18 gennaio 2014

CINEMA: VON TROTTA RACCONTA HANNAH ARENDT


Nonostante il boicottaggio della grande distribuzione, esce finalmente in Italia in occasione della Giornata della Memoria il film che Margarethe Von Trotta ha dedicato a Hannah Arendt. Dopo Rosa Luxemburg (del 1986, bellissimo), un'altra intensa figura di donna entra nella storia del cinema.
 
Cristina Piccino

Von Trotta racconta «Hannah Arendt»
La cri­tica giap­po­nese lo ha messo tra i dieci migliori film dell'anno, e sul New York Times lo hanno defi­nito: «Un film ardente, che si avrebbe voglia fosse una mini­se­rie per pro­lun­gare il pia­cere della visione». Ha una giu­sta punta d'orgoglio nella voce quando lo dice, e gli occhi che bril­lano, Mar­ga­re­the Von Trotta. Eppure que­sto suo Han­nah Arendt in Ita­lia non ce l'avrebbe mai fatta a uscire in sala ( il 27 e 28 pros­simi, in occa­sione della Gior­nata della memo­ria; per saperne di più: www​.nexo​di​gi​tal​.it) senza l'energia di una pic­cola distri­bu­zione indi­pen­dente, la Ripley's che lo distri­bui­sce in ver­sione ori­gi­nale — fon­da­men­tale per capire il lavoro sull'accento fatto dalla pro­ta­go­ni­sta, Bar­bara Sukowa, icona della cinea­sta, nel dare vita alla filo­sofa tedesca.

Una sto­ria di donne pos­siamo anche dire, in affi­nità a quei per­so­naggi fem­mi­nili di intel­li­genza rivo­lu­zio­na­ria e distur­bante — in un mondo maschile — che abi­tano il cinema di Von Trotta: tra le altre Rosa Luxem­burg, Hil­de­gard von Bin­gen, o le sorelle di Anni di piombo, per­ché Von Trotta come molto cinema tede­sco della sua gene­ra­zione (penso a Fas­sbin­der) ha sca­vato den­tro al ter­ro­ri­smo nel suo paese senza reto­rica né enfa­tici imba­razzi bugiardi.

Lei sor­ride, e rac­conta di quando girando alcune scene in Lus­sem­burgo, nell'ufficio del ret­tore dell'Università, que­sti le abbia detto: «Non ho mai sen­tito muo­vere rim­pro­veri e accuse a col­le­ghi maschi come quelli sca­gliati con­tro Arendt». La defi­ni­rono senza sen­ti­mento, fredda, dura. Arro­gante, per­sino nazi­sta, lei che era ebrea, finita nei campi, e sfug­gita quasi per azzardo alla depor­ta­zione e allo ster­mi­nio. Per non dire delle «gen­tili» mis­sive con agget­tivi più comuni quando si parla di donne, put­tana in testa.

Siamo nel 1960, a New York, dove Arendt vivrà fino alla morte, nel 1975. Il periodo che Von Trotta, e la cosce­neg­gia­trice del film Pamela Katz hanno scelto per il film, è quando la filo­sofa accetta la pro­po­sta del New Yor­ker di coprire per loro con una serie di arti­coli il pro­cesso in Israele al nazi­sta Adolf Eich­mann. Arendt a dif­fe­renza di altri vuole capire cosa è acca­duto, le ragioni e le moda­lità. E anche altro, per­ché ad esem­pio, il suo mae­stro Hei­deg­ger si era messo dalla parte dei nazi­sti. «Arendt crede ancora nell'utopia del pen­siero, nella forza della filo­so­fia che può costruire un mondo diverso» dice Von Trotta.

Gli amici cer­cano di sco­rag­giarla, l'uomo con cui vive e al quale è legata da un amore intenso e libero pure. La filo­sofa è un rife­ri­mento cen­trale nell'ambiente new­yor­chese intel­let­tuale, gli stu­denti in facoltà la amano, le discus­sioni accese con i vec­chi amici, molti dei quali fug­giti dall'Europa come lei, sono la con­sue­tu­dine di lun­ghe serate. Gli arti­coli sca­te­ne­ranno una tem­pe­sta, una vera guerra sull'Upper West Side. La bana­lità del male, que­sto il titolo ita­liano del libro che nascerà da que­gli arti­coli, si inter­roga su temi tabù, come il ruolo dei Con­si­gli ebraici di fronte al nazi­smo, che per il solo affron­tarlo — ma era un ele­mento emerso nel pro­cesso — Arendt venne accu­sata di essere pro-Eichmann con­tro gli ebrei. Ma soprat­tutto Arendt si inter­roga sulla respon­sa­bi­lità per­so­nale nel male, e sul rap­porto tra que­sta e il sistema fuori da ogni mani­chei­smo: il nazi­smo sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto un appog­gio collettivo?



Su que­sto testo, proi­bito in Israele, ha lavo­rato Eyal Sivan per il suo Uno spe­cia­li­sta, film di mon­tag­gio con gli archivi del pro­cesso Eich­mann. E vedendo la Han­nah Arendt di Von Trotta, non stu­pi­sce la pas­sione di Sivan, tra i regi­sti israe­liani più lucidi e pure più dete­stati in Israele, per lei. Anche di Sivan dicono che è arro­gante e pieno di disprezzo per­ché nei suoi film rifiuta l'ideologia della vit­tima, ele­mento fon­dante la mito­lo­gia dello stato ebraico.

Nel suo nuovo film, Le Der­nier des Inju­stes, il regi­sta fran­cese Lan­z­mann riprende in mano una lunga inter­vi­sta, rea­liz­zata nel '75 a Roma, con Ben­ja­min Mur­mel­stein, il rab­bino che nel '44 è stato il respon­sa­bile del Con­si­glio ebraico nel ghetto di Tere­zina, e tra i pochis­simi soprav­vis­suti. Mur­mel­stein, e con lui Lan­z­mann, parla con disprezzo di Arendt dicendo che non aveva capito nulla, eppure ascol­tando quella zona di ambi­guità impli­cita — o forse neces­sa­ria — nel suo ope­rato le con­si­de­ra­zioni di Arendt appa­iono estre­ma­mente precise.

Dice ancora Von Trotta: «Arendt lascia la Ger­ma­nia quando i nazi­sti arri­vano al potere. In Fran­cia viene impri­gio­nata per­ché è tede­sca. In Ame­rica si sente final­mente a casa e gli attac­chi con­tro di lei dopo gli arti­coli sul pro­cesso Eich­mann sono come un nuovo esi­lio». Quando sul letto di morte, a Geru­sa­lemme, una delle per­sone che le sono più care al mondo le volta le spalle chie­den­dole: «Non ami il tuo popolo?», cioè Israele, lo stato ebraico, lei risponde: «Amo gli indi­vi­dui, gli amici, le per­sone a cui voglio bene». E un altro dei suoi più vec­chi amici che la rifiuta per sem­pre, le dice che lei si con­si­dera ancora tede­sca. Ma lo era, come erano fran­cesi, ita­liani o quant'altro gli ebrei che a un certo punto diven­tano solo tali, e per que­sto da ster­mi­nare. «Mi met­tere al cen­tro nei miei film per­so­naggi che amo e che mi inte­res­sano. Non cerco di dare un mes­sag­gio, e qui se ce ne è uno, è che si deve sem­pre pen­sare con la pro­pria testa. Arendt in que­sto è stata una grande maestra».



il manifesto | 16 Gennaio 2014 

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