08 ottobre 2013

ITALIA SPREMUTA E OLIO CINESE





Ogni tanto ci occupiamo anche di cucina, una delle tante angolazioni da cui si può osservare il mondo in cui viviamo. Oggi parliamo di olio.


Thomas Mackinson - Italia spremuta. L’olio made in Italy ormai lo fanno i cinesi

Lo scaffale del supermercato è un trionfo di antichi frantoi e colline toscane. Ma spesso è semplicemente un falso. Perché da anni l’olio italiano non si fa quasi più, lo si fabbrica. Lo abbiamo regalato ai signori del falso made in Italy che han fatto man bassa di marchi nazionali. Da allora ci è toccato comprarlo da loro e mandarlo giù, anche se del buon extravergine che era sulle nostre tavole è un ricordo annacquato di miscele industriali spagnole, tunisine e greche smerciate come prodotto italiano. Ora potremmo fermare i predoni stranieri dell’oro verde, riprenderci un pezzo di quella tradizione che rischia invece di finire ancora più lontano, nelle mani di concorrenti cinesi pronti a spremere il buon nome del made in Italy.

Persa la moda, la chimica, l’industria dolciaria, la nautica il copione si ripete oggi sulla filiera agroalimentare dell’olio d’oliva che proprio in queste settimane si rimette in moto per la campagna 2013-2014. Comunque andrà la raccolta - stimata al rialzo del 10% con una produzione superiore a 5 milioni di quintali - il prezzo al chilo lo farà sempre Madrid. Perché l’Italia è il primo rivenditore al mondo, ma il primo produttore è la Spagna.
 

Un paradosso che nasce con lo shopping di storici marchi nazionali acquistati dalla grande industria olearia senza che nessuno alzasse un dito per tutelare un settore che vale due miliardi e impiega manodopera per 50 milioni di ore lavorative. È accaduto venti anni fa, nel 1993, con l’operazione Cirio-De Rica-Bertolli a favore della multinazionale Unilever, sta accadendo oggi con il gigante iberico Deoleo – 1,5 miliardi di fatturato, un quinto del mercato globale dell’olio d’oliva - che cinque anni fa ha acquistato tre grandi marchi nazionali. Da allora in Italia l’extravergine non si fa più, si fabbrica e si trasforma. E tutto è cambiato.



Le grandi industrie avevano intravisto la possibilità di “vestire” di italian sounding miscele comunitarie che un frantoio tradizionale non l'hanno mai visto e di farle arrivare sugli scaffali del mondo a prezzi imbattibili, con etichette italiane. La materia prima è coltivata su larga scala in Tunisia, Grecia, Marocco e Spagna secondo modelli intensivi. Le olive non vengono avviate immediatamente alla spremitura ma sono stoccate e poi sottoposte a processi industriali di miscelazione, addizione correttiva e deodorazione. Viaggiano poi per nave e per terra e infine arrivano negli stabilimenti italiani per le ultime lavorazioni, imbottigliamento, etichettatura. Le miscele comprate a 25-50 centesimi al chilo arrivano così sugli scaffali a 2-3 euro, col risultato che il consumatore porta in tavola un olio-low cost, commestibile ma di modesta qualità, pensando d’aver fatto un buon affare.

Nulla di illegale, visto che la normativa europea ha assecondato le istanze dei grandi dell’olio consentendo la commercializzazione con marchi nazionali ancorché frutto di produzioni di origine comunitaria, purché indicata in etichetta. Certo, basta poi andare in qualunque supermercato per riscontrare la difficoltà di leggerla. In ogni caso per i primi anni le cose sono andate benone: anzi, grazie al network di Deoleo i marchi nazionali Bertolli, Dante, Carapelli si sono spinti in 50 Paesi e sono penetrati nei mercati emergenti. Nel frattempo, però, la posizione dominante dell’industria olearia straniera ha costretto la filiera corta delle 6mila produzioni agricole nazionali nel recinto delle denominazioni geografiche protette, percepite come costose dal consumatore in un confronto impari tra oli altrettanto “italiani” ed “extravergini”. Ora qualcosa nel sistema si è inceppato. E forse potrebbe sollecitare una riflessione pubblica sulla politica agricola italiana, proprio a partire dall'olio.



Il più grande tra i giganti, appunto Deoleo, è in ginocchio e rischia di trascinare a terra i gioielli dell'olio italiano che ha messo in pancia. Nell'ultimo anno l'aumento del prezzo della materia prima (+30%) e la crisi dei consumi (-10%) hanno i ridotto i margini di un modello industriale basato sulla quantità. Le banche che a suo tempo salvarono il gruppo hanno deciso oggi di sfilarsi, segno che quel modello non è più ritenuto profittevole. La controprova arriva anche dal prezzo: il 35% di Deoleo potrebbe essere ceduto tra i 210 ai 280 milioni di euro, poco più di un terzo di quanto sborsò cinque anni fa per il solo marchio Bertolli. Insomma, l'Eldorado dell'olio industriale è arrivato a un punto di non ritorno?

“Chi pensava di spremere all'infinito il credito cumulato dall'Italia nella vendita di immagine di prodotti di qualità e di cultura del buon cibo è costretto a ricredersi. Il made in Italy non è una risorsa inesauribile”, spiega Coldiretti esprimendo preoccupazione per il destino dei tre marchi in vendita che potrebbero finire in mani cinesi, le uniche a contare su un portafoglio largo e ad aver investito massicciamente in colture d'olivi in nord Africa. Eppure anche su questa vicenda la politica non c'è, nonostante lo Stato sia chiamato a raccogliere i cocci sostenendo la cassa integrazione per i primi 55 addetti, su 285, negli stabilimenti di Tavernelle (Firenze) e Inveruno (Milano).


(Da: il Fatto del 7 ottobre 2013)

Nessun commento:

Posta un commento