05 novembre 2013

PERCHE' CANFORA RIVALUTA STALIN?

Da un blog che seguiamo con simpatia da sempre oggi prendiamo quanto segue:

Ma Stalin poi non era così cattivo. Luciano Canfora recupera lo stalinismo (e il gulag)


 
Dimenticando che le presunte “conquiste staliniane” poggiavano su gigantesche cataste di morti, Luciano Canfora cerca di  recuperare Stalin e lo stalinismo usando le stesse argomentazioni usate da destra per riabilitare Benito Mussolini e il fascismo. Anche questo è un segno dei tempi. Noi continuiamo a essere fermamente convinti che proprio all'opera di Stalin (e dei suoi corifei alla Canfora) si debba la radicale demolizione nell'immaginario collettivo dell'idea stessa di comunismo, come utopia concreta, possibilità reale di una società più umana e giusta.
E non ci sembra un caso, aggiungo io, che le elocubrazioni del prof. Canfora vengono pubblicate sul Corriere della Sera!


Luciano Canfora

La storia si scrive sempre usando il tempo presente


Sotto il titolo I conti con la storia. Per capire il nostro tempo , Paolo Mieli ha raccolto per Rizzoli gli interventi e i saggi pubblicati negli ultimi anni su questo giornale, come a suo tempo ne aveva selezionati altri in analoghi volumi (La storia, le storie e La goccia cinese ). Questa volta però ha voluto dare una cornice e far risaltare il filo conduttore, in una introduzione della quale qui diremo. Il filo conduttore è il tema formulato per primo esplicitamente e teoreticamente da Benedetto Croce: «Ogni vera storia è storia contemporanea». Con ciò intendendosi che lo sforzo — sempre in fieri — di comprensione del passato parte dalle nostre categorie e risponde a nostre esigenze attuali e, non da ultimo, per ciò che un fatto storico diviene contemporaneo nell’atto mio medesimo di pensarlo.

Chi abbia esperienza della storiografia sa che non vi è storico, di cui sia rimasta significativa memoria, che non abbia preso le mosse da un impulso o bisogno intellettuale radicato nel presente, nel suo presente etico-politico: da Erodoto a Giuseppe Flavio, da Livio a Eginardo, da Guicciardini a Gibbon, da Droysen a Croce medesimo, da Albert Mathiez a Evgenij Tarle. E si potrebbe seguitare con gli esempi includendovi, in dissenso rispetto ad una celebre partizione dovuta ad Arnaldo Momigliano, anche gli eruditi e gli antiquari, pur essi mossi — da Eusebio di Cesarea a Baronio ai Centuriatori di Magdeburgo — da fortissimi impulsi tratti dal presente.
Di questa fondamentale intuizione si possono dare diversi inveramenti. Lo stesso Croce ne intuisce un possibile uso strumentale in quella che chiama «storiografia di partito» (La storia come pensiero e come azione , 1938, parte V) e addita uno iato tra «gli scrittori di storia, disadattati o alieni alla politica» e gli uomini politici, i quali «ancorché ignorantissimi delle cose della storia, pur menano le cose del mondo».
Al contrario, chi dell’agire politico ebbe un’idea più alta e meno riduttiva poté ribaltare questa visione, pur partendo dalle stesse premesse. Mi riferisco alle considerazioni di metodo che Palmiro Togliatti premise alla sua lezione torinese (aprile 1962) su Le classi popolari nel Risorgimento , dove indicò appunto nel politico, distinto in ciò dallo storico professionale (e in ciò sbagliava), colui che invera il principio della ineluttabile contemporaneità della storia. E concludeva, forse intimidito dall’apparente neutralità degli storici di professione: «Soltanto per il politico ogni storia è sempre storia contemporanea» (ed. postuma in «Studi storici», settembre 1967).

Nel Croce del 1938 operava la forzata lontananza dalla politica e l’esperienza rattristante della qualità intellettuale dei politici di quel tempo; ma Croce stesso si tuffò nella politica già con l’avvio della Liberazione (si pensi al memorabile suo intervento al Congresso dei Cln di Bari all’inizio del 1944). E in Togliatti nel 1962 operava forse la soggezione verso l’apparente apoliticità del ceto accademico di quel tempo, ma soprattutto l’orgoglio di appartenere egli stesso alla specie, oggi quasi estinta, dei politici che erano anche grandissimi intellettuali e in quanto tali studiosi di storia.

Un’altra importante declinazione del tema della contemporaneità della storia è quella, cara a Paolo Mieli, della necessità del revisionismo, inteso — va da sé — non come banale paradosso, ma come costante ripensamento del passato (dei momenti soprattutto nodali del passato), che è frutto al tempo stesso dell’ampliarsi della documentazione e del nuovo presente in cui via via gli studiosi di storia si trovano a vivere e a pensare il passato.

Mieli parte, nelle pagine introduttive, dalla difesa del cardinale filoustascia Stepinac da parte di Alain Finkielkraut e sembra accogliere gli argomenti addotti da costui in favore della wojtyliana beatificazione del cardinale a suo tempo fatto arrestare da Tito con l’accusa di collaborazionismo. Mieli spiega il mutamento di giudizio intorno all’azione politica dell’ingombrante prelato con le parole di Finkielkraut, il quale rampogna «gli attuali difensori degli ebrei» cui «interessa soprattutto riflettersi al meglio nello specchio dell’antifascismo»; e commenta: «Per cinquant’anni, sotto il regime comunista (in Jugoslavia) il male era stato identificato col fascismo». La stessa considerazione però si può esprimere anche nel modo seguente: non sono cambiate retroattivamente le compromissioni di Stepinac con il regime filofascista degli ustascia, ma è il passato ustascia che è stato rivalutato, e con esso Stepinac, dalla Croazia di Tudjman (campione di razzismo antiserbo, antisloveno e antimusulmano: si pensi alla Costituzione croata del 1997 da lui voluta).


L’altro grande esempio che Mieli adduce del processo di revisione, frutto, come s’è detto, della incessante contemporaneità del passato, è il giudizio storico espresso da Norberto Bobbio, in uno scritto del 1986, su Stalin. Era una molto articolata lettera a Paolo Spriano, in cui Bobbio non solo respingeva «fermissimamente» l’insulso accostamento tra stalinismo e nazismo, ma invitava Spriano — richiamandosi al XVII capitolo del Principe — a considerare la grandezza «del vostro, e potrei dire anche nostro, Stalin», «venerando e terribile» al pari di Annibale, in quanto è lecito al Principe violare le regole della morale comune se fa «gran cose». E soggiungeva Bobbio: «La costruzione di una società socialista è gran cosa».

Machiavelli, formulando quell’aspro criterio di giudizio, evocava Annibale. Dunque non introduceva, accanto al criterio della grandezza, anche quello della durata. Machiavelli frequentava poco il greco e forse perciò non gli era presente il celebre giudizio di un grande storico greco, contemporaneo di Filippo il Macedone, creatore della Macedonia come grande potenza e percepito poi nella Germania dell’Ottocento come archetipo di Bismarck. Scriveva Teopompo che «Filippo fu il più grande uomo che l’Europa avesse generato» e contestualmente lo descriveva come violento, fedifrago, sopraffattore. Ciò sbandava il povero Polibio, ma questo non toglie valore all’intuizione di Teopompo.
A quasi un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre, a sessant’anni dalla morte di Stalin, a ventidue anni dalla dissoluzione dell’Urss, il fenomeno Stalin è finalmente un grande problema storico, piuttosto che un veicolo di eccitazioni superficiali di vario segno. Il diagramma di come questo problema ci ha accompagnati ed è stato valutato nel tempo — cioè nei vari presenti del nostro passato — è un buon indicatore. Seguiamolo per sommi capi. Nel memorabile discorso al teatro Brancaccio di Roma (23 luglio 1944) Alcide De Gasperi, senza mai attenuare, in nessuna parte di quel discorso, la antitesi sua nei confronti del socialismo sovietico pur da lui definito «eminentemente cristiano», inneggiava al «genio di Giuseppe Stalin» e al «merito immenso, storico, secolare delle armate da lui organizzate» (Discorsi politici , ed. Cinque Lune 1956, p. 15). E di «genio politico» parlò Croce a proposito di Stalin su «La città libera» del 23 agosto 1945. Dell’opera sua come costruttore di uno Stato capace di reggere al micidiale attacco tedesco del giugno 1941 parlò su questo giornale Mario Missiroli nel fondo scritto in morte di Stalin (6 marzo 1953): «Quando suonò l’ora della prova suprema, l’uomo si mostrò pari a se stesso e ai grandi compiti che aveva cercato e che la storia gli aveva assegnato». E Pietro Nenni, commemorando Stalin alla Camera in quello stesso giorno, disse: «La guerra del 1941-45 fu, nel suo barbaro orrore, la prova suprema» e concludeva che, in quella terribile circostanza , «Stalin e il sistema ricevettero il collaudo della storia». E si potrebbe seguitare ricordando la biografia di Stalin scritta da un avversario acerrimo come Deutscher, culminante nel giudizio degno di attenzione: «Scacciò la barbarie dalla Russia con metodi barbari» (Stalin, una biografia , 1949). E Deutscher non aveva certo bisogno, per orientarsi, della drastica demolizione di Stalin attuata dalla parte alla fine vincente dei suoi successori nel XX e XXII Congresso del Pcus.

Poi vennero la crisi dell’Urss e la sua dissoluzione, avvenuta circa quarant’anni dopo la morte di Stalin. E la fine della sua costruzione comportò la revisione, il ridimensionamento e la rozza equiparazione con «gli altri dittatori». Ma le «gran cose» di cui diceva il Machiavelli vanno misurate col metro della durata? Forse no, se si pensa che l’impero creato da Filippo e Alessandro si sgretola neanche quindici anni dopo la morte di Filippo e poco dopo la morte di Alessandro. E lo stesso potrebbe dirsi di Tamerlano, che tanto aveva affascinato lo storico Ibn-Haldun, suo antagonista e ammiratore. Fu dunque l’ipotesi che quella storia novecentesca legata alla figura di Stalin fosse «finita nel nulla» (come scrisse, errando, François Furet nel Passato di un’illusione ) a suscitare non solo la insostenibile equazione Hitler/Stalin, ma più in generale il ridimensionamento di ciò che Bobbio ancora nell’86 definiva «grandi cose».

Ora però il punto di osservazione è cambiato ancora una volta. Gli ultimi vent’anni — di cui bene Mieli scrive che «sono già storia» — hanno imposto, soprattutto in Russia, una ulteriore revisione: una revisione che non può non interessare qualunque storico rifletta su quella vicenda, cioè sull’azione dello statista Stalin nei venticinque anni di potere assoluto (1927-1953) che avevano fatto della Russia una grande potenza rimasta tale anche dopo la fine dell’Urss. Lo segnalò subito, con la consueta sensibilità storica, Vittorio Strada su questo giornale (11 novembre 2004). E del ritorno di Stalin come grande figura della sua storia nazionale c’è ben poco da stupirsi, se si considera che si tratta dello statista al cui nome è legata l’unica guerra (e quale guerra!) vinta dalla Russia in tutta la sua storia, a partire dall’altra epopea, quella contro Bonaparte del 1812. Senza dimenticare la icastica sentenza di Deutscher che s’è prima ricordata.

Credo dunque che Mieli saprebbe ben riconoscersi nella sintetica diagnosi crociana: «Se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea». Altrimenti — scrisse Voltaire nella voce Histoire per l’Encyclopédie — cosa ci importerebbe che un tale sovrano è succeduto ad un altro sulle rive del fiume Oxos o dello Iaxarte

(Da: Il Corriere della Sera del 5 novembre 2013 ripreso da http://cedocsv.blogspot.it/2013/11/ma-stalin-poi-non-era-cosi-cattivo.html)
 
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