09 ottobre 2013

UNA STORIA ZEN



«In tutte le cose che vediamo è nascosto un fiore; in qualunque cosa su cui riflettiamo è celata la luna». Ce lo dice un antico testo buddista che ci rivela che la vita è scoperta continua, che la ricerca della verità altro non è che andare alla ricerca di sè in mezzo agli altri uomini. La saggezza orientale si salda alla Tradizione occidentale. Il Graal è il cuore dell'uomo e la “selva oscura” di Dante il mondo.
 
 Emanuele Trevi - Saggezza buddista.Lo zen finisce in una bettola


Quando un uomo raggiunge l'essenza della verità, la quale non è altro che la sua natura più intima e originaria, egli vola via, insegnano i maestri dello zen, come un uccello che non lascia tracce, «oltre ogni legge e ogni norma». Si tratta dell'obiettivo più importante della vita, la vera libertà. Ma non è una dottrina filosofica o religiosa che si possa leggere in un libro, o imparare passivamente dalla bocca di un maestro. Sarebbe come illudersi di essere uno sportivo standosene comodi sul divano a guardare i mondiali di atletica, ingurgitando patatine e Coca-Cola. Gli spettatori abituali di eventi sportivi sanno bene che l'unico vero atleta è quello che corre stringendo i denti, schiva un gancio micidiale, porta la palla oltre la linea di meta.

Molto meno consapevoli, in questo caso, sono i tanti cultori nostrani di saggezze orientali, appesi all'assurda ipotesi che un libro, o un insegnamento, possa cambiare la loro vita. Nel migliore dei casi potranno suggerire un'idea nobile di se stessi, finendo per rinchiuderli ancora più in fondo nella prigione della loro identità.

Il fatto è che la verità può essere una sola, ma le vie da percorrere sono tante quante gli esseri viventi. Spetta a ognuno liberarsi a suo modo dai vincoli dei pregiudizi, sconfiggere i propri terrori, e avanzare in direzione di se stesso come ognuno è in grado di fare, ci fosse pure Buddha in persona a suggerirgli un altro modo.

L'unica cosa vera dello zen è la realizzazione, la piena e diretta esperienza di quel Vuoto dove non ci sono più né l'io né il mondo, ma la pace sovrana dell'indistinto. E allora giustamente ci si chiede perché tanti libri sullo zen, i quali puntualmente finiscono per ammettere che i libri non servono a nulla? La risposta è semplice: se il balzo o l'«irruzione» nella verità è istantaneo, e si realizza come e quando deve realizzarsi, esistono pure le pratiche, i consigli, gli strumenti di meditazione. Verrà il momento di dimenticarsene, ma conviene servirsene: sempre a patto di non confondere l'impalcatura con la costruzione.



Proviene da una delle più antiche tradizioni del buddhismo zen cinese un esempio straordinario di questi strumenti didattici che potremmo definire usa-e-getta. È una specie di parabola, di percorso iniziatico che si intitola Il bue e il suo pastore, e probabilmente era destinata all'addestramento dei novizi. Il nucleo originario consiste in dieci disegni, ai quali si sono aggiunti nel corso del tempo dei commenti scritti, in prosa e in poesia. Ma come spiega Antonio Tamaro, nell'ottima edizione di Vuoto/Pieno curata per Laterza, l'energia simbolica dell'avventura del pastore alla ricerca del suo bue è di quelle che i secoli non esauriscono minimamente, arrivando a fecondi intrecci con le punte più acuminate del pensiero europeo. Fu Martin Heidegger, fulminato dalla bellezza di un disegno di un ramo in fiore (il nono dell'opera), a promuovere la prima pubblicazione in una lingua occidentale, nel 1957.

Il primo a disegnare le dieci tappe dell'avventura del pastore alla ricerca del suo bue fu un maestro chiamato Kuo-an, vissuto alla metà del XII secolo. Questo archetipo è andato perduto, ma da allora, in moltissimi conventi cinesi e giapponesi, la sequenza dei dieci disegni non smise mai di essere eseguita. I più belli sono dovuti al pennello di Shubun, un pittore zen vissuto in un convento di Kyoto nel Quattrocento. Sono quelli riprodotti anche nell'edizione italiana, e il semplice contemplarli nella loro successione equivale a una sorpresa salutare, e al contatto con una fonte di energia potente e incorrotta.

Come in tutte le grandi visioni spirituali dell'umanità, al centro c'è una metafora tanto semplice quanto potente: è del proprio «cuore», simboleggiato dal bue, che il pastore va in cerca. Questa ricerca, come si può facilmente intuire, è assurda, poiché non si può perdere ciò che è sempre stato nostro; ma nello stesso tempo, è necessaria. Solo nel momento in cui il pastore scopre le tracce del bue nella foresta, «comprende che le cose, sebbene di forme diverse, sono tutte costituite dallo stesso unico oro», come afferma un antico commento, «e che la natura di ogni cosa non è diversa dalla propria natura». E quando finalmente scopre il bue, se apre davvero gli occhi, non scorge nient'altro che se stesso. Ma non basta: al livello della suprema realizzazione, non esistono più né il bue né il pastore.

Tutto questo è indicato nell'ottavo disegno della serie, il più affascinante, che rappresenta un cerchio vuoto. Dopo avere inseguito le orme del bue, averlo domato e ricondotto a casa, l'identità fra l'individuo e la sua natura originaria è perfetta. Attraverso una pratica indefessa, lo studente dello zen può accedere a questo Grande Vuoto che soggiace a ogni forma, sperimentando l'indistinzione e l'unità di ogni aspetto e fenomeno del mondo: quell'«oro» che è sostanza inviolabile di tutte le cose.



Ci sarebbe altro da aggiungere, dopo questo limite? Eppure, l'ottava figura non è l'ultima. Non si può dimorare indefinitamente nel Vuoto. Alla figura del cerchio ne seguono altre due: un ramo fiorito e un vecchio che discorre con un giovane, su quella che potrebbe essere la strada di un mercato affollato. Ed è proprio attraverso questo «ritorno al mondo» successivo all'esperienza del Vuoto che la favola mistica del bue e del pastore riesce ancora a parlarci, a riguardarci. Perché quel mondo profano, con tutte le sue illusorie contraddizioni e il labirinto delle opinioni fallaci che ne derivano, non può essere spazzato via dall'orgoglio di chi lo ha superato. In ogni singolo aspetto del vivente, infatti, è presente tutta intera, anche se in modo inconsapevole, la capacità di risveglio propria del Buddha. E dunque il mondo illusorio delle differenze e delle contraddizioni non va disprezzato e contrapposto semplicemente all'Assoluto, come accade nella maggior parte degli itinerari mistici.

Dalla perfetta chiarezza dell'illuminazione suprema si torna indietro, sporcando i sandali nella polvere dei fenomeni, perché tutte le creature vanno redente, risvegliate, come in una specie di benefico contagio. Ed è una figura indimenticabile quella del saggio che, terminato il suo percorso di realizzazione, esce dal Vuoto perché «gli piace frequentare bettole e bancarelle del pesce, così da poter risvegliare a se stessi gli uomini ubriachi». Se disdegnasse il mondo, compiacendosi solo della sua solitudine o ancora peggio della compagnia dei suoi simili, non sarebbe un risvegliato, ma un volgare impostore. Quest'uomo che si aggira sorridente nei bassifondi del mondo mi ricorda molto il Cristo della Vocazione di san Matteo di Caravaggio, quando irrompe nella stanza intrisa di vizio dei doganieri. In fondo, i veri maestri sono tutti uguali, e sanno sempre bene dove andare a cercare chi ha bisogno di loro.

(Da: Il Corriere della sera del 6 ottobre 2013)

Disegni di Tensho Shubun, pittore zen vissuto in un convento di Kyoto nel Quattrocento

Vuoto/Pieno. Il bue e il suo pastore: una storia zen dell'antica Cina
a cura di Antonio Tamaro
Laterza, 2013
16 euro

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