03 gennaio 2013

RILEGGERE LA BIBBIA

Dai mosaici del Duomo di Monreale



La Bibbia,  libro dei libri,  è stata letta ed amata anche da tanti atei e agnostici. Basti ricordare quì solo due nomi, tra i tanti: Sigmund Freud e Bertolt Brecht.
Qualche giorno fa un giornale laico come La repubblica ha pubblicato una interessante intervista al Prof. Carlo Enzo che ripropongo di seguito insieme ad un saggio più ampio che  richiama la sua originale rilettura della Genesi.

ANTONIO GNOLI INTERVISTA CARLO ENZO

Carlo Enzo è una figura tra le più irregolari del mondo cattolico. Emarginato da quando, più di quarant’anni fa, il Patriarca di Venezia Albino Luciani – che sarebbe diventato Papa – gli impose il silenzio dell’insegnamento. Oggi Enzo ha 85 anni. È uomo carico di pathos. Un sapiente che per tutta la vita si è interrogato sullaBibbiaoffrendo una sua personalissima interpretazione che ha stupito e affascinato alcuni e messo in grande allarme le gerarchie cattoliche. Il risultato sono cinque volumi di commento (altri tre, conclusivi, sono in preparazione) pubblicati da Mimesis. «I miei occhi non mi aiutano più tanto bene. Dopo un intervento, che ha toccato i nervi ottici, sono quasi interamente cieco. Leggo grazie a una luce speciale che ingrandisce i caratteri. Ora sto lavorando alla terza riscrittura dell’ultima parte del Vangelo di Matteo», dice con passione. Enzo vive in un punto molto bello di Venezia, nella Canonica di San Marcuola che la Curia gli ha conservato. Qui, in un appartamento pieno di libri, lavora uno dei grandi biblisti del nostro tempo.
Dove è nato?
«A Burano, un’isola vicina a Venezia. Passai un’infanzia felice. Mio padre era soffiatore di vetro. La nostra vita, tranquilla. A otto anni cominciai a leggere la Bibbia ai miei fratelli».
Immagino che fosse ai suoi occhi di adolescente un insieme di storie avventurose.
«Era l’aspetto che mi interessava meno. Leggevo la Bibbia in una vecchia traduzione che avevamo in casa. E già allora intravedevo alcuni problemi».
Di che natura?
«Intuivo che il testo era stato appesantito dai commenti, dalle interpretazioni, dal tono favolistico».
È fatale che un testo così importante per la storia dell’Occidente si sia arricchito di letture nate anche da scuole differenti.
«Negli anni ho capito che bisognava liberarsi da quella ramificata ermeneutica che si sovrappone e avvolge il testo sacro, e ho cercato di scoprire cosa esso nasconde. La mia idea era di ritornare al midrash».
Ossia?
«Per dirla in modo semplice a una lettura delle Scritture attraverso le Scritture».
È un po’ quello che si prefiggeva Spinoza con il suo Trattato Teologico-politico.
«E che gli creò rilevanti problemi, tra cui l’accusa di ateismo. Midrash significa “ricercare”. È la spiegazione che gli antichi Maestri ricavavano dal Tanakh, che è il nome dato da Israele alla raccolta dei suoi libri sacri, i quali comprendono la Torah, ossia i cinque libri della Legge, tra cui Genesi; i 21 libri dei Profeti; e i tredici libri Agiografi, tra cui Salmi, Giobbe, Cantico e Qohelet».




  In che misura Tanakh differisce dalla Bibbia cattolica?
«In modo sensibile. Intanto Tanakh è esclusivamente un codice di vita, attraverso il quale il popolo ebraico prova a diventare moralmente grande. Cioè passa dalla polvere all’anima vivente. Ma c’è un punto ulteriore: Tanakh è un testo mascherato. Perché così hanno voluto i sapienti che lo composero».
Si spieghi meglio.
«Il contenuto non doveva essere conosciuto dai popoli circostanti. Di qui
l’invenzione di un genere letterario che nascondesse la vera sostanza agli estranei e la rivelasse solo al popolo ebraico».
Ci sta dicendo che la Bibbia ha uno strato esteriore che maschera una verità più profonda? Ma perché escludere gli altri popoli dalla corretta conoscenza del testo sacro?
«Perché quel testo veniva considerato Elohim del popolo».
Quindi parola di Dio.
«Non esattamente. Perché nella cultura ebraica la parola Dio non esiste. Esiste invece la parola “Elohim” che faceva tutt’uno con il popolo. Ma ogni popolo della Mezzaluna fertile aveva il proprio Elohim».
Verrebbe meno l’idea cardine secondo cui nell’Antico Testamento c’è un Dio non solo unico, ma assoluto.
«Questo accade in una fase successiva. Quando finisce con il prevalere la maschera, ossia una lettura deviata della Bibbia, favolistica, irreale».
Ci faccia un esempio.
«È sufficiente aprire Genesi. Ci siamo abituati a leggerli come la storia di un Dio che in sei giorni crea l’universo. Ma quando il popolo ebraico nasce, l’universo c’è già e quel popolo non ha assolutamente intenzione di rifondare l’universo. È una questione anche di buon senso. Che cos’è l’Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali? ».
Quindi il racconto della creazione non riguarda né l’uomo né la natura?
«Creazione qui non significa creare dal nulla, come appunto potrebbe fare un Dio. Creare è progettare un mondo nuovo, un uomo nuovo».

Sta seppellendo la teoria creazionistica.
«La Bibbia non dice come è fatto il Cielo, ma come ci si va. Anche quando ci si riferisce all’uomo non si intende una figura in generale ma l’uomo-Adamo che è diverso dall’uomo greco, romano, babilonese».
Ma “Adamo” è lo stesso che viene scacciato dall’Eden?
«Questo è il lato favolistico, irreale, la maschera. In realtà l’uomo biblico si chiama Adamo perché coltiva l’adamah, ossia è un uomo chiamato a educare la sua natura umana».
Che cosa è l’“adamah” di cui lei parla: la purezza, la predisposizione al sacro, o cosa?
«Nel linguaggio comune “adamah” è la terra fertile, la terra rossa che il Nilo riversa. Nel linguaggio biblico indica la peculiarità di quest’uomo che cerca una chiave morale per stare al mondo».
E la questione del peccato originale?
«Non esiste. Il peccato originale è un’interpretazione tarda, avanzata da Agostino. In ebraico la parola “peccato” significa più omissione di fare qualcosa di buono che offesa al Dio per aver fatto qualcosa di sbagliato. Adamo inizia il suo cammino che è polvere e deve farsi per prova ed errori. E questi ultimi non sono imputabili al peccato originale, ma dipendono dal fatto che Adamo non è un Elohim».
Lei dice “polvere”, ma Adamo nasce dalla polvere, nasce in qualche modo dal nulla.
«Torna la maschera. “Polvere” vuole dire che Adamo all’inizio è un essere inconsistente e l’Elohim soffia in lui non lo spirito, ma l’anelito di vita, cioè la volontà per fare questo percorso, questa crescita».
Quello che lei dice è fuori dal modo in cui l’Occidente ha recepito il testo sacro.
«Certo, perché la logica occidentale parte da Dio che crea il mondo. La logica ebraica parte dall’Elohim del periodo sapienziale, ma prima ancora parte da Abramo. Concretamente parte da colui che viene considerato il padre del popolo che ha il suo Elohim».
Ma dire che ogni popolo ha il suo Elohim non significa limitarne l’assoluto?
«L’obiezione avrebbe senso se traducessimo “Elohim” con “Theos”, giacché Theos è l’assoluto. Ma l’Elohim non è l’assoluto».
La sua lettura l’ha messa in urto con la Chiesa?
«Su di me è sceso un silenzio che dura da decenni».
Lei è stato docente di scienze bibliche?
«Insegnai a lungo. Fu negli anni Cinquanta che l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli mi mandò a Roma a studiare. Lavorai con il cardinal Urbani e con il mio maestro Alonso Schökel, poi venne Luciani, la mia croce e delizia».
Avverto dell’ironia.
«Mi stroncò in maniera terribile. Era il 1970. Tenni una lezione biblica sulla secolarizzazione. E dissi che non andava intesa come una riduzione della chiesa alla condizione laica né come un allontanamento dal sacro. Ma al contrario la secolarizzazione era la realizzazione totale del progetto».
E Luciani la stroncò?
«Quando dissi: tutto questo è scritto in Apocalisse 21 ossia che tutto si concluderà, perché quando scenderà la Gerusalemme celeste non ci sarà più né Chiesa né sacerdozio e l’Elohim sarà tutto in tutti, mi portò via il microfono dicendo: sono cose pazzesche».
Era il Cardinale a dirlo.
«Era il Patriarca di Venezia e aggiunse: se avete domande da fare rivolgetevi a me, il professore non deve più parlare e non parlai più».
Ha provato a ricomporre quella frattura?
«Qualche giorno dopo andai da lui e gli dissi: mi dia lei una regola di esegesi biblica. E lui mi rispose: prenda una buona traduzione, per esempio quella della scuola di Gerusalemme: i passi facili li spiega, quelli difficili li salta. A quel punto replicai che non me la sentivo più di insegnare. Non volevo imbrogliare né lui né tanto meno chi mi ascoltava».
Su cosa sta lavorando?
«Sul bacio di Giuda».
Torna, è il caso di dire, il tema del tradimento.
«È un altro dei grandi equivoci filologici».

Fonte: Repubblica 28.12.12
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Su una nuova lettura della Genesi (di L.Lamonaca) 

 Pubblichiamo volentieri una relazione pervenutaci da Luca Lamonaca sulla Genesi, (o sul Genesi se ne parliamo come libro).  Lamonaca riporta il pensiero di Carlo Enzo pubblicato nel libro “Adamo dove sei” in cui viene proposto che il primo libro biblico rappresenti, sinteticamente, un “codice di vita” per un uomo nuovo.
 Da vecchi tradizionalisti noi concordiamo poco con tale interpretazione che, a nostro avviso riduce un po’ troppo ad un livello etico-psichico un messaggio spirituale e trascendente. Ne deriva una visione antropocentrica in cui l’uomo diventa il senso, il fine e il termine dell’evoluzione. E qui ricadiamo nel solito tentativo di antropomorfizzare l’opera divina per renderla, in qualche modo, traducibile con termini umani e di… confinare l’infinito. La interpretazione metastorica di Gianni Cappelletto nel testo sulla Genesi ricordato da Lamonaca, è, a nostro avviso, assai più interessante anche se la riduzione ad una “Lectio popolare” ci sembra di nuovo limitativa. Insomma se trascuriamo il fatto che, nella parola “sapienziale” non esiste soltanto un messaggio metafisico e metastorico ma soprattutto un insegnamento iniziatico (di cui il testo scritto rappresenta solo un aspetto) come al solito ci troviamo di fronte a problemi filologici su cui si può seguitare a “parlare” per il resto dei nostri giorni trovando sempre nuove soluzioni “ad usum” della cultura del momento.
Ma la relazione di Lamonaca ha termini assai interessanti e non prende “posizioni” apodittiche. Propone e fornisce un sistema semplice e assai efficaci per analizzare i primi versetti biblici. Da leggere con attenzione.
C.L.
Chi traduce in modo letterale è un bugiardo
ma colui che aggiunge qualcosa è un blasfemo.
Megillah della Tosefta (III, 21

La verità era uno specchio che cadendo si ruppe.
Ciascuno ne prese un pezzo
 e vedendo riflessa in esso la propria immagine
credette di possedere l’intera verità.

(Jalal al-Din Rumi)

 Premessa

Molte persone oggi, anche credenti, rifiutano di leggere la Bibbia e, soprattutto, i primi  capitoli del libro della Genesi[1] perché li ritengono pura fantasia, privi di qualsiasi nozione scientifica, una fiaba per bambini. Il loro rifiuto dipende dal fatto che non ammettono la possibilità che, attraverso questi testi, possa giungere un messaggio che contribuisca in qualche modo a rivelarci il mistero dell’esistere, anche se in un linguaggio diverso da quello contemporaneo.
Gli studiosi biblici affermano che il linguaggio poetico[2] con il quale questo libro è espresso, risulta oggi incomprensibile perché parlava agli uomini antichi ed usava il loro linguaggio; è necessario pertanto fornirsi di un’adeguata conoscenza della lingua, delle usanze, del modo di rapportarsi con il mondo e la realtà adoperati nei diversi tempi in cui è stato scritto; prendere atto della necessità di un’inevitabile mediazione culturale in grado di mostrarci l’autenticità e la possibile validità del messaggio contenuto.
Non si tratta di affrontare il testo con una metodologia scientifica  o solo razionale, ma di fare propria la capacità di comprendere e interpretare il “mito” (ovvero la struttura espressiva del racconto) come una possibilità di accesso al possibile mistero.
L’analisi di questi antichi testi evidenzia una palese contraddizione: da un lato mette in crisi la convinzione che con l’evoluzione scientifica e tecnologica dell’umanità tutte le forme di espressione e di conoscenza siano oggi non solo diverse ma più efficaci di quelle del passato; dall’altro ci rende consapevoli che la forma, il significato, la capacità espressiva e la suggestione delle lingue degli uomini, quanto più si va indietro nel tempo, tanto più appaiono profondi e complessi, al punto da ridurre le nostre moderne lingue occidentali a semplici strumenti di comunicazione tecnica e di servizio.
Come è possibile tutto ciò? Com’è possibile conciliare il miracolo dello sviluppo tecnologico con la perdita della comprensione delle potenzialità espressive delle lingue antiche? Ma, ancora più importante, com’è possibile che le caratteristiche proprie delle lingue antiche lascino intuire una “conoscenza” non solo diversa ma più profonda di quella contemporanea?[3]
Ma forse è possibile.
Per comprendere questo possibile, almeno nell’ambito della nostra indagine sul Genesi, è necessario prima di tutto considerare che i capitoli iniziali del primo libro della Bibbia non ci presentano storie vere, come le intendiamo oggi, oppure cronache giornalistiche,  ma sono narrazioni che dicono un vero su determinati problemi e secondo l’ottica della fede di chi le racconta; e soprattutto – anche ammesso che intendano descrivere l’origine e la formazione dell’universo e lo svilupparsi dell’umanità -  non sono scritte con intenti scientifici[4] o realistici, secondo la metodologia della nostra scienza moderna; si tratta invece di narrazioni simboliche, ispirate, mitiche, compilate non solo con l’uso della ragione, capaci di evocare quanto non si conosceva scientificamente e di farlo sperimentare quale proposta di significato al vivere di chi ascoltava.
In questo senso, i racconti del libro della Genesi si accostano – nell’ambito delle opere scritte -  ai grandi poemi antichi come l’Enuma Elish (Quando in alto), alle storie di Atrahasis e di Ghilgamesh, ai libri dei King o dei Veda, al Libro delle Piramidi ed altri testi di altre culture e civiltà antiche che hanno cercato di rispondere alle eterne domande dell’uomo sulla sua identità, sulla sua origine e sul destino futuro, messi in relazione con un mondo divino, ma percorrendo strade diverse.
Tutti questi racconti si collocano (o partono) in un Allora o in un In principio perché siano archetipi o modelli di riferimento per coloro che li accostano; si presentano come un tentativo di andare al cuore, alla radice autentica del mistero del mondo, non solo a livello temporale quanto soprattutto esistenziale; sono racconti di origine perché fondano e spiegano il presente.  
Un processo misterioso di conoscenza portava l’uomo antico a parlare della realtà attraverso racconti collocati fuori della storia, per spiegare la storia; quello che gli studiosi chiamano etiologia metastorica.
Lo scopo di questo lavoro è dunque quello di capire, approfondire, cercare significati che le parole scritte nascondono, per ragioni diverse e complesse, anche involontariamente.
Un punto di partenza è quello di mettere a confronto l’interpretazione tradizionale del Genesi con alcune nuove  interpretazioni, in particolar modo quella scritta da Carlo Enzo nel libro Adamo, dove sei? (ed. Il Saggiatore, Milano 2002). Si tratta di uno studio suggestivo  per la complessità del tema e le particolari competenze filologiche. In questa sede ci limiteremo tuttavia ad un semplice accenno, confrontando l’interpretazione delle prime cinque parole che costituiscono il versetto 1 del primo capitolo del Genesi. 

In principio (Be-resh-it) crea (bara’) Dio (El-ohim)
il cielo e la terra (eth-ha-shamaim w’eth-ha-aretz).
 

Questa è – grosso modo - la traduzione italiana delle prime cinque parole della Bibbia.
Tutti le conosciamo e tutti abbiamo sempre pensato che queste parole si riferiscono al racconto della creazione dello spazio, del tempo e del mondo da parte di Dio.
Il libro di Carlo Enzo, in base a precisi riferimenti linguistici e a comparazioni con l’intero corpo letterario della Bibbia ebraica, propone invece un’interpretazione nuova, le indica come l’inizio di un “codice di vita” scritto in linguaggio simbolico, rivolto ad un tipo d’uomo nuovo, un giusto, che si deve distinguere da tutti gli altri giusti (di 310 mondi diversi[5]) perché destinato alla Torah.
Per comprendere ciò è necessario partire  dalle interpretazioni tradizionali, numerose e spesso distanti tra loro, anche per via delle traduzioni nelle diverse lingue storiche che ci hanno tramandato il testo biblico: ebraico, aramaico, greco, latino, italiano.
Tutte queste traduzioni si succedono l’un l’altra nel corso della storia a partire dall’ebraico Ma il testo ebraico originario si ispira – forse - ad altri testi, diversi per lingua, luogo ed epoche storiche in cui sono stati redatti; questi testi, a loro volta, sono il risultato finale (talvolta approssimativo o sintetico) di una lunga e complessa tradizione orale durata non si sa quanto e andata probabilmente in gran parte perduta.
La Bibbia ebraica,[6] come oggi la conosciamo, fu fissata dagli Ebrei di Palestina agli inizi dell’era cristiana.[7] E’ dunque essenziale conoscere i criteri con cui sono state scritte e poi tradotte le parole che costituiscono questo libro; e magari sapere anche da chi e quando.
Ma ritornando a quanto di scritto ci ha lasciato la tradizione, dobbiamo chiederci:  con quali criteri sono state realizzate le diverse traduzioni della Bibbia e, nel caso che stiamo esaminando, di queste prime cinque parole del Genesi? E, in linea generale, come leggere questo testo?[8] E soprattutto: l’interpretazione della dottrina contenuta in questo libro (e in particolare in Genesi 1-3) è in grado di dimostrare che essa è ancora valida per un abitante di questo pianeta oppure, come tante altre, ha fatto il suo tempo, fa parte delle tante dottrine religiose sul mondo e sull’uomo?


 

L’interpretazione tradizionale 
Secondo l’interpretazione tradizionale, le prime cinque parole del Genesi costituiscono l’inizio del racconto di creazione del mondo,  attribuito alla fonte sacerdotale (P), che intende fornire una classificazione logica ed esauriente degli esseri, creati in una settimana che si conclude col sabato (shabbat, cioè cessò).[9]
L’interpretazione ufficiale della Chiesa[10] ci è data dal testo della Bibbia detta della CEI, del 1971, la cui versione italiana è stata curata da un gruppo di biblisti sotto la direzione di F. Vattioni. Il testo è accompagnato da una guida, la celebre Bible de Jerusalem, del 1984, opera dei migliori esegeti cattolici francesi. La traduzione è stata fatta a partire dai testi originali ebraico, aramaico e greco. Per l’ebraico si è seguito il testo Masoretico ™.
L’interpretazione della CEI afferma che le parole iniziali del Genesi aprono il racconto della creazione degli esseri viventi da parte di Dio, secondo un ordine crescente di dignità, fino all’uomo, immagine di Dio e re della creazione. Il testo utilizza una scienza ancora in fasce. Non bisogna ingegnarsi a stabilire concordanze tra questo quadro e la nostra scienza moderna, ma piuttosto leggervi, sotto una forma che porta l’impronta della sua epoca, un insegnamento rivelato, con valore permanente, su Dio, unico, trascendente, anteriore al mondo, creatore […]. Il testo afferma che ci fu un inizio del mondo: la creazione non è un mito atemporale: essa è integrata nella storia, di cui è l’inizio assoluto (vedi Allegato 1).
Il racconto del Genesi 1 - 2, che culmina in Adamo creato direttamente da Dio, per la Chiesa sarebbe la prefigurazione del nuovo Adamo, Gesù Cristo, Figlio di Dio, attraverso il quale ha inizio l’umanità nuova; e attraverso il quale si aprono per l’umanità cieli nuovi e terre nuove.

Nuove proposte esegetiche

Dopo il Concilio Vaticano II si allargarono in certo qual modo le maglie dell’interpretazione biblica e frotte di esegeti e studiosi si gettarono a capofitto nello studio di ciò che, fino allora, era considerato un pericoloso tabù. Le conseguenze sono state spesso nefaste e confuse e non pochi studiosi di genio hanno finito col rasentare l’eterodossia o abbandonare l’abito sacerdotale!
Dopo l’entusiasmo iniziale, gli studiosi oggi procedono con armi esegetiche più obiettive e prudenti ma con risultati spesso di grande valore.
Molti hanno cominciato a leggere la Bibbia (e Genesi in particolare) con maggiore attenzione alla lingua originale, l’ebraico, al contesto storico e narrativo (il mondo semitico del II/I millennio a. C.), senza preclusioni o preconcetti religiosi.
Secondo l’esegetica moderna,  con un’attenta lettura letterale, le prime cinque parole della Genesi potrebbero essere interpretate in questo modo:
A partire da quel momento (bereshit) dà inizio (bara’) la pluralità di Dio (El-hoim) all’universo (ai cieli e alla terra) [ordinato (aggiunta del r.)].
Bereshit corrisponderebbe infatti all’espressione da quel momento in poi e quindi indicherebbe non un inizio ma una continuazione.
Bara’ è verbo che indica mettere ordine ad una cosa, cominciare una cosa nuova; è singolare ed è  sempre associato all’azione di Dio; e quindi non significa creare da nulla ma mettere ordine, far sì che una cosa assuma un aspetto nuovo rispetto a quello precedente.
El-hoim indicherebbe non Dio ma la divinità propria di ogni popolo del medioriente; è costituito da El o Il con la desinenza plurale hoim: sarebbe cioè il complesso degli dei semiti e/o la potenza di El in tutti i suoi aspetti. El significherebbe Lui, il Signore, l’Essere supremo, indicato con un pronome dimostrativo corrispondente al latino Il-est (egli è) = Ille; in arabo è Al-lah. Il nome dell’El di Israele sarà  Ja-whè, ovvero: Io sono – chi è, rivelato a Mosé da El sul monte Oreb.[11]
Il cieli e la terra, rappresentano infine l’universo nella sua totalità. Si tratterebbe di un’espressione tipicamente semitica che semplificava i concetti complessi con l’opposizione di due termini: se cielo e Terra indica il complesso dell’universo, l’albero del bene e del male indica la conoscenza del tutto, l’uomo e la donna indicano l’umanità intera e così via.
Fatto salvo il senso religioso e sacro dato dalla Chiesa al testo biblico, gli esegeti sono dunque propensi ad interpretare il racconto della creazione, proposto in Genesi 1 - 2, come un momento di inizio per l’umanità in cui la forza creatrice di Dio mette ordine all’universo e ne finalizza il senso, rappresentato dalla nascita della vita, di cui l’uomo sarebbe il punto di arrivo in quanto ne diventa la coscienza consapevole. Attraverso l’uomo si realizzerebbero i cieli nuovi e le terre nuove.



 
Proposta di interpretazione etiologica metastorica
*  L’interpretazione di Gianni Cappelletto  
Un’interpretazione equilibrata e attenta dei primi capitoli del libro della Genesi è quella del biblista Gianni Cappelletto[12] che propone un percorso di lettura come una Lectio divina popolare.
Egli attribuisce la compilazione di questa prima parte della Bibbia al momento dell’esilio babilonese. L’autore (o gli autori) del testo scritto si preoccupa infatti non tanto di rispondere alle domande su come è avvenuta la creazione, da quando esiste, da dove e quando ha avuto inizio l’universo, quanto piuttosto di interrogarsi sul senso della sua realtà, della sua condizione di esiliato a Babilonia, sul significato della sua esistenza alla luce dell’atto di fede nel Signore Liberatore e Creatore. La condizione di schiavitù in cui viveva a Babilonia si accende di speranza al ricordo che chi scrive fa parte del popolo che Dio ha già liberato dalla schiavitù, quando era in Egitto, e lo ha guidato progressivamente verso la terra promessa, stabilendo con lui un’alleanza. L’autore biblico, attraverso la riflessione sulla tradizione religiosa del suo popolo, confrontata con i miti religiosi della civiltà babilonese, desidera esprimere la propria fede in forma di lode a colui che ha creato tutti gli esseri e tutte le persone mediante la forza della sua parola, capace di realizzare quanto dice (Dio disse… e fu). Se Dio ci ha liberati dall’Egitto, anche ora saprà fare altrettanto, perché è Signore non solo della storia ma anche del creato, capace di separare le acque superiori ed inferiori perché appaia la terra asciutta su cui l’umanità possa vivere libera. Nessuna subordinazione quindi del suo Elohim semita rispetto agli dei di Babilonia.
Nel testo di Genesi 1, 1-2,4a l’autore raccoglie e sintetizza la mitologia mesopotamica[13] che ha conosciuto, vivendo in esilio, sul Dio Creatore e sul senso delle realtà create; la rielabora con la storia del suo popolo, adoperando uno stile narrativo ricco di ripetizioni, espressioni, immagini peculiari. Tutto il racconto si snoda attraverso l’intreccio di due schemi: quello temporale di sette giorni (sei volte “e fu sera e fu mattina”), quello operativo dell’agire (10 volte si adopera il verbo fare), quello del parlare di Dio (10 volte si usa l’espressione Dio disse).
Dio che ha creato il suo popolo come popolo dell’alleanza (con i dieci comandamenti) nel racconto del Genesi dà vita all’universo con dieci parole. La liberazione dalla schiavitù d’Egitto sfocia in un atto creativo che, al Sinai, costituisce il popolo ebraico come famiglia di Dio; la creazione del mondo in Genesi è vista come liberazione della vita dal caos iniziale perché sia possibile all’umanità – la grande famiglia di Dio – vivere sulla terra.
Per l’autore del Genesi si tratta dunque di un’interpretazione della vicenda del suo esilio utilizzata per ricostruire una storia più antica, sconosciuta ma intuita per analogia, confrontando le vicende della storia del suo popolo e i miti della Mesopotamia antica.
Riguardo alle prime cinque parole in esame, anche Cappelletto afferma che l’autore biblico non intende parlare di un’azione creatrice di Dio dal nulla, concezione entrata nella mentalità ebraica solo in età ellenistica; l’autore biblico desidera affermare che all’inizio di tutto (non solo temporale ma soprattutto esistenziale) c’è Dio e la sua azione creatrice; non vuole dimostrare l’origine ontologica dell’esistenza della terra: essa c’era già e da qui inizia il suo sguardo sull’azione di Dio: non il mondo e neppure gli esseri viventi sono l’inizio. L’universo (indicato con l’espressione cielo e terra) è il luogo dove Dio sta per mettere ordine attraverso la sua azione creatrice.
Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque primordiali. Allora Dio crea.
Il verbo bara’, creare, viene utilizzato 49 volte nella Sacra Scrittura e ha sempre Dio come agente. Esso non indica tanto il modo di originare le cose quanto il risultato dell’opera di Dio. Etimologicamente significa fare tagliando, separando, dar inizio a qualcosa di inedito, novità assoluta rispetto a quanto già esiste. Si tratta di compiere un’azione sorprendente che suscita gioia e un senso di ordine e di bellezza. Nel primo versetto del Genesi bara’ descrive il passaggio da un universo caotico a un mondo ordinato, buono e bello, nel quale è possibile la vita degli esseri viventi. Dio entra così in azione nel cosmo mettendo ordine nelle sue tre parti principali (secondo la concezione tipica del mondo semitico di allora): il cielo, le acque, la terra. L ’unità e l’armonia della realtà è data da due principi: quello della differenza “secondo la propria specie”(differenza di vita, dunque, di tempo e di spazio) e quello di essere “a sua immagine e somiglianza” (dipendenza della creatura dal proprio Creatore).

* L’interpretazione di Carlo Enzo
Per prima cosa Carlo Enzo chiarisce che l’interpretazione che vuole dare a Genesi 1 – 4 non è un commentario, cioè una spiegazione, bensì un midrash, un’investigazione su ciò che il Tanakh (cioè la raccolta dei testi biblici) dice su questo testo, cioè su Bereshit. Solo attraverso la chiave di lettura di tutto il linguaggio biblico è possibile intendere il significato di questo libro (Genesi) e delle sue parole, delle cose narrate, degli eventi descritti, l’uso sacro, quello che, alla maniera dei geroglifici, mira a rivelare ai figli di Israele (e a nascondere agli occhi degli altri) la Da’aT, cioè la conoscenza di YHWH a loro destinata, al fine di divenire un popolo di santi.
Midrash, dalla radice DaRaSh (che significa ricercare), è la spiegazione del testo sacro fornita dagli antichi maestri dei testi biblici; la spiegazione (o meglio interpretazione) era fornita attraverso gli stessi libri biblici.[14]
Questa investigazione non può essere fatta senza la conoscenza della lingua (e della “forma” in cui questa lingua è stata scritta), che non è semplicemente la lingua ebraica, ma la lingua ebraica propria di questo Libro sacro (vedi allegato 2).
Genesi 1-4 è come la struttura originaria della storia di Israele, il luogo dello svelamento del suo disegno, quello in cui tutta la storia di questo popolo trova il suo senso, il suo linguaggio, la sua finalità.
Presso i popoli che hanno inventato il pensiero metafisico, il concetto di creazione è soprattutto quello di un Dio che realizza in essere un universo partendo dal nulla. Presso i popoli mesopotamici, invece, creare indica l’azione che chiama all’apparire le modalità di esistenza mai apparse prima. Creare un mondo e un uomo è inventare per un popolo una modalità di esistenza nuova rispetto a quelle che già ci sono. Ovvero: tra gli Elohim mesopotamici che hanno creato uomini e mondi diversi, l’Elohim di Israele – YHWH – ha dato una nuova modalità di esistenza, una diversa qualità di vita al suo popolo. Gli Elohim sono gli Dei dei popoli mesopotamici, un dio per ciascun popolo; sono Enti pensati dai popoli al di sopra degli uomini; che abitano sopra i cieli di ciascun popolo e che hanno i desideri, i pensieri, i sentimenti, i progetti, le scelte, le decisioni, che ciascun popolo sente, produce, esprime durante lo svolgimento e in funzione del suo esistere.
In Genesi 1-4, pertanto, non si intende parlare dell’azione del Dio dell’essere, che fa apparire dal niente l’universo come si mostra agli occhi di coloro che lo abitano, bensì si intende parlare dell’invenzione, in una zona della Terra, di cieli nuovi e di terra nuova, di nuovi regni dei giusti e di nuove comunità che li generano, di un mondo nuovo come nuovo modo di vivere! Si tratta di una creazione non dall’assenza di ogni esistenza ma dall’assenza di quella forma di esistenza o di modo di vivere; mentre esistono altri universi e altri mondi e altri modi di vivere. In definitiva, in Genesi 1-4 al verbo creare  è dato il significato di progettare, nell’ente che è questa piccola Terra, un nuovo modo di esserci per l’uomo, un mondo mai visto prima, migliore di tutti gli altri che già esistono, un mondo esclusivo per il popolo dell’Elohim YHWH.
Attraverso questa chiave interpretativa Carlo Enzo analizza le prime cinque parole che ci interessano:

 Be-resh-it (in principio) bara’ (crea) El-ohim (Dio) 
  BeRe’ShiT:  è la prima parola di tutta la Bibbia nella redazione attuale. E’ usata in assoluto, ovvero non è detto di che cosa principia in quanto lo dà per scontato, suppone che chi legge sappia del principio di che cosa si tratta. Cosa poteva pensare un Israelita di quel tempo? Certamente non avrebbe pensato che si intendesse In principio del cosmo in quanto sapeva bene il significato del termine cieli e terra, ovvero mondo proprio di un Dio e di un popolo. BeRe’ShiT, nella Bibbia, si usa sempre per indicare l’inizio di un regno, il punto di partenza di una nuova monarchia. E’ quindi da intendersi come “come prima cosa”, ovvero come primo inizio della generazione dell’aDaM riguardo al progetto del suo nuovo mondo.
 BaRa’: voce verbale che appartiene alla riflessione della letteratura post-esilica. Il verbo si riferisce alle azioni degli Elohim per le opere dei cieli e della terra. Non è mai seguito da espressioni che indichino la materia di cui El si serve, poiché le opere riguardano il “mondo adamico”. E’ un’azione che non ha nulla a che fare con l’origine del cosmo ma che, nel pianeta su cui si svolge l’azione dell’uomo, inizia e accompagna l’origine di un “mondo di divenienti adamo”.

‘eLoHiM: plurale grammaticale di eLoHa, nome comune, designa tutto quanto è ritenuto divino, cioè potente e vero presso un popolo. Può essere soggetto sia di un verbo plurale che singolare. Può indicare sia YHWH che il Dio o gli Dei di altri popoli. Non può essere tradotto con Deus, ovvero Dio, perché il volume di senso che un tale sostantivo veicola per un uomo dell’Occidente gli è estraneo (ovvero l’essere assoluto, che esiste di per sé, che non esiste in virtù di ciò che esiste già, che non ha un rapporto necessario con l’esistente, ma ne è indipendente, quindi assoluto). In greco è tradotto impropriamente theòs, in latino Deus, nel Targum palestinese “figlio di YHWH”. In questo primo versetto del Genesi designa tutta la Divinità dei popoli che nella Bibbia hanno “cieli e terra” e un aDaM. 
‘eT Ha-ShaMa-YiM  We’eT Ha’-aReTs: l’espressione indica l’insieme non di due “luoghi” ma delle due dimensioni, delle due condizioni di esistenza proprie del mondo dell’aDaM, con tutto ciò che ciascuna contiene. Non designa pertanto le cose che formano il cielo astronomico e la Terra come pianeta; è quanto genera l’aDaM con il suo buon operare; e non comprende gli inferi (She’ol) opera dell’aDaM malvagio (altra condizione d’esistenza e non luogo geografico).
ShaMa-YiM  è il nome che l’Elohim dà allo scudo che separa le acque che sono in alto dalle acque che rimangono in basso. E’ il luogo in cui appaiono il luminare maggiore e minore, Dio e la sua RuaCh (spirito), il re e la regina, il padre e la madre, il forte e il debole, i giusti e i potenti. E’ il luogo in cui l’aDaM è destinato a salire per diventare stella e dar vita a quel “regno dei cieli” che è sinonimo di “regno dei giusti”. 

aReTs : è il nome che l’Elohim dà all’asciutto; è la totalità degli elementi che costituiscono il “mondo” degli Elohim, il “sicuro” dentro al quale crescerà l’aDaM e sul quale potranno “salire” tutti i viventi. Il termine, da solo, indica anche nazione, popolo, comunità. Sulla eReTs, l’aDaM coltiva la sostanza adamica e custodisce la conoscenza del suo Elohim.
Conclusione 
Confrontando le diverse proposte di interpretazione, mi sembra di poter concludere che le prime cinque parole che danno inizio al racconto biblico del Genesi ci vogliono parlare non tanto della creazione dell’universo ex nihilo[16] quanto della “creazione di un nuovo universo”, diverso da quelli esistenti prima, espressione di una vita in evoluzione di cui l’uomo è il punto momentaneo di arrivo, e la vita è un’esigenza stessa della creazione; e nell’uomo, soltanto nell’uomo, nel progresso libero e indefinito della sua coscienza, questa esigenza di creazione si afferma. L’uomo esprime il significato e l’essenza più profonda della vita, costituisce il “termine” e il “fine” dell’evoluzione stessa. Questa sarebbe allora la nuova creazione.
Arrivati alla fine di questa relazione non possiamo che riproporci la domanda iniziale:
vale ancora la pena metterci di fronte a questo antico testo, vale la pena sobbarcarci di questa improba fatica linguistica, storica, antropologica, culturale per interpretare la dottrina contenuta in questo libro (e in particolare in Genesi 1-3)? E’ un messaggio ancora valido per un abitante di questo pianeta oppure, come tante altre dottrine, ha fatto il suo tempo, fa parte delle tante rivelazioni sul mondo e sull’uomo che non hanno più alcun impatto con le nostre urgenze quotidiane?
Potremmo rispondere prendendo in prestito le parole di Romano Madera, nell’introduzione al libro di Carlo Enzo:
“Solo continuando a tornare su queste pagine, avvicinandole con nuove parole, le rivelazioni o i miti originari possono continuare a vivere per noi e intessere, con noi, la storia presente...”.
Lo dimostra quali possibili nuove interpretazioni possono scaturire già dall’analisi documentata e approfondita della lingua in cui il racconto biblico è stato scritto. Come ha scritto A. Rosmini[17], dalla Sacra Scrittura noi impariamo che Dio fu il primo a nominare le diverse realtà create, applicando a ciascuna un proprio nome, affinché ognuna fosse interamente conoscibile dall’uomo. Col crearle le aveva rese percettibili all’uomo, ma col nominarle le aveva rese conoscibili. Così Dio, nella prima istituzione del linguaggio umano, lo ordinò a due scopi e lo stabilì quasi mediatore tra i due grandi ordini delle cose visibili e di quelle invisibili; in questo modo il primo scopo del linguaggio fu di rendere intelligibile l’universo sensibile; il secondo scopo fu quello che il linguaggio fosse il mezzo attraverso il quale l’uomo trapassasse oltre i confini dell’universo sensibile. E da qui, prendendo il volo, pervenisse a conoscere cose maggiori, che non cadevano sotto i suoi sensi ma che erano per lui sommamente importanti, fine ultimo di tutto il senso della sua esistenza e della sua compiuta felicità.
“Non è qui in questione” – continua Romano Madera – “il rapporto fede-scienza, non si vuole in alcun modo accennare alle polemiche fra creazionisti ed evoluzionisti; non si vuole in alcun modo confutare o discutere o contrapporre qualsiasi indagine e concezione scientifica: né la teoria del big bang né la sua confutazione, né le possibili nuove scoperte sulla massa del neutrino e sulle sue implicazioni cosmologiche. Nulla di tutto ciò può in alcun modo toccare il senso dell’affermazione di fede che ci fa riconoscere come creature di Dio in un mondo di creature di Dio” .
Un’altra conclusione mi sembra altresì opportuna, questa volta tratta dalle parole di H. Bergson, nel suo studio sull’evoluzione creatrice precedentemente citato:
“Come il più piccolo granello di polvere è solidale con tutto il nostro sistema solare, ed è trascinato con esso in quel movimento indiviso di discesa che è la materialità stessa; così tutti gli esseri organici, dal più umile al più elevato, dalle prime origini della vita sino ad oggi, e in tutti i luoghi come in tutti i tempi, non fanno che manifestare in modo sensibile un impulso unico, inverso al movimento della materia e, in se stesso, indivisibile. Tutti gli esseri viventi sono congiunti insieme, e tutti cedono alla medesima formidabile spinta. L’animale ha il suo punto di appoggio nella pianta, l’uomo nell’animalità, e, l’umanità intera -  nello spazio e nel tempo -  è come un immenso esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente, capace di rovesciare tutte le resistenze e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte”.
Allegato I 
Genesi 1 è il luogo privilegiato della dottrina cosmologica e antropologica delle Chiese cristiane, che il Catechismo della Chiesa Cattolica così sintetizza:
La prima parola della Bibbia è Bereshit.
Cosa significa in ebraico? Ovvero, quale senso ha per un ebreo di oggi e quale senso poteva avere per un ebreo dell’età di Cristo, per un ebreo dell’età di Davide ( 1000 a . C.) o per un ebreo dell’età di Mosè ( 1250 a . C)?.
Bereshit in ebraico è scritta con questi caratteri           ראשית   ב[18]     (si legge da destra verso sinistra).
in greco è reso con                                                      εν  αρχη

ce ne accorgiamo, se procediamo all’indietro, da alcuni particolari:
in principio in italiano vuol dire letteralmente “dentro il principio” (in questo caso del tempo), cioè “nel momento dell’inizio” ed esprime un’idea di stato;
in principium in latino non vuol dire “dentro il principio”, quanto “nel percorso del principio, da un punto del principio in poi”, essendo un evidente complemento di moto (in accusativo) e non di stato (in ablativo) come in italiano;
in greco l’espressione è resa da εν con il dativo αρχη ed esprime nuovamente l’idea di stato in luogo;
in ebraico la labiale iniziale  ב    (beth) di ראשית   ב    (be-resh-it) costituisce una sorta di articolo mediativo  o integrale che esprime non solo uno stato ma anche un movimento, analogo alle preposizioni in, nel, con, grazie al,  ecc. e potrebbe tornare allora l’idea di movimento.
Riassumendo:
ebraico =  idea di stato o moto
greco =     idea di stato
latino =     idea di moto
italiano =  idea di stato

E’ evidente che se l’intendiamo come stato, suggerisce l’idea di un inizio ex nihilo; se lo consideriamo come moto, è da intendersi come continuazione di un processo già iniziato.
Quanto poi al sostantivo che costituisce l’espressione  ראשית   ב  , anche esso assume sfumature diverse di significato da lingua a lingua, a confermare quanto già detto per la preposizione iniziale.
  
ראש   (rash) significa testa, capo, causa agente e quindi potenza in essere che si esprime nel divenire.
La traduzione greca è αρχη = sommità, causa prima, origine, capo.
In latino: principium deriva  da princapio = prendo per cominciare, derivato di princeps composto da pris e mo e seguito da cap (che prende il primo posto).
Ma non si tratta solo di etimologia: a renderne più complessa la lettura e l’interpretazione, bisognerebbe tener presente la triplice modalità di lettura suggerita dallo studioso Fabre d’Olivet nel suo lavoro “La lingua ebraica restituita” [19]. Costui, a pag. 46, afferma, a proposito della parola   ראשית   ב  :
“… questa parola, nel posto in cui si trova, offre tre sensi distinti di lettura e interpretazione: uno proprio, l’altro figurato e il terzo geroglifico”
Era il metodo dei sacerdoti egizi. La stessa parola assumeva, a secondo delle loro intenzioni, uno dei tre sensi, quelli che Eraclito definisce parlante, significante, occultante. I primi due erano oratori, il terzo non esisteva che per gli occhi e non si usava che scrivendo. Le nostre lingue moderne sono del tutto inidonee a far sentire questo modo.
Dopo aver dato il senso proprio e figurato della parola, lo studioso prova a darci quello geroglifico:
“La parola  ראש    sulla quale si eleva il modificativo   ראשית   ב  , significa sì la testa, ma solo in senso restrittivo e particolare. In senso più lato e generale essa significa il principio. Ora, cos’è un principio? Dirò in che modo lo avevano concepito i primi autori della parola ראש   . Essi avevano concepito una sorta di potenza assoluta, per mezzo della quale ogni essere relativo è costituito come tale e avevano espresso la loro idea attraverso il segno potenziale  א   (aleph) e il segno relativo ש    (shin) riuniti. Nella scrittura geroglifica esso veniva rappresentato da un punto al centro di un cerchio סּ . Il punto centrale, che dispiega la circonferenza, era l’immagine del principio.
La scrittura letterale rendeva il punto con   א    e il cerchio con  ס    o   ש   . La lettera  ס   (samek) rappresentava il cerchio sensibile, la lettera  ש    rappresentava il cerchio intelligibile (che veniva rappresentato alato o contornato di fiamme). Un principio così concepito era, in senso universale, applicabile a tutte le cose, tanto fisiche che metafisiche; ma in senso più restrittivo veniva applicato al fuoco elementare; e, secondo che la parola radicale אש    venisse assunta in senso proprio o figurato, stava a significare il fuoco sensibile o intelligibile, il fuoco della materia o dello spirito. Prendendo quindi questa stessa parola  אש     e facendola reggere dal segno del movimento proprio e determinante  ר   (resh), si otteneva un composto   ראש   , cioè, in linguaggio geroglifico, ogni principio dotato di movimento proprio e determinante, di forza innata, buona o cattiva. Questa lettera   ר   si potrebbe rappresentare, in scrittura sacra, con l’immagine di un serpente, in piedi oppure secante il cerchio. Nel linguaggio ordinario si vedeva in   ראש    un capo, una guida, la testa di ogni essere o cosa; nel linguaggio figurato si intendeva il primo motore, un principio agente, un genio buono o cattivo, una volontà retta o perversa, un demone ecc.; nel linguaggio geroglifico si segnalava il Principio primo universale, di cui non era consentito divulgare la conoscenza”.

 L’esempio proposto, pur se in modo approssimativo e confuso, rende evidente la difficoltà di interpretare un testo antico senza l’adeguata conoscenza linguistica; e per il testo biblico questo è tanto più vero visto che il testo greco appare molto lontano da quello ebraico, giacché la lingua ebraica, quando il testo greco fu redatto, era stata sostituita dall’aramaico e non era più usata come lingua comune da almeno trecento anni.
AA. VV.  La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 1988
Bibbia ebraica, a cura di Rav Dario Disegni
Carlo Enzo, Abramo dove sei?, Saggiatore, Milano 2002
Genesi 1 – 11, a cura di Gianni Cappelletto, Edizioni Messaggero, Padova 2000
Fabre-d’Olivet, La lingua ebraica restituita, a cura del collettivo officina
Munk E., La voix de la Torah, Genèse, Ed. Colbo
Testa E., Introduzione – Storia primitiva, Marietti, 1969
Soggin, J. A., Genesi 1- 11, Marietti 1991
Westermann C., Genesi, Commentario, Piemme, 1990
Enrico Bergson, L’evoluzione creatrice, Signorelli, Roma, 1980
Massimo Baldacci, Prima della Bibbia, Mondatori, 2000
Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Mondadori, 1985
Jhon L. McKenzie, Dizionario biblico, Cittadella editrice, 1981


[1] Intendiamo la parola al femminile perché tale è il genere in italiano e tale in greco. Quando si dice il Genesi si intende Il libro della Genesi. Pertanto non si può dire Il libro del Genesi.
[2] Sono infatti dei versi con un ritmo cadenzato e ripetitivo, dal tono solenne, tipico delle celebrazioni cultuali; una sorta di poema liturgico, vero inno al Principio che dà inizio al mondo in cui viviamo.
[3] Cfr. Enrico Bergson, L’evoluzione creatrice, Signorelli, Roma, 1980. In questo testo il filosofo parla dell’uomo come culmine dell’evoluzione; il suo modo di conoscere (attraverso l’intelligenza, attraverso la ragione, attraverso l’intuizione) si esprime con modalità e intensità diverse lungo la linea dell’evoluzione della vita.
[4] Uso il termine nella sua accezione contemporanea.
[5] Cfr. Ginzberg, L. Le leggende ebraiche (1925), Adelphi, vol. I, X
[6] In ebraico è chiamata Tanakh, parola costituita dalle iniziali dei libri che la compongono:
T = Torah, cioè Legge. Corrisponde al Pentateuco.
N = Nebh’im, cioè Profeti
K = Ketubh’im, cioè Agiografi 
[7] Questo testo palestinese tuttavia non ci è pervenuto, ma è probabile che si rifacesse a redazioni precedenti tra le quali, le più importanti furono, in ordine, quella del primo regno (IX /VIII a. C.), quella post esilica (VI /V a. C.), infine quella di Esdra, redatta tra il 400 e il 300 a . C. L’attuale versione ebraica del testo biblico parte da quella masoretica (TM), fissata nei secoli VIII e IX della nostra era dai rabbini ebrei. Il testo latino della nostra Bibbia, detto Vulgata, è stato scritto da San Girolamo nel IV secolo e si rifà a quello greco promulgato in età ellenistica per gli ebrei della diaspora e chiamato dei Settanta (non dal numero degli scrittori, che erano cinque, ma dal consiglio del Sinedrio che l’aveva approvato).
[8]  Alcuni studiosi suggeriscono una metodologia che prevede tre momenti centrali:
- lettura del testo: analisi della struttura narrativa (lettura sincronica) con la ricerca di eventuali tradizioni teologiche (lettura diacronica);
- interpretazione: per far emergere i significati culturali e religiosi del testo;
- applicazione dei significati emersi alla vita di ogni giorno, cercando di prolungare nell’oggi i significati del testo mediante l’analogia delle situazioni
 
[9]  Il primo testo scritto della Bibbia ebraica, che chiameremo da ora in poi del Tanakh, secondo la tradizione (Graf e Welhausen) parte da quattro documenti posteriori all’epoca di Mosé (XIII secolo a. C.):
  1. Tradizione Jahvista (J), redatta nel IX  secolo a. C. in Giuda
  2. Tradizione Eloista (E), redatta nell’VIII secolo a. C. in Israele
  3. Tradizione Deuteronomista (JED), redatta dopo il re Giosia (640- 609 a . C.)
  4. Tradizione Sacerdotale (P), redatta dopo l’esilio babilonese ( 537 a . C.)
Dopo il 722 a . C. J ed E furono fusi in un unico testo.
Oggi si ritiene che tutte queste tradizioni risalgano a fonti orali molto più antiche e sono considerate cristallizzazioni di correnti di tradizioni che hanno origini non conosciute e che sono continuate a sgorgare per centinaia di anni.
La sovrapposizione delle diverse tradizioni è ancora rintracciabile nelle redazioni definitive; vi sono infatti:
2 racconti di creazione
2 genealogie di Caino
2 racconti del diluvio
2 testi del decalogo
4 calendari liturgici e così via.
[10] Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, ed. 1992, al punto 115 e seguenti si afferma che la Sacra Scrittura   va letta secondo diversi sensi: letterale, spirituale, allegorico, morale, anagogico. E’ compito degli studiosi contribuire alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, per contribuire a maturare il giudizio della Chiesa (ma nuovamente sottoposto, in ultima istanza, al suo giudizio).
[11]  L’espressione proclamata con forza da YHWH fu “Ehyeh asher ehyeh”, tradizionalmente tradotta con “Io sono colui che sono”. Interessante ci appare – tra le tante shakespeariane astruserie -  l’interpretazione di Harold Bloom (Gesù e Jahvè,  Rizzoli, 2006): “Io sarò presente ogni qualvolta e ovunque sarò presente”.
[12] Cappelletto Gianni, Genesi (Capitoli 1 – 11), Messaggero di Sant’Antonio, 2000)
[13] Nelle prime sette tavolette d’argilla dell’Enuma Elish, conservate nel British Museum, sono descritte la creazione dei cieli e della terra e di tutto ciò che vi è in essa, compreso l’uomo (nelle prime sei tavolette), e la lode al dio Marduk (settima tavoletta) che nel settimo giorno si riposò (cessò ogni suo lavoro).
[14]  Vedi SPINOZA, Baruch, Trattato teologico-politico, Einaudi  1972, pagg. 185-228
[15] E’ il nome dell’uomo e del mondo (aDaMaH) di Genesi. Non va confuso con l’uomo di altri mondi, con l’uomo sinonimo di specie umana o con il maschio della specie umana.  ‘aDaM è l’uomo degli Elohim e di YHWH, quello che si sono scelti e al quale hanno affidato l’elaborazione del loro progetto del mondo.
‘aDaMaH è la sostanza adamica (il corrispondente femminile di ‘aDaM) che una ‘eReTs o un ‘aDaM devono venerare, servire, coltivare per raggiungere la dimensione di nazione o di uomo che piace a Dio.
[16] “Il mito non conosce alcuna creazione dal nulla […]. Il mito presuppone sempre un caos dai cui elementi prende forma l’opera della creazione” . Creazione dal nulla e auto-limitazione di Dio, in G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1896.
[17] A. Rosmini, Teodicea, Città Nuova, 1977, pagg. 90-91
[18] Secondo il Fabre-d’Olivet la scrittura ebraica ha tre diversi modi di essere letta: due sono sonori ed uno visivo; i primi due hanno significato letterale e figurale, il terzo ha significato geroglifico.
[19] Fabre d’Olivet, La lingua ebraica restituita,  Parigi 1825. Traduzione italiana a cura di Maria Luisa Mazzini, Arché, Milano, 1980

 

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