Nonostante il
boicottaggio della grande distribuzione, esce finalmente in Italia in occasione
della Giornata della Memoria il film che Margarethe Von Trotta ha
dedicato a Hannah Arendt. Dopo Rosa Luxemburg (del 1986, bellissimo),
un'altra intensa figura di donna entra nella storia del cinema.
Cristina
Piccino
Von Trotta
racconta «Hannah Arendt»
La critica
giapponese lo ha messo tra i dieci migliori film
dell'anno, e sul New York Times lo hanno definito: «Un
film ardente, che si avrebbe voglia fosse una miniserie
per prolungare il piacere della visione». Ha
una giusta punta d'orgoglio nella voce quando lo dice,
e gli occhi che brillano, Margarethe Von
Trotta. Eppure questo suo Hannah Arendt in Italia
non ce l'avrebbe mai fatta a uscire in sala ( il 27 e 28
prossimi, in occasione della Giornata della
memoria; per saperne di più: www.nexodigital.it)
senza l'energia di una piccola distribuzione
indipendente, la Ripley's che lo distribuisce
in versione originale — fondamentale
per capire il lavoro sull'accento fatto dalla
protagonista, Barbara Sukowa, icona
della cineasta, nel dare vita alla filosofa
tedesca.
Una storia
di donne possiamo anche dire, in affinità a quei
personaggi femminili di intelligenza
rivoluzionaria e disturbante — in
un mondo maschile — che abitano il cinema di Von
Trotta: tra le altre Rosa Luxemburg, Hildegard
von Bingen, o le sorelle di Anni di piombo, perché
Von Trotta come molto cinema tedesco della sua
generazione (penso a Fassbinder) ha
scavato dentro al terrorismo nel
suo paese senza retorica né enfatici imbarazzi
bugiardi.
Lei sorride,
e racconta di quando girando alcune scene in
Lussemburgo, nell'ufficio del rettore
dell'Università, questi le abbia detto: «Non ho mai
sentito muovere rimproveri e accuse a
colleghi maschi come quelli scagliati contro
Arendt». La definirono senza sentimento,
fredda, dura. Arrogante, persino nazista, lei
che era ebrea, finita nei campi, e sfuggita quasi per
azzardo alla deportazione e allo sterminio.
Per non dire delle «gentili» missive con
aggettivi più comuni quando si parla di donne,
puttana in testa.
Siamo nel 1960,
a New York, dove Arendt vivrà fino alla morte, nel 1975. Il
periodo che Von Trotta, e la cosceneggiatrice
del film Pamela Katz hanno scelto per il film, è quando la
filosofa accetta la proposta del New Yorker
di coprire per loro con una serie di articoli il
processo in Israele al nazista Adolf Eichmann.
Arendt a differenza di altri vuole capire cosa è
accaduto, le ragioni e le modalità. E anche
altro, perché ad esempio, il suo maestro
Heidegger si era messo dalla parte dei nazisti.
«Arendt crede ancora nell'utopia del pensiero, nella
forza della filosofia che può costruire un mondo
diverso» dice Von Trotta.
Gli amici
cercano di scoraggiarla, l'uomo con cui vive
e al quale è legata da un amore intenso e libero pure. La
filosofa è un riferimento centrale
nell'ambiente newyorchese intellettuale,
gli studenti in facoltà la amano, le discussioni
accese con i vecchi amici, molti dei quali fuggiti
dall'Europa come lei, sono la consuetudine di
lunghe serate. Gli articoli scateneranno
una tempesta, una vera guerra sull'Upper West
Side. La banalità del male, questo il titolo
italiano del libro che nascerà da quegli
articoli, si interroga su temi tabù, come il
ruolo dei Consigli ebraici di fronte al nazismo,
che per il solo affrontarlo — ma era un elemento
emerso nel processo — Arendt venne accusata di
essere pro-Eichmann contro gli ebrei. Ma soprattutto
Arendt si interroga sulla responsabilità
personale nel male, e sul rapporto tra
questa e il sistema fuori da ogni manicheismo:
il nazismo sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto
un appoggio collettivo?
Su questo
testo, proibito in Israele, ha lavorato Eyal Sivan
per il suo Uno specialista, film di
montaggio con gli archivi del processo
Eichmann. E vedendo la Hannah Arendt di Von
Trotta, non stupisce la passione di Sivan,
tra i registi israeliani più lucidi e pure più
detestati in Israele, per lei. Anche di Sivan dicono
che è arrogante e pieno di disprezzo perché nei
suoi film rifiuta l'ideologia della vittima, elemento
fondante la mitologia dello stato ebraico.
Nel suo nuovo
film, Le Dernier des Injustes, il regista
francese Lanzmann riprende in mano una lunga
intervista, realizzata nel '75 a Roma,
con Benjamin Murmelstein, il rabbino
che nel '44 è stato il responsabile del
Consiglio ebraico nel ghetto di Terezina, e
tra i pochissimi sopravvissuti.
Murmelstein, e con lui Lanzmann, parla
con disprezzo di Arendt dicendo che non aveva capito nulla,
eppure ascoltando quella zona di ambiguità
implicita — o forse necessaria — nel suo
operato le considerazioni di Arendt
appaiono estremamente precise.
Dice ancora Von
Trotta: «Arendt lascia la Germania quando i
nazisti arrivano al potere. In Francia viene
imprigionata perché è tedesca. In
America si sente finalmente a casa e gli attacchi
contro di lei dopo gli articoli sul processo
Eichmann sono come un nuovo esilio». Quando sul
letto di morte, a Gerusalemme, una delle persone
che le sono più care al mondo le volta le spalle
chiedendole: «Non ami il tuo popolo?», cioè
Israele, lo stato ebraico, lei risponde: «Amo gli
individui, gli amici, le persone a cui voglio
bene». E un altro dei suoi più vecchi amici che la
rifiuta per sempre, le dice che lei si considera
ancora tedesca. Ma lo era, come erano francesi,
italiani o quant'altro gli ebrei che a un certo punto
diventano solo tali, e per questo da sterminare.
«Mi mettere al centro nei miei film personaggi
che amo e che mi interessano. Non cerco di dare un
messaggio, e qui se ce ne è uno, è che si deve
sempre pensare con la propria testa. Arendt
in questo è stata una grande maestra».
il manifesto | 16
Gennaio 2014
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