico che si moltiplica sto dicendo che si accelera in rapporto alla mente ricevente.

La mente viene esposta allora a una massa di informazioni che non sono semplici segni immateriali, ma sono stimoli nervosi che la mente non può elaborare, e producono effetti di sovraccarico, di panico, di caos. Gli stimoli che giungono dall’infosfera agiscono come un costante appello all’attenzione, come una mobilitazione perpetua delle energie attentive, e questa mobilitazione non lascia spazio alla percezione di sé, all’affettività, né alla critica.

Che facciamo in questa situazione? Nelle condizioni di caos la reazione psichica del soggetto si può fare aggressiva: il caos spinge l’organismo al bisogno di violenza, al bisogno di guerra.

La fine del tempo è impensabile, ma non è impensabile la fine del tempo umano. Il tempo umano è qualcosa di concreto. L’astrazione ci sopravviverà, probabilmente, per quel che ce ne frega. Ma il tempo umano contempla oggi la probabilità della sua fine.

Il mondo non è l’astrazione, ma è il corpo massacrato dei palestinesi, il corpo massacrato della vita sociale nei luoghi devastati dal collasso climatico. Questo corpo concreto non può sopravvivere nell’accelerazione caotica crescente.

Per concludere debbo dire però che il quadro che sono andato delineando, lo scenario del probabile e dell’inevitabile che sono andato delineando, va relativizzato.Perché l’inevitabile in generale non si verifica, in quanto l’imprevedibile prende il sopravvento. Non mi interessa parlare di speranza, una parola che non pronuncio.


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Mi interessa pensare, parlare, agire in termini di imprevedibile. E dell’imprevedibile nulla possiamo dire. Di quello che non possiamo dire dobbiamo tacere. Possiamo descrivere l’inevitabile ma non possiamo sapere quale evento, quale creazione, quale algoritmo, quale forma di vita stia prendendo forma come possibilità che sta al di fuori della nostra conoscenza.

Se ci limitiamo a descrivere le condizioni oggettive e soggettive del presente ci rendiamo conto che non c’è modo di sfuggire a una tendenza verso l’annientamento dell’umano. Se parlo di quel che conosco non vedo alcuna via d’uscita. Ma quel che io conosco non è tutto: non conosco l’imprevedibile. Non parlo di qualcosa di mistico, ma della produzione mentale, immaginativa, estetica, tecnica, che non appartiene al campo del conosciuto e dell’esistente. Come al solito è l’ignoranza (forse) che ci salva. È il non sapere che salva dal sapere.


Testo dell’intervento alla conferenza ospitata dal Teatro principal di Pontevedra, il 4 aprile 2024, nel contesto della Settimana galiziana di Filosofia

GRAMSCI, MAJAKOVSKIJ e PASOLINI HANNO AVUTO RAGIONE A NON FIDARSI DEGLI INTELLETTUALI

 


In una nave che affonda gli intellettuali sono i primi a fuggire subito dopo i topi e molto prima delle puttane. (V. Majakovskij)













Ecco cosa ha scritto Antonio Gramsci in carcere sugli intellettuali.
(Tre pagine tratte dal mio libro "EREDITA'  DISSIPATE)


V. Majakos


LA MAFIA SECONDO VINCENZO CONSOLO


 

Ho visto nascere questo libro, curato con la consueta acribia dal mio fraterno amico Nicolò Messina. Quarant'anni di mafia e di costume siciliano raccontati attraverso gli articoli di cronaca di uno dei maggiori scrittori e intellettuali italiani. (fv)

 


16 maggio 2024

FINTE DEMOCRAZIE

 


Democrazie di sabbia

Mauro Armanino
15 Maggio 2024

Nelle ultime settimane ogni tanto i grandi media occidentali sono costretti a occuparsi del Niger, soprattutto quelli italiani, dal momento che l’ultimo esercito occidentale rimasto nel paese dopo il colpo di stato della scorsa estate è quello italiano. Quando media e istituzioni parlano del Niger, paese attraversato da sempre da migliaia di migranti, rimbalza spesso la parola popolo, con diversi significati. Mauro Armanino, che vive a Niamey da molti anni e che non smette di raccontare coloro che vivono in basso in questo angolo del mondo, ricorda come da questi parti esista soprattutto il popolo di sabbia, quello ai margini di tutto, spesso venduto e oggi ostaggio delle nuove bandiere sistemate nelle rotonde della capitale. È il popolo che si trova nascosto nella polvere che il vento porta lontano…

Foto di Anton Lecock su Unsplash

Dov’è passato il popolo nei Paesi del Sahel? Si tratta dei bambini, i giovani e gli adulti che hanno riempito lo stadio un paio di volte dopo il golpe di fine luglio dell’anno scorso? Oppure dei gruppi di vigilanza nelle rotonde della capitale? O delle migliaia di cittadini che hanno ottenuto la partenza incondizionata dei militari francesi prima e statunitensi poi nella piazza battezzata della Resistenza? Parliamo delle qualche decine di militanti delle organizzazioni della società civile che hanno “sposato” e “orientato” la causa della giunta? C’è popolo e popolo, come dappertutto in giro per il mondo, beninteso. Coloro che ne accaparrano i vizi e le virtù e coloro che, diciamo così, non ne faranno mai parte. Ad esempio i bambini e gli adulti che a centinaia mendicano sulle strade della capitale o che sono “esportati” nei Paesi confinanti per esercitare il mestiere di salvare le anime dei peccatori. In effetti, anche grazie a loro i fedeli potranno praticare la virtù dell’elemosina e sperare nella misericordia divina. Nella zona “grigia” tra il popolo e il non popolo ci sono le moltitudini dei contadini, degli allevatori di bestiame e la folla immensa di giovani che sopravvivono del lavoro informale per il cibo quotidiano. A meno che non si chiami “popolo” solo chi sta dalla parte “giusta”.

C’è il popolo dei commercianti, i grandi che vanno a Dubai o altrove, i medi che si industriano per riemergere dalla crisi, i piccoli delle frontiere e i minimi che vendono i sacchetti d’acqua di un’improbabile sorgente del Sahel, pura e minerale per tutti i gusti. Ci si ricorda del popolo dei politici del passato, in situazione di stallo con la sospensione delle attività dei partiti politici o per via dei compromessi con l’antico regime presidenziale del Rinascimento. Il popolo dei funzionari statali, gli insegnanti, gli impiegati nelle Ong locali, i superstiti delle cooperazioni bilaterali e l’indefinita lista di chi cerca lavoro e colleziona domande di assunzione per concorsi che non arrivano mai in tempo. Si dovrebbe aggiungere il popolo degli imprenditori religiosi che organizzano la vita religiosa del popolo dei credenti a sua volta suddiviso tra stranieri e autoctoni. Poi c’è il popolo dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati espropriati delle terre, le case e il futuro che immaginavano diverso. Il popolo dei militari fa storia a sé soprattutto se si prendono in considerazioni i gradi, le affinità, le conoscenze e l’attuale posto nell’amministrazione politica del Paese. Anche le donne formano, a modo loro, un popolo a parte speciale coi suoi riti, attese, prerogative e poteri sul quotidiano dei figli e quello, meno evidente, sui mariti.

Il popolo è dunque un’idea nata da qualche parte tra il concetto di nazione e quello di stato. Oppure non si tratta che di un’invenzione che solo la scelta di nominarlo permette di farlo esistere. “In nome del popolo sovrano” suona quasi come un proclama assoluto dal sapore divino. La giustizia, la legge e la carta costituzionale si fondano sul popolo e così la sovranità che gli appartiene per natura. Sono i cittadini riconosciuti come tali che sembrano costituire il popolo in base all’appartenenza storica, geografica, culturale e politica a un ordinamento accettato e riconosciuto.

Infine c’è il popolo di sabbia o meglio il popolo che della sabbia è una creatura a parte. Spazzato via dal vento e dai pulitori di strade, ai margini delle corsie transitabili dai veicoli oppure allontanato dagli orientamenti strategici del Paese, venduto e occasionalmente ostaggio delle nuove bandiere sistemate nelle rotonde della capitale. Fanno bella mostra quelle dei Paesi dell’Alleanza del Sahel assieme a quella della Russia. Forse il popolo introvabile si trova, nascosto, nella polvere che il vento porta lontano.

[Mauro Armanino, Niamey]


RESISTERE ALLA DISTRUZIONE

 

     Acampada per la Palestina nell’università Statale di Milano. Foto di Milano InMovimento


Resistere alla distruzione

Gian Andrea Franchi
15 Maggio 2024

La possibile salvezza della condizione umana risiede nella potenza comunicativa, cioè nella effettiva manifestazione del carattere relazionale, togliendolo dal suo stravolgimento predatorio diffuso nella violenza dominante. Rileggere Celan mentre lo Stato d’Israele agisce la sua violenza genocida



“È andato fino in fondo, ha esaurito le sue possibilità di resistere alla distruzione … si è pienamente realizzato”. Non possono che coinvolgere queste parole di Emil Cioran su Paul Celan, come lui rumeno, scritte dopo il suicidio di quest’ultimo a Parigi, il 20 aprile 1970.

Celan, ebreo rumeno, i cui genitori muoiono durante la deportazione nazista, dalla quale lui stesso si è fortunosamente salvato, ha scelto di scrivere in tedesco, invece che nella lingua natale. Questa scelta è un grande gesto di politica culturale – mettendo in forte risonanza cultura e politica – perché distingue la grandezza creativa di una lingua, di una cultura, da chi la stravolge irrigidendola nel più atroce razzismo. Celan ha resistito alla distruzione proprio esprimendosi nella lingua dei distruttori: ha restituito a quella lingua la sua grandezza, separandola dal suo uso razziale, affermandone, invece, l’umana universalità. Ha vinto gli assassini (anche) della lingua. E ha vinto per tutti.

Pensiamo alla densità dei versi di Celan in confronto alla lingua degli scritti o dei discorsi di Hitler, ai secchi ordini mortali urlati dalle SS nei lager… Celan scinde la lingua di Hölderlin e di Goethe dall’uso nazista con un gesto essenziale di salvezza, umana e politica: la lingua tedesca non è razzista – l’essere umano non è solo odio e violenza.

Colpisce questo paradosso tragico: il poeta esprime nella lingua dei persecutori una tragedia personale e storica, in quella perfetta fusione dei due aspetti che è la qualità essenziale del linguaggio poetico – tale proprio per la capacità di mostrare il nesso costitutivo tra l’”intimo” e lo “storico”. In questo modo esprime pienamente la dimensione tragica della condizione umana, ben colta nelle parole di Cioran, che la vita e l’opera del poeta mostrano con una peculiare intensità. Celan si è realizzato nell’esprimere una tragedia che, alla fine, lo ha ucciso, ma consegnandoci le parole adeguate per dirla è andato oltre: ha superato la sua personale tragedia e ha anche comunicato a tutti una speranza, concreta nella potenza dei suoi versi.

La possibile salvezza della condizione umana risiede nella potenza comunicativa, cioè nella effettiva manifestazione del carattere relazionale dell’umano, togliendolo dal suo stravolgimento predatorio diffuso nella violenza dominante.

Questa potenza comunicativa si è espressa finora nell’arte, nella letteratura ma anche in innumerevoli forme sociali creative.

Quest’ordine di riflessioni sembra tanto più significativo in un momento storico nel quale lo Stato d’Israele afferma con violenza genocida che nella storia c’è posto solamente per persecutori o perseguitati: “There is not alternative!”. Fare politica in basso, nella società, creando forme comunitarie, vuole affermare invece che “There is alternative”, che l’essere umano non è solo odio e violenza, a malapena celato sotto la maschera dell’economia.

15 maggio 2024

PACIFISMO PUNTO A CAPO

 


Pacifismo punto a capo


Marco Deriu
15 Maggio 2024

Viviamo in un clima di guerra con un aumento del numero di conflitti, delle vittime e delle spese militari. Con un ritorno dell’incubo di genocidi, di bombe atomiche e lo spettro di una terza guerra mondiale. Di fronte a questo scenario occorre ripensare e aggiornare le riflessioni e le pratiche politiche del pacifismo. Un elenco di segnavia per cominciare, curato da Marco Deriu per i Quaderni della decrescita

Disegno di Gianluca Foglia Fogliazza (che ringraziamo)

Viviamo sempre più in un clima di guerra, sotto tanti punti di vista. Secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)1 nel 2023 si è verificato il 12% in più di conflitti rispetto al 2022 e un aumento di oltre il 40% rispetto al 2020. Tra questi i conflitti con i livelli più alti di violenza, sono almeno una cinquantina. Nel 2023 sono stati registrati oltre 147.000 eventi di conflitto e almeno 167.800 vittime.

L’invasione Russa dell’Ucraina ha riproposto una modalità di guerra tra Stati, mescolando forme novecentesche (eserciti nazionali, mobilitazioni su grande scala, fronti e scontri di posizione, kilometro per kilometro) con nuove armi e apparati tecnologici (satelliti, droni, I.A.), che ci ha portato molto più vicino alla forma di una nuova guerra mondiale, così come ha riproposto la paura delle armi atomiche, nonché i rischi connessi agli attacchi alla centrale nucleare di Zaporizha. Le stime dei morti parlano di quasi 11mila vittime tra i civili, di cui circa 550 bambini e, secondo le fonti governative, di almeno 31mila soldati ucraini, ma il numero è probabilmente più alto. Mentre le vittime tra i soldati russi, secondo BBC Russia e alcune fonti indipendenti sul campo,2 supererebbero i 50mila morti. Si tratta di un bilancio di molto superiore a quello ammesso da Mosca ed è comunque probabile che il numero effettivo di morti russi sia ancora più elevato.

Sul fronte palestinese, prendendo in esame solamente il periodo più recente, l’attacco terroristico dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Mentre il criminale bombardamento e l’invasione israeliana di Gaza ha causato la morte di almeno 32mila persone tra i palestinesi e oltre 250 soldati israeliani. Un’azione bellica che per le sue dimensioni e modalità che non hanno risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, impedendo anche gli aiuti umanitari e la distribuzione di alimenti, è stata considerata da molti osservatori una forma di genocidio. L’azione di Israele si è poi estesa ad altre regioni, dalla Siria all’Iran, colpendo prima l’ambasciata iraniana a Damasco e quindi lanciando missili ad Isfahan, la sede di impianti nucleari iraniani. Attacchi che minacciano di espandere ulteriormente il conflitto nell’area.

I conflitti in Ucraina e Palestina, per la loro rilevanza internazionale, i rischi di destabilizzazione complessiva e anche le minacce di pericolosi disastri nucleari, hanno trovato più attenzione sui media, ma ci sono molti altri paesi colpiti da guerre o violenze di notevole entità. Tra questi Myanmar, Siria, Colombia, Yemen, Sudan, Nigeria, e ancora Congo, Iraq, Pakistan, Mali, India, Burkina Faso, Bangladesh, Kenya, Honduras, per citare solo alcuni dei casi più rilevanti. Ci sono poi paesi che non registrano guerre in senso convenzionale, ma che fanno i conti con un livello molto alto di conflitti tra diversi gruppi e di vittime. È il caso di diversi paesi dell’America Latina: Messico, Brasile, Colombia e Haiti.

Attualmente circa una persona su sei vive in un’area attivamente in conflitto. Ci sono alcune zone del pianeta dove intere generazioni non hanno mai conosciuto la pace. Dove da 20, 30, 50, 70 anni i bambini e le bambine nascono e crescono nella guerra, in mezzo a violenza, scontri, bombe, paura, corpi straziati, lutti, dolore, rabbia, impotenza, risentimento. Paesi come il Congo, l’Iraq, la Somalia, l’Afghanistan, il Sudan, Myanmar, la Palestina, per ricordare alcuni dei casi più cronici. Questi contesti più estremi ci ricordano che iniziare una guerra è relativamente facile, mettervi fine è invece una faccenda molto più complessa. Se la guerra in sé è un fenomeno devastante, possiamo provare a immaginare quali possono essere gli effetti sull’ambiente e sul territorio, sull’economia e sul lavoro, sulla società e sulle relazioni, sulla cultura e sull’educazione, e infine sulla mentalità e sulla psiche delle persone. Quale eredità può lasciare a tutti questi livelli una guerra estesa e prolungata? Quanto tempo ci vorrà per ricostruire un tessuto socio-ecologico vivibile? Quanto per prosciugare l’odio?

Eppure nei paesi occidentali – l’Italia inclusa – domina nella classe politica e nei centri di potere mediatico e informativo l’idea che la guerra sia un’opzione realistica. Questo nonostante gli interventi in paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia, la Libia, la Siria, il Mali si siano rivelati inconcludenti o controproducenti. In nessuno di questi casi le missioni militari hanno prodotto situazioni di pace o di effettiva democrazia. Hanno invece radicalizzato e prolungato la violenza, ampliato il numero delle vittime, approfondito il risentimento, disseminato in grandi quantità le armi sul territorio, stimolato la nascita del terrorismo, prodotto un aumento strutturale di migrazioni forzate. A loro volta, le politiche securitarie e l’utilizzo di dispiegamenti militari per gestire o contenere i flussi migratori hanno prodotto una crescita del numero di vittime, di migrazioni irregolari e di respingimenti, aumentando la precarietà e l’instabilità sia per i migranti che per le popolazioni locali.

L’uso della guerra e della violenza come strumento per garantire la pace o la sicurezza è dunque più una narrazione ideologica che una descrizione credibile. L’interventismo militare va contestato non solo sul piano etico e ideale, ma anche per la sua lontananza dalla realtà concreta e per il fatto che normalmente produce – almeno dal punto di vista della popolazione – maggiore devastazione e insicurezza in termini materiali, ambientali, economici, psicologici e sociali.

In questo scenario inquietante, caratterizzato dall’aumento dei conflitti nel mondo, dal crescente coinvolgimento dei paesi europei in operazioni belliche, dalla crescita delle spese militari in tutto il mondo, dalla minaccia dell’uso di testate atomiche, dal rischio di una nuova guerra mondiale, dal crescente impatto delle guerre sull’ambiente e sul clima e dall’aumento del rischio di incidenti presso centrali nucleari, dal riproporsi degli stupri e di altri crimini di guerra, da un ritorno dell’incubo dei genocidi, dalla crescita delle migrazioni forzate e dalla militarizzazione dei confini, dalle trasgressioni del diritto internazionale umanitario, nonché da un restringersi degli spazi di discussione libera e democratica non soltanto nei paesi più direttamente coinvolti ma anche in Italia e in altri paesi europei, è inevitabile che il movimento pacifista sia sempre più profondamente interpellato, a proposito e a sproposito.


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Quello che mi appare chiaro è che in uno scenario di questo genere, il movimento pacifista deve considerare la necessità non solo di valorizzare il proprio patrimonio, ma anche di trovare le risorse e gli strumenti per compiere un salto di qualità. Tutti e tutte siamo chiamati a questo sforzo. Da dove ripartire dunque? Di seguito alcuni possibili segnavia.

  1. Ritengo sia saggio partire da una disamina onesta dei limiti che hanno caratterizzato negli ultimi decenni il movimento pacifista, nel nostro paese innanzitutto, e poi a livello internazionale. C’è un grande patrimonio di esperienze, di testi, di pratiche, di proposte, ma molte di queste vanno messe al vaglio di un mondo e di una realtà che si è trasformata sul piano delle dinamiche geopolitiche, delle forme delle guerre e delle violenze, degli strumenti offensivi. Così come occorre considerare la trasformazione dei contesti istituzionali, sociali, culturali, economici, nonché degli attori che li popolano.
  2. È necessario riflettere più a fondo sullo spartiacque del 2003. Il 15 febbraio di quell’anno in tutto il mondo oltre 110 milioni di persone si convocavano nelle strade e nelle piazze di oltre 600 città con lo slogan “Not in my name” per manifestare contro l’intervento militare in Iraq. A Roma la manifestazione coinvolse 3 milioni di persone. Il New York Times scrisse che era nata la seconda potenza mondiale del pianeta. Ma la più grande manifestazione per la pace della storia non impedì la guerra in Iraq. I capi di stato dei paesi occidentali, nonostante la contrarietà dell’opinione pubblica in Italia, in Europa e anche negli USA, attaccarono l’Iraq, sulla base di motivazioni false, devastando un paese e contribuendo in realtà a dare spinta al terrorismo internazionale. Quello che per molti versi è stato il punto più alto del pacifismo mondiale si trasformò in una constatazione di impotenza e inaugurò una fase di demoralizzazione e indebolimento del movimento per la pace. Quello spartiacque andrebbe rielaborato su diversi piani e per diversi aspetti.
  3. Un aspetto centrale da questo punto di vista è la connessione tra democrazia, guerra e pace. È possibile parlare di democrazia in sistemi nei quali le élites politiche possono prescindere completamente dall’opinione pubblica su una delle decisioni più importanti di una comunità politica: la scelta tra la pace e la guerra? Questo fatto richiede di approfondire il senso e il funzionamento delle istituzioni democratiche (su questo ma anche sulle sfide attuali come la crisi ecologica e climatica, il ruolo e la direzione delle nuove tecnologie, le pandemie ecc.). E d’altra parte dovrebbe spingere il pacifismo ad una riflessione più profonda su come la lotta per la pace sia contemporaneamente una lotta per un ripensamento profondo della democrazia: dalle forme di partecipazione alle forme di controllo democratico, dagli spazi pubblici di discussione al ruolo delle tecnologie robotiche e digitali ecc.
  4. Un altro aspetto centrale connesso a questo riguarda le pratiche politiche del movimento pacifista. Le marce, le manifestazioni, l’occupazione delle strade e delle piazze sono importanti ma possono non essere sufficienti. È ovvio che il movimento pacifista ha nel proprio zaino tanti altri strumenti e modalità di intervento – dalle missioni e carovane per la pace, ai progetti sui territori attraversati dalle guerre, dalla ricerca scientifica sulla pace e sulle guerre al lavoro di educazione alla pace nelle scuole e nelle università, dall’obiezione di coscienza ai corridoi di sostegno ai disertori e ai profughi di guerra, dalle campagne contro le armi a quella contro le banche armate, dalle forme di disobbedienza civile nonviolenta alle proposte di difesa popolare nonviolenta ecc. Senza rinnegare nulla, non possiamo tuttavia evitare di domandarci con coraggio se oggi è necessario provare ad aggiornare, rinnovare e ampliare questo patrimonio e a immaginare pratiche nonviolente più capaci di praticare il conflitto sociale e politico, anche con le stesse istituzioni. Occorre trovare nuovi modi per portare alla luce i conflitti, per disvelare l’ingiustizia, per coinvolgere l’opinione pubblica e per spingere i governi ad intraprendere responsabilmente azioni e misure adeguate in termini di democrazia, equità, giustizia ambientale e sostenibilità nei rapporti tra popoli, paesi, generi e generazioni.
  5. In prospettiva una sfida cruciale su cui occorre lavorare è immaginare un movimento pacifista in grado di elaborare una lettura più ampia e più profonda sulle forme del militarismo e della violenza nel mondo contemporaneo. Non solo disarmo, non solo rifiuto della violenza militare ma ragionamento più profondo sulle forme della violenza strutturale (economica, ecologica, sessista, razzista ecc…), delle forme di violenza più “lenta” e invisibile. Della connessione sempre più insidiosa tra forme di estrazione, forme di produzione e consumo e forme di distruzione. Oggi la doppia sfida di un pacifismo critico e di una decrescita democratica e nonviolenta è quella di comprendere più a fondo le connessioni tra mezzi di produzione e mezzi di distruzione, tra i modi in cui produciamo ricchezza e benessere economico e i modi sempre nuovi in cui si dispiegano guerre e violenza. Per il movimento pacifista è fondamentale riconoscere che non basta criticare le iniziative militari se non si costruisce un’opposizione sufficientemente forte ed organizzata per contrastare quel sistema economico e politico che giustifica esplicitamente o implicitamente quelle guerre per difendere gli interessi economici fondamentali dei paesi occidentali. Per il movimento della decrescita è fondamentale esplorare come il degrado dell’ambiente, il cambiamento climatico, il crescente esaurimento delle risorse e la stessa minaccia della catastrofe socio-ecologica rischino – in mancanza di un forte movimento partecipativo e democratico – di lasciar spazio ad una securitizzazione e militarizzazione della questione ambientale.
  6. Abbiamo bisogno di elaborare in maniera più profonda la connessione tra pace e giustizia sia sul piano sociale che ambientale. Per essere credibile, autorevole e durevole, dobbiamo approfondire la nostra concezione della pace. Come diciamo nella sezione monografica di questo numero, consideriamo inevitabile riflettere sull’iniquità del sistema capitalistico e del modello di crescita economica e viceversa sulla necessità di inventare forme di decrescita e benvivere come precondizione per la pace.
  7. Per compiere questo passaggio dobbiamo scavare più a fondo nel rapporto tra guerra e questione sessuale, ed in particolare tra guerra e cultura maschile. Ancora oggi la guerra rappresenta in primo luogo un gioco simbolico maschile che si fonda sul disconoscimento della comune vulnerabilità, sull’esibizione di potenza, sull’uso della forza, sull’imposizione della propria volontà e della propria superiorità militare. Il fascino della guerra si fonda ancora sull’idea di un’impresa esaltante e gloriosa finalizzata a conservare il potere ed il prestigio degli uomini. Da questo punto di vista occorre comprendere che la violenza sulle donne e gli stupri di guerra non sono semplicemente “una” delle forme della violenza, ma portano alla luce un nucleo culturale e simbolico fondamentale. C’è un legame tra l’ethos guerriero, la formazione degli eserciti e la struttura sociale che marginalizza le donne e le trasforma in trofei di guerra. C’è un legame tra la violenza verso le popolazioni nemiche e la violenza negli eserciti, nelle famiglie, nelle strade. C’è un legame tra le strutture patriarcali della guerra e l’ordinaria violenza contro le donne e contro tutte le soggettività non conformi agli stereotipi sessuali.
  8. Più in generale abbiamo bisogno di sviluppare un pacifismo “intersezionale”: capace di considerare e chiarire le interconnessioni tra violenza bellica, violenza sessista, violenza ecologica, violenza verso i migranti, violenza verso le future generazioni e verso gli animali. Quando oggi ci interroghiamo sulla questione della violenza, della sicurezza/insicurezza, della sostenibilità/insostenibilità dobbiamo sforzarci di tenere al centro la questione della giustizia. Dobbiamo chiederci: pace per chi? Sostenibilità per chi? Sicurezza per chi? Come considerare ed integrare le legittime aspirazioni alla giustizia dei diversi soggetti coinvolti? Dobbiamo considerare e garantire le condizioni di sopravvivenza e di rigenerazione per tutti/e.
  9. Il tema dell’informazione giornalistica e scientifica rappresenta un’altra questione fondamentale. Non solo perché l’informazione è oggi una delle dimensioni cruciali del warfare, un’arma di guerra e al contempo uno dei terreni più importanti su cui si dispiega la guerra (dalle operazioni psicologiche militari, al management dell’informazione e al marketing della guerra, fino alle forme di cyberwar). Ma anche perché la conservazione di uno spazio pubblico di discussione e di pluralismo dell’informazione è la condizione sine qua non di sviluppo di un discorso e di una comunicazione di pace. Occorre dunque ampliare e approfondire il lavoro di documentazione, di educazione (a partire dalle scuole), di ricerca scientifica (a partire dalle università), di giornalismo scientifico per contestare nel merito la retorica bellica, per far comprendere il reale impatto e l’eredità delle guerre sulla popolazione, sul lavoro, sull’accesso ai beni fondamentali, sui fenomeni migratori, sull’ambiente e sulle altre specie viventi, sul terrorismo.
  10. Occorre d’altra parte anche sviluppare una consapevolezza comunicativa, la capacità di interpretare autorevolmente i vissuti e le emozioni delle persone, contrastando la demoralizzazione, la paura e l’angoscia, supportandole nel riconoscimento e nell’elaborazione del lutto e della sofferenza, ma anche accompagnandole nella costruzione di emozioni positive e di scelte basate sulla fiducia, sul coraggio, sulla compassione, sul desiderio di riscatto, sull’empatia e sulla solidarietà.

Si tratta solo di appunti, di segnavia, che occorre discutere, integrare, precisare, ampliareE per tutto questo occorre darsi delle occasioni di confronto: dedicare più spazio e più tempo non solo a parlare delle guerre, ma anche ad approfondire e immaginare l’idea della pace e le pratiche del pacifismo. In termini politici occorre riconoscere e confrontarsi con il patrimonio di riflessioni e di pratiche prodotte dal femminismo, dall’ambientalismo, dai movimenti della decrescita e per l’economia solidale, dai movimenti antirazzisti, dalle diverse tradizioni del pacifismo antimilitarista, operaio, internazionalista, laico e religioso ecc. Abbiamo bisogno di ampliare le nostre capacità di relazione e collaborazione per lavorare insieme in maniera più efficace. Questa rivista* e questo numero intendono portare un contributo in questo senso, offrendo spazi di confronto e discussione, mettendosi a disposizione e collaborando assieme ad altri e ad altre a creare nuove occasioni di incontro, condivisione e pratica politica fondate sull’impegno comune a rispettare e prendersi cura della vulnerabilità e mortalità piuttosto che sull’illusione di eliminarle.

(In memoria di Eugenio Melandri e Gianni Caligaris)


1 ACLED Conflict Index https://acleddata.com/conflict-index/

2 Olga Ivshina, Becky Dale & Kirstie Brewer, BBC Russian, “Russia’s meat grinder soldiers – 50,000 confirmed dead”

17 aprile 2024. Questi dati non includono i morti delle milizie di Donetsk e Luhansk, nell’Ucraina orientale occupata dai russi.


* Pubblicato sulla rivista Quaderni della decrescita (con il titolo completo Pacifismo punto a capo. Segnavia per ripartire), il cui ultimo numero è dedicato ai temi della pace


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