11 novembre 2013

ESSERE E' DIRE

Dal  sito  http://rebstein.wordpress.com/2013/11/11/essere-il-nemico/ riprendiamo quanto segue:

Essere il nemico

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Essere è dire

“Essere il nemico”, di Flavio Ermini, è davvero, come recita il sottotitolo, un “Discorso sulla via estetica alla liberazione”.
Già dalle prime pagine, l’autore esprime con chiarezza le sue opinioni.
Poiché la mentalità mercantile e affaristica, dominata dal culto del denaro,
“è penetrata in ogni piega del tessuto umano, la rivoluzione non va più immaginata soltanto come rovesciamento del potere della classe dominante, ma va soprattutto pensata come rottura delle gerarchie repressive interne ai singoli individui di tutte le classi”.
Anche la mitica classe operaia, insomma, non può più aspirare a essere la forza liberatrice per eccellenza, poiché anch’essa è stata coinvolta in un processo di adeguamento e poiché, in ogni modo,
“Per vincere è necessario riaprire l’orizzonte della liberazione; ci vuole qualcosa che metta in discussione lo Stato (non dunque la semplice sostituzione di uno Stato con un altro, com’è di fatto sempre accaduto, anche nel Novecento con le rivoluzioni proletarie)”.
Qual è, allora, la prospettiva politica?
“Vanno invece realizzate zone di resistenza autentica; vanno prospettate molteplici forme di vita che non si lascino integrare da nessun potere”.
Si avvertono distintamente, in questa’ultima pronuncia, tracce del Situazionismo di Debord e dell’acuta analisi del linguaggio operata da Wittgenstein.
La via da percorrere è quella della ricostruzione della personalità umana per mezzo di un ritorno a un’espressione consapevole, capace di aprirsi su orizzonti non definibili a priori e, proprio per questo, liberatori.
La stragrande maggioranza dell’umanità non è soltanto vittima di diseguaglianze economico – sociali, è anche sottoposta a una continua manipolazione della coscienza che induce a pensare in un certo modo e, dunque, a usare il linguaggio secondo certi modelli.
La liberazione, per Ermini, necessita di un diverso uso della parola.
Di una parola finalmente originale, non asservita, rivolta verso orizzonti aperti su
un’incertezza considerata ricco campo di energia.
Quale linguaggio scegliere, allora, se non quello poetico? Ossia un linguaggio che, per natura, non definisce ma suggerisce, non chiude le forme di vita entro rigidi perimetri ma permette loro di svilupparsi, non assume atteggiamenti sbrigativamente presuntuosi ma procede senza nulla trascurare?
La diversità non è un ostacolo, è una ricchezza e i lineamenti esistenziali e grammaticali costituiscono gli strumenti di una possibile liberazione: dobbiamo essere davvero e, per riuscirvi, dobbiamo parlare davvero.
È un processo impegnativo e doloroso, poiché liberarsi di certe inutili corazze costa fatica e pena: tuttavia, avverte il Nostro, ogni difficoltà va affrontata e superata.
Ho detto “superata”, perché lo sfondo su cu il “Discorso” si articola, lungi dall’indulgere a fiacco ottimismo, si presenta quale vividamente fiducioso: secondo l’autore, possiamo farcela.
La parola è strumento quotidiano a disposizione di tutti: operare sui paradigmi linguistici, perciò, significa rivolgersi potenzialmente a moltissimi individui.
Si tratta d’incominciare.
Si tratta di abbandonare certi fittizi progetti universalistici per iniziare dalle specificità individuali e procedere in maniera progressiva.
Occorre non trascurare mai la concretezza dell’adesso.
Sì, perché l’adesso è anche passato e futuro se riusciamo a viverlo (e a dirlo) in maniera autentica.
Il mondo, il nostro mondo, potrà migliorare se agli umilianti vincoli imposti alla coscienza sostituiremo l’immaginazione capace di promuovere un pensiero libero.
Ecco, per Ermini, la poesia è proprio questo: libero pensiero che si fa e si dice.
Un esistere non più sottomesso può diventare un diffuso esempio da seguire, può coinvolgere un numero sempre maggiore d’individui, può rappresentare il cardine attorno al quale ruotano le relazioni umane.
Quando la libertà si sarà affermata quale naturale modo d’essere, la stessa parola che la indica perderà senso e verrà abbandonata, perché la libertà, per esistere, ha bisogno della costrizione.
Imparare a dire per imparare a essere?
Si può anche sostenere il contrario, ma non importa, perché il risultato è lo stesso.

(Marco Furia)

Flavio Ermini, Essere il nemico (Discorso sulla via estetica alla liberazione)
Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2013

Estratti

Avvertenza dell’autore
L’età della tecnica ha chiuso l’epoca umanistica, e l’essere umano non conta più niente, è qualcosa di antiquato. La sua sorte interessa sempre meno al capitale. Contro questa società che ha espulso ogni considerazione umana è sempre più difficile opporsi. Tanto che torna legittima la domanda: come fare? Essere il nemico è il resoconto del cammino che va compiuto sulla via estetica alla liberazione; ovvero sulla strada tracciata da Leopardi, quando il poeta, come scrive Cesare Galimberti nella sua introduzione alle Operette Morali, “anziché condurre una battaglia di retroguardia, votata all’insuccesso, opera una disperata sortita dalla rocca delle illusioni, per non più rientrarvi; per attraversare invece, fino in fondo, le linee nemiche, usando le armi del nemico, fingendosi il nemico e anzi, in qualche modo, essendo il nemico“.

È stato così che un giorno un individuo si è alzato e ha voluto conoscere il mondo che si estendeva davanti a sé. Ha voluto vederlo nella sua totalità. Non poteva più sopportare l’esistenza di tutte quelle colonne d’Ercole che gli si paravano davanti. Tante altre acque scorrono al di là di questo nostro mare. L’ “osa sapere” di Kant è diventato il sapere “a ogni costo” di Nietzsche; quel sapere la cui essenza è raccolta nel passaggio che dal buio della caverna porta alla luce del giorno e subito dopo di nuovo al buio.

Va interrotto, ti dico, il rapporto che abitualmente intratteniamo con le cose e le parole, smobilitando tutte le stabilità e sacrificando ogni senso preesistente. Lo spazio che in tal modo si apre viene a costituirsi come il fondamento dell’ente e dei liberi rapporti di tutti gli enti tra loro.
Accade così che prendere il mondo nelle mani significa includerlo progressivamente nell’ordine delle proprie intenzioni; significa entrare nell’aperto e sentirsene parte; significa abitare la distanza.


Il rapporto verbale con l’essenza del mondo si forma già nel linguaggio della comunicazione. Ma si amplifica nella parola poetica. Infatti, che cosa più della poesia è esposto all’urto dell’essere? Tu che scrivi hai il dovere di arrischiare il linguaggio per ottenere la misura dell’abitare poetico. Ma bada bene: questo non dev’essere solo un programma, ma anche una prassi.

La via estetica alla liberazione: percorrerla significa riconoscere quella forma di pensiero che non è strettamente legata alla filosofia, alla religione, alla scienza, alla psicoanalisi, alla politica … e che scorre in altro alveo: una provocazione a pensare altrimenti.
Il compito del vivente dotato di parola è ancora oggi quello di esporsi al principio della necessità che lo ha fatto pensare. Ma ulteriori decisivi spostamenti vanno compiuti: aprire un varco, per esempio, verso ciò che oggi è impensato; affidandosi a nomi che si declinano come elementi naturali, anteriori alle distinzioni fra soggettivo e oggettivo.
Credimi: nell’aperto dell’impensato, dove le potenzialità del linguaggio possono essere scatenate, c’è il nuovo inizio.


Nel corso di ogni nostro atto, siamo davanti a un insieme di pulsazioni luminose che generano costellazioni variabili sia per forma sia per intensità. Osservate da chi scrive, esse compongono disegni che un altro occhio comporrebbe in modo diverso.
Fratelli, la via estetica alla liberazione porta a sottrarci alla scena insopportabilmente illuminata dai mass media; a concepire il linguaggio non solo come “mezzo”, ma anche come processo di autodeterminazione in atto; a concepire noi stessi non solo come spettatori, ma anche come soggetti criticamente capaci di intervenire sulla realtà.
Ma è proprio così difficile capire che il linguaggio estraneo all’immaginazione è la distanza di difesa dal fuoco dell’esistenza?


I tempi che viviamo sono più del calcolare che quelli del meditare. Anziché proteggere la sua felicità, l’uomo si dà un’esistenza pietrificata, si infligge progressive mutilazioni.
Essere pensati da altri alleggerisce il peso della nostra esistenza. Questo è vero. Ma lo riteniamo anche giusto?


Il linguaggio è il prodotto di un’esposizione e di un ascolto senza mediazione nei confronti delle cose. Ecco perché la parola non può abbandonare l’inquietudine dell’enigma per la quiete della ragione.
Per la parola della liberazione non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe la ragione, ma di incontrarle.
Nominando la cosa, la parola della liberazione assegna a essa il suo destino. Nel farlo scava un abisso tra sé e la parola “a una dimensione” della tecnica.


Signore e signori, il lavoro salariato e l’obbedienza-per-timore sono la riduzione in sabbia di qualsiasi iniziativa personale. Se non si cancella l’equazione uomo-merce non è possibile creare un fondamento apprezzabile e vantaggioso per tutti. I rapporti con le cose devono avere il loro centro di irradiazione nel singolo. La parola chiede di diventare un organo vitale della persona.

Lo sai anche tu: sarà una lotta di lunga durata. Probabilmente l’araba fenice dello spirito creativo dovrà attendere ancora a lungo nel suo vaso cinerario.
Ma è scritto (Vangelo secondo Marco): “Saremo giudicati non se verremo sconfitti, ma se non avremo lottato”.


Non può restare nel nostro destino questa realtà nemica, questa terra di smarrimento e perdita, questo paesaggio di rovine. Come si può chiamare civiltà un rapporto sociale che funziona al prezzo della povertà di tanti esseri umani?

Non pazientate né fuggite, ma insorgete per demolire la casa della schiavitù: contro il dominio dei faraoni, minate il monopolio della decisione. Sul piatto della bilancia non ci sono astratte teorie filosofiche: ci sono le attitudini fondamentali dell’essere umano: interrogare, rispondere, negare elaborare ipotesi, ringraziare, nutrire speranze, odiare, pregare.

È un orizzonte senza grandezza quello che viviamo. I suoi modelli sono minimi, lo spessore è scarso. Per questo siamo inesausti sostenitori della liberazione contro ogni dogmatismo.

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