07 novembre 2013

MASCHERE E VOLTI IN MUNCH

E. Munch, Madonna


Franco Marcoaldi

Il teatro dell’anima all’incrocio dei secoli

Come una mela tagliata a metà, la vita di Edvard Munch si divide tra gli ultimi quarant’anni dell’Ottocento e i primi quaranta del Novecento (1863-1944). Dei due secoli in cui vive, l’artista condensa in sé lo spirito in modo esemplare: nasce naturalista, salvo incrociare ben presto il simbolismo; segue le tracce impressioniste, per farsi poiantesignano del modernismo espressionista.
Certo, le tragiche vicende familiari offrono un timbro indelebile alla sua arte: a cinque anni Edvard perde la madre e a dodici la sorella maggiore Sophie (variamente raffigurata in celebri quadri), mentre un’altra sorella (Lara) è affetta da una grave depressione. Lui stesso, del resto, grande consumatore di alcol e soggetto a reiterati stati di allucinazione, conosce la malattia mentale e la paranoia, al punto che nel 1908 è costretto a una degenza di otto mesi nella clinica psichiatrica del dottor Jacobsen, a Copenaghen.

Eppure, il cliché dell’artista maledetto non gli si attaglia. Munch, tanto per dirne una, è quanto mai accorto nel rapporto con i mercanti e gestisce con oculatezza il suo patrimonio artistico. Così, se è vero che la sua vita può sembrare quella di un uomo braccato, affetto da misoginia e capace di collere inaudite che lo spingono a rotture improvvise e a successivi, lunghi periodi di isolamento, è altrettanto vero che Edvard viaggerà molto e conoscerà molte persone. Forse, allora, bisognerebbe provare a rovesciare la prospettiva: riconoscendo che se la cifra principale della sua arte resta quella dell’inquietudine, dell’angoscia, del fantasmatico, essa risulta tanto più efficace perché il “teatro dell’anima” a cui dà vita nasce sì da un’esperienza soggettiva e incarnata, ma si incrocia in modo quanto mai fertile con la temperie culturale circostante.

Autoritratto con sigaretta



















Il poeta danese Emanuel Goldstein apprezza la sua opera e lo introduce al simbolismo, mentre Edvard familiarizza con il pensiero di Swedenborg e Schopenahuer. L’amico Hans Jaeger gli fa conoscere l’opera di Kierkegaard; e sempre per restare in ambito filosofico, nel 1905 dipingerà un famoso ritratto di Nietzsche, al cui pensiero è fortemente interessato quel Frederick Delius,compositore inglese, che il pittore norvegese aveva frequentato con profitto nel soggiorno parigino del 1896. «Si è detto che bisognerebbe comporre musica sulla pittura di Munch per interpretarla adeguatamente», riconosce Strindberg in un breve e fulminante scritto pubblicato in occasione della mostra tenuta alla galleria Art Noveau di Parigi.

E giusto a proposito di Strindberg, come dimenticare la fertilissima collaborazione di Munch con la grande drammaturgia nordica? Con il nuovo teatro da camera di Max Reinhardt, fondatore del Berliner Kammerspiele? Non si tratta soltanto di pur importanti scenografie, a partire da quella per gli Spettri di Ibsen. Il riflesso pittorico di un’idea teatrale volta a favorire l’intimità con lo spettatore è immediatamente riscontrabile in altrettante tele raccolte in spazi chiusi ritmati da una precisa drammaturgia (basti, per tutti, il celebre La morte nella camera della malata). Senza contare, via via che passano gli anni, l’uso deformante del grandangolo fotografico e l’avvicinamento al cinema, nella convinzione di dover imprimere alla propria pittura un ulteriore cambio di passo, in direzione di un dinamismo talmente irruente da spingere il soggetto fuori dalla tela. A contatto diretto con l’osservatore.

Se si mettono assieme tutti questi elementi, e si aggiunge poi la pratica del quadro “non finito”, il ritorno ossessivo sullo stesso soggetto, il confronto con i nuovi media (radio, cinema, riviste illustrate, cartoline postali), si finisce per riconoscere nella lunga battaglia interiore di Munch, nello sfiancante corpo a corpo intrapreso con la propria anima, un’eco quanto mai significativa del più generale tragitto artistico, letterario e filosofico otto- novecentesco.



Al Palazzo Ducale di Genova 80 opere del pittore norvegese a 150 anni dalla nascita. Lo scopo è di presentare un aspetto inedito e più intimo dell'artista.

Lea Mattarella-Munch. La vera arte di dipingere l’abisso (e basta Urlo)

«L’uomo che vi presentiamo oggi non è quello che credete». È con questa affermazione del curatore Marc Restellini che va visitata la mostra Edvard Munch aperta a Genova a Palazzo Ducale da oggi al 27 aprile 2014.

Una frase che rivela l’anima di questa esposizione: presentare un aspetto inedito e più intimo del pittore norvegese, icona di una pittura vissuta nel segno del dolore, dell’angoscia, dell’Urlo, interprete di un’«arte che si nutre del sangue dell’artista», per dirla con le sue parole. Questa rassegna si presenta proprio come “Anti-urlo”, come già era stata quella curata da Restellini alla Pinacoteque de Paris nel 2009. Mira a rompere quel processo di identificazione avvenuto nel corso del tempo tra Munch e il suo quadro più celebre. Tra le 80 opere raccolte in quest’occasione l’Urlo non c’è, se non nella versione che ne dà Andy Warhol, protagonista di una piccola mostra nella mostra. E il visitatore è pregato di distrarsi da quella figura che grida sul ponte coprendosi le orecchie con le mani, per un viaggio alla scoperta di dipinti e lavori grafici di Munch, in gran parte poco conosciuti al pubblico perché conservati in collezioni private. Un esempio è quello dell’inedita raccolta Linde, l’oculista che ospitò il tormentato pittore a Lubecca nel 1904.

Questo Munch segreto e autentico ci viene raccontato in otto sezioni che attraversano la sua storia pittorica che è anche storia esistenziale («i miei quadri sono i miei diari»). Ne emerge un pittore profondamente innovativo, capace di sperimentare tecniche e soluzioni formali sempre differenti, pur nella continuità di temi che spesso sono una vera e propria ossessione. Sono innumerevoli le versioni che realizza delle sue opere più celebri. Le dipinge, le disegna, le incide. «Se riprendo più volte un tema – ha detto – è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto. Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento della mia impressione».
Autoritratto fra l'orologio e il letto

 
 
 
 
 
 
 
 
Nascono così i fantasmi che popolano i suoi quadri, gli spettri di una psiche difficile da governare che ha uno stretto legame con i personaggi letterari di Strindberg e di Ibsen e, se vogliamo riconoscergli uno sguardo sul futuro, con il mondo nordico di Ingmar Bergman.

«Nella mia casa d’infanzia – ha scritto Munch – abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora... Così vissi coi morti». Ed ecco nelle prime sale i suoi esordi da pittore, quando esce da quell’abitazione in cui erano scomparsi la mamma e la sorellina di tisi, un fratello per annegamento e dove una delle sorelle soffriva di crisi psichiche, per dipingere il paesaggio. Inizialmente lo fa in maniera naturalistica ma, quasi immediatamente, gli è chiaro che deve abbandonare la pittura oggettiva per far entrare nel quadro prepotentemente la soggettività del suo vedere e del suo sentire.

«Scrivi la tua vita», era stata l’esortazione dello scrittore anarchico Hans Jaeger, animatore della bohème di Christiana (l’attuale Oslo), città dove Munch si era trasferito con la sua famiglia nel 1864, un anno dopo la nascita. Legato a questo mondo di artisti e letterati Munch inizia così la sua vertiginosa discesa dentro se stesso. E dalGiardino con casa rossa,dai dipinti influenzati dall’impressionismo, grazie a due soggiorni in Francia nel 1889 e nel 1892, si giunge alla sala che raccoglie le “Incisioni dell’anima”. E va ricordato che la grafica era un’espressione fondamentale per Munch che a volte viveva il quadro come una preparazione alle sue stampe.

L’Autoritratto del 1895 è già una dichiarazione di poetica: Munch si scruta, si indaga, si mette a nudo. «La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere». Tutta la sua pittura va letta quindi in chiave esistenzialista. Ecco le Madonne, i Vampiri. Sono la sua lettura del femminile: figure che succhiano il sangue, il cui abbraccio è una morsa che risucchia l’uomo in un nulla senza scampo.

Vampyr

Una di queste Madonne, Jaeger l’aveva appesa nella sua cella del carcere quando fu arrestato per la spudoratezza del suo romanzo autobiografico. È un’opera che mette in scena la profondità del rapporto tra il piacere e il dolore, tra la vita e la morte. «La donna che offre se stessa e raggiunge la bellezza dolorosa di una madonna – Tutta la mistica dell’evoluzione concentrata in un solo essere – La donna nella sua multilateralità è un mistero per l’uomo – La donna che è una e contemporaneamente è una santa e una puttana, una creatura infelice e abbandonata». Questo era il suo pensiero, la sua idea della donna e dell’eros che lo attraeva e lo spaventava. Sempre con quel chiodo fisso che il suo patrimonio genetico fosse minato da malattia e morte e quindi senza la possibilità di unirsi per sempre a qualcuno per creare una discendenza.

La tragica fine della sua relazione con Tulla Larsen con un colpo di pistola che gli causa la parziale perdita di un dito è la metafora dell’impossibilità di Munch di completarsi con l’altro da sé. Le sue Madonne sono circondate da spermatozoi e da embrioni che hanno già la morte stampata sul corpo ancora in formazione. Nelle sale dedicate all’universo femminile c’è un mondo di attrazione, gelosia, chiome «come pioggia di sangue versato a torrenti sull’insensato che cerca la divina sventura di essere amato».

Ma la mostra ci conduce anche alla scoperta della natura vista con gli occhi di chi la considerava «un mezzo e non un fine», luoghi in cui può capitare, magari solo per un attimo, anche di essere felici. La natura è mezzo anche pittorico. Munch appendeva i suoi quadri agli alberi, li lasciava nella neve, diceva che il colore aveva bisogno di sole, di sporco, di pioggia. Così li faceva partecipare al corso della vita, li vedeva invecchiare come fossero persone. Ci sono anche le sue fotografie, scatti sfuocati, senza centro, un’ulteriore indagine per arrivare alla verità. Lui le chiamava “fotografie fatali”. E poi ci sono i suoi superbi ritratti che scavano l’anima del personaggio. «La seconda condizione per un ritratto è che esso non somigli al modello, la prima è che l’arte è arte».
(Da: La Repubblica del 6 novembre 2013)

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