06 gennaio 2014

MA SI PUO' INSEGNARE LA GIOIA?





Alessandra Pigliaru




Verso la disciplina della gioia

 Nella complessa lettura che il presente richiede, il nuovo libro di Luisa Muraro ha un passo risoluto e allo stesso tempo spiazzante. Si intitola Non si può insegnare tutto ed è un piccolo volumetto composto da quattro belle conversazioni curate con finezza da Riccardo Fanciullacci, già curatore della nuova edizione di Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti (Orthotes). Attraverso un dialogo che consente agio e riflessione, vengono ripercorsi alcuni passaggi fondamentali del suo pensiero e della sua esperienza politica.



La forma scelta lascia aperta la possibilità di toccare il movimento di ciò che Muraro stessa definisce «il laboratorio segreto della mente». Sembra quasi di poterne visitare il perimetro, un andirivieni che lavorerebbe a sua e a nostra insaputa per farsi più nitido. Costruendo una tessitura di pensiero pensante sotto il segno costante della radicalità, la filosofa sistema una cartografia energica e a tratti emozionante di resoconti e aneddoti privati che vanno a puntellare una storia più grande, quella che ad un certo punto fa irruzione nella vita di tutte e tutti. Se gli immaginari posti in circolo dal Sessantotto in poi non possono essere liquidati con bilanci frettolosi, è pur vero che restituirne la portata attraverso la presenza dei volti incontrati garantisce almeno il desiderio di pensare alla preziosità di «giovani che si erano messi il mondo nel cuore».


Le esperienze di quegli anni e la rottura del femminismo si declinano così in passaggi decisivi che Muraro ordina come scoperta di sé e di una promessa che la modernità non ha saputo mantenere con le donne. Il passo al di là da parte del femminismo o, più semplicemente, a lato di quella modernità che si decise di squadernare definitivamente, ha significato uscire dalla scena per mancanza di corrispondenza piena. Ma in quest'oggi così poco credibile cosa ci viene restituito dell'esplorazione di quell'altrove? L'irridere ad un pensiero di seconda mano ha raccontato che in luogo dell'ideologia le donne hanno preferito, per esempio, esperire un'eccedenza: la libertà femminile.



Una libertà che deve sapersi misurare con il presente e che in qualche modo sa di sé. La disseminazione delle pratiche femministe non significa che la scommessa della differenza sessuale italiana sia un capitolo chiuso o che non la si possa far interloquire con altre pratiche. Tutt'altro. La politica delle donne che da quarant'anni sottrae terreno al potere e al tornaconto, in questa sua mancanza di sistematicità resta una risorsa fondamentale di ulteriori e possibili aperture, per donne e uomini.


Nello sfondo vivace che Muraro tratteggia, si muovono così pensieri e racconti che hanno animato la storia del secondo Novecento ma anche l'avvicinamento alla filosofia che le ha permesso il riconoscimento del gesto filosofico come intrinsecamente rivoluzionario. Il suggerimento le arriva da Gustavo Bontadini, ma è lei stessa che se ne fa signora quando per esempio avvia la Scuola libera di filosofia all'Università di Verona e quando nella sua ricerca sceglie di affidarsi ad una philosophia extra philosophiam in cui spiccano i grandi testi del pensiero femminile - narrazioni che scardinano gli steccati accademici e rendono il corpo a un sapere spesso algido.



In questo senso, la lezione dell'antiautoritarismo di Elvio Fachinelli si intreccia nelle pagine di Muraro con un metodo di insegnamento che possa dirsi già politico nel rigore del desiderio reciproco dello scambio in presenza. Degli incontri numerosi, alcuni sono illuminati di una speciale significazione. Per esempio il confronto con Luce Irigaray. E quelli che forse contano più di tutti: basti pensare a Lia Cigarini, con la pratica dell'autocoscienza prima e la fondazione della Libreria delle donne di Milano così come della comunità di Diotima.




Sta di fatto che il libro non ha certo l'ardire di dare risposte ultimative ma assume l'incedere di una scrittura incalzante e al contempo desiderosa di confronto. A farsi spazio è in fondo la condivisione di un percorso che possa indicare un orientamento possibile. Un grano di senape che non racconta la parabola del futuro una volta per tutte ma, nella sua irriducibilità a qualcosa che lo possa diminuire, dice l'esistenza di qualcosa che può trasformarsi. O trafiggere l'ingranaggio del potere. Dipende da quale uso se ne fa.


Il desiderio politico che sottende l'architettura di Non si può insegnare tutto si deposita in effetti in diverse occorrenze. Ce n'è tuttavia una in particolare che salda quel «filo di felicità» alla «dicibilità del vero» e che è di notevole interesse. Su entrambi gli argomenti la filosofa è tornata più volte ma, nel momento di sbandamento in cui versa il presente, si impone ad un'attenzione più accurata. Sì, perché di questa felicità forse dovrebbe importarci un po' di più, soprattutto se significa il legame genealogico con qualcosa di ininterrotto che ci riguarda, donne e uomini.



Somiglia a quella domanda che Cristina Campo scriveva nell'ultima lettera a Mita «Chi ci insegnerà la disciplina della gioia?». A risponderle, seppur idealmente, potrebbe essere proprio la stessa Clarice Lispector citata da Muraro, quando dice che «la traiettoria siamo noi». Ecco in che modo si combatte anche per la dicibilità del vero.



Nell'insufficienza del mondo non si inaugura solo un gesto filosofico, lo si capisce bene, ma un reale dotato di una contingenza efficace, corporea e simbolica in questi anni anche di alcune esperienze maschili, e di una crucialità che, appunto, non si può insegnare ma si deve invece sperimentare e raccontare.



Sulla soglia di una storia che non riconosce la persistenza della gerontocrazia, per esempio, e che pur tuttavia non ha velleità entomologhe intorno alle giovani generazioni, si potrebbe restituire a queste quattro decise conversazioni il senso di un augurio. Che l'avventura più alta e rischiosa, per dirla con Carla Lonzi, siamo noi.



Il Manifesto - 19 dicembre 2013

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