02 febbraio 2014

IL V NUMERO DI NUOVA BUSAMBRA DEDICATO A FRANCESCO CARBONE



       Abbiamo già pubblicato in questo blog l'editoriale, l'indice e alcuni testi contenuti in questo fascicolo speciale di nuovabusambra dedicato alla memoria di Francesco Carbone. 
        Oggi anticipiamo due preziose testimonianze, contenute nello stesso numero,  che  ci hanno offerto il prof. Aldo Gerbino e  la dott.ssa Giuseppina Abbate:



Francesco. Agro e gentile

Aldo Gerbino

   Quando, nel luglio del 2000, dal mediterraneo intenso di Pollença, nelle Baleari, s’ebbe la notizia della scomparsa, a 88 anni, di Aligi Sassu, il mio pensiero mi accompagnò, senza indugio, alla figura di Francesco Carbone scomparso da appena un anno. Da tale immagine fui consegnato, quasi per un rimando automatico, lungo la palermitana Via Notarbartolo, proprio al crocevia con il viale della Libertà, alle spalle di Villa Zito, e in un tempo preciso: il 1966. Dalla via dedicata al marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, il cui assassinio aveva sancito (lo sottolinea Geno Pampaloni per il libro Il Cigno di Sebastiano Vassalli), il concretarsi della «storia di una Sicilia di cent’anni fa. E sembra storia d’oggi», il mio pensiero non poteva, ancora una volta, non correre con il medesimo automatismo a Renato Composto. L’allora preside del mio liceo, l’Umberto I, studioso del Risorgimento, aveva pubblicato, un decennio prima, presso Guanda (nella piccola e nutrita collana “Falena”), il ritratto lirico di questo devastato topos urbano. Dal ventaglio linguistico di tale breve testo si legge, con quella disposizione gentile e severa con cui conservo, assieme alla plaquette, l’elegante figura di Composto (anche per quel suo privilegio verso i colori autunnali), come nel: «verde orlo delle case, al sonno / lungo indugianti, m’era un’evasione / il sentore degli orti suburbani. / Oltre la via restava ogni memoria: / e l’aule chiuse e la scandita vita / d’ora in ora in un suono di campana / e la città d’un subito distante, / perduta alla sua fretta. Qui il grido del postino, nel riverbero / d’un sole da paese, era uno strappo / improvviso e già chiuso; / qui il ciclista indugiava sui pedali. Mi s’apriva un timore di due vite / a contrasto: anche i treni che tagliavano rapidi il tuo corso / accennavano ad ore irrevocabili …».
   Profumi di orti, dunque, vi affiorano tra i sempre più rari profili delle ville liberty e lo sbuffare d’un treno in corsa verso Trapani, e, soprattutto, quell’intensità ancora residua di silenzi così necessari, così sentimentalmente vividi, purtroppo soppressi. Ma già, quando Composto scriveva questi versi agli inizi degli anni Cinquanta, la città era stata ineluttabilmente avviata verso un’ulteriore brutale trasformazione: espansione, superfetazione di quel sacco edilizio del decennio precedente che, con la complicità di tutti, stravolgeva ancora una volta il disegno di Palermo. In quel crocevia era presente uno spazio commerciale ed espositivo di arredamento e design. Era “Il Quadrante”, luogo, forse, del mio primo incontro con Francesco Carbone, che poi rividi nel 1967 al centro d’arte ‘Il Quadrifoglio”, in cui stemmo insieme per una personale di Salvatore Bonura (Sabo) a discutere di Hiroshima: un volto, un olio su cartone, tracciato dall’onirica naïveté di quest’artista enigmatico e solitario. La lettera ‘Q’ sembra, dunque, essere stata adeguato medium per la nostra futura quanto misurata amicizia. Tra quei palazzi in costruzione occhieggiava il novello bar “Ciro’s”, gestito da un distinto signore, il cui labbro superiore, ornato da radi baffetti brizzolati, mi aveva permesso di riconoscere, mentre si sorseggiava, prima della nostra conoscenza, un caffè, le sembianze del guizzante segretario della Scuola Media Protonotaro al Càssaro (lì vi frequentai la ‘Sezione I’), il cui portone d’ingresso guardava la perenne voragine procurata da una bomba del secondo conflitto mondiale.
   Al “Quadrante” era stato organizzato un dibattito con Aligi Sassu, uno degli artefici di “Corrente”. Salvatore Quasimodo ricordava nel suo intervento scritto che aveva «incontrato Aligi Sassu per la prima volta, a Milano, nel 1937. Era il periodo di preparazione della Rivista «Corrente», cioè quella della lotta – non proprio sotterranea – più impegnata contro il regime fascista e la sua politica culturale. Un tempo molto complesso per la pittura e la letteratura italiana. Per la pittura, le prove di Guttuso, Sassu, Birolli, Migneco e altri sono oggi ferme nella storia dell’arte figurativa europea». Sassu però mi deluse: un omino tarchiato, calvo, fornito d’una espressone bonaria, direi larvatamente felice; mi aspettavo, forse, un volto più ‘esistenziale’, in virtù del suo rapporto con lo storico Gruppo votato all’impegno civile e che in Milano trovava piena sostanza, almeno per me, nel romanzo di Vittorini Uomini e no, letto proprio in quegli anni e cadenzato dall’indimenticato protagonista Enne 2. Invece mi trovai di fronte un artista dall’aspetto borghese, soddisfatto, proiettato alla confezione di ‘prodotti d’arte’, anche se i suoi Uomini rossi, o i Pugilatori o I Minatori, più che le sterminate serie di ‘cavalli’ amati, ad oggi, dal suo epidermico collezionismo, mi legavano, e mi legano tutt’ora con forza spontanea.   
   Sassu era a Palermo per una personale allestita nella vicina galleria “La Robinia”, diretta dalla volitiva signora Piazza: Aligi Sassu. Dipinti dal 1927 al 1966, con testi di Vittorio Fagone e Salvatore Quasimodo. Di certo amavo anche i suoi Caffè, quei «tavolini circolari, i volti obliqui e gli smorti languori di donne, le passeggiate rovinose lungo i viali» che, sempre a dire di Quasimodo, «non sono la facoltà decadente di distruggere creando, l’analisi intima di un genio malato che trova nel divenire eracliteo un presentimento e una ragione per delle “Esecuzioni” quotidiane».   
   Di lì a poco, nel 1968, Francesco Carbone avrebbe mostrato con «Presenzasud», il numero unico edito dall’omonimo Centro di Ricerche Estetiche e dalla libreria “Nuova Presenza” di Bartolomeo Manno, il ‘soffio vitale’, come scriveva Nicolò D’Alessandro, della sua ‘informalità’, sia nella qualità di gemma creativa sia quale canone estetico in quel suo procedimento critico votato alla «necessità della ricerca e dell’esperimento».
   L’incontro con Sassu del 1966 divenne, per la presenza di Francesco, uno scontro. Scontro da me timidamente registrato come ‘quotidiana esecuzione’ del critico nei confronti di un Maestro il quale, insensibile ai progetti delle neoavanguardie (Palermo, ricordo, aveva ospitato, all’Hotel Zagarella di Solunto, le combattive dinamiche del “Gruppo 63”: da Giuliani a Balestrini a Sanguineti), sembrava non confermare l’essere stato elemento non indifferente nel ‘Gruppo di Corrente’ e della Rivista del giovanissimo Treccani. Così per Carbone apparve inspiegabile come Sassu non percepisse, lui per altro figlio d’uno dei fondatori del Partito Socialista a Sassari, le contemporanee urgenti istanze politico-sociali, culturali ed etiche che sarebbero sfociate, di lì a poco, nei movimenti studenteschi del ’68. Il dibattito si offrì alquanto acceso, con un Francesco non privo di un’aggressività alimentata esclusivamente dalla sua fermezza e fierezza ideale; malgrado ciò provai (pur in accordo con Francesco) un’amorfa imprecisata benevolenza per Sassu, una sorta di umana partecipazione per quella palpabile difficoltà distribuita a piene mani dall’artista milanese. 
  Questo fu, sin dal primo contatto, l’amico Francesco: agro e gentile, come l’ho sempre definito nei successivi trent’anni di affettuoso praticantato. La sua asprezza era mossa dal desiderio d’interpretare, con il chiavistello della modernità, memoria e realtà fuor di retorica, e, soprattutto, intuire il futuro delle arti cercando di annodare il seme antropologico alle emergenze di una comunicazione visuale in estesa espansione. Non obliare, comunque e mai, l’umana fabrilità e in tale maniera la sua gentilezza d’animo si alimentava di un altruismo non volontario ma innato.   
   Conservo, tra le tante minuscole e preziose cose, una foto donatami nel 1975 dal poeta Giacomo Giardina (suo, nostro amico; anche lui ci ha lasciato negli anni Novanta), in cui nel retro si legge, con la grafia incerta di Giacomo, “tentata occupazione terre a Marosa” (un feudo di Godrano). Francesco vi è ritratto, contadino tra i contadini, pronto alla battaglia, con uno sguardo intenso e lontano. È lo stesso che ho rivisto, tanti anni dopo, colmo di crescente malinconia, poco prima che si congedasse da tutti noi in quel silenzio discreto che appartenne al suo sconforto, ai suoi ultimi inesausti ardori.

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         Francesco Carbone  e l’officina laboratorio di Busambra

Pina Abbate

     Incontravo Francesco Carbone ad esposizioni di artisti più o meno noti, emanava  una passione visionaria  che coinvolgeva, sapeva animare circuiti dove l’ orgogliosa dignità di  ogni libera forma di espressione , bilanciava un quotidiano spegnersi di affermazione democratica, civile partecipazione, poetica del fare insieme; la sua  vivacità intuitiva, trasmetteva valori come quello di difendere, accrescere, rivendicare, quanto poteva mettere in movimento potenzialità espressive, comunicative, creative, di individui , gruppi, Territorio. Con  semplicità, umiltà, gentilezza, ospitava in quella curiosa fucina di incontri che era  Godranopoli, artisti, poeti, intellettuali, giornalisti, giovani curiosi , bisognosi di scavalcare certe barriere che opprimevano o ostacolavano spazi di immaginazione verso cui Carbone componeva instancabilmente ponti. Un orgoglioso sentimento di appartenenza alla Terra faceva da humus fertile ad esperienze di conoscenza e di identità. Come un vero e proprio “Camminus inizialis” dalla città verso territori di montagna, per un contatto immediato con una sorta di fluida esperienza che connette anima e sentimenti tramite lo Spazio di Busambra , l’officina animata da Carbone si faceva specchio di un mondo ancora vivo e palpitante. Carbone vi trasfondeva operosità, concretezza, costanza, condivisione, un’intraprendenza modesta e sobria rianimava operosità di  artigiani, contadini, tessitrici, falegnami, fabbri,carrettieri;  affascinanti serie di oggetti in apparente casual disordine diceva l’identità di un popolo, l’abilità tecnica, il saper fare robusto e originale; rivivevano suoni di maniscalchi, incudini, martelli, persino arrugginiti chiodi tracciavano la gloria di antiche capriate, delle masserie scomparse restavano segni molteplici , persino i campanacci di mandrie ai pascoli evocavano luoghi di intense attività. Un giorno la funambolica esile figura del poeta pastore Giacomo Giardina esprimeva in brevi versi un tenero attaccamento al selvaggio errare attorno alla Busambra, aprendo l’incanto di magiche luci stellari ad Alpe Cucco; un altro la sorprendente esuberanza di Carbone accoglieva studiosi stranieri cui presentava sogni, simboli, espressioni artistiche di gruppi che a volte non oltrepassavano le vie di provincia, tanto smarrita è a volte l’anima e tanto brucianti sono perdite e sconfitte. Quel museo della memoria, composto grazie a doni ,partecipazione di molti, raccolte collettive, volontà ed impegno di tanti amici di Francesco Carbone, consentiva una sorta di pellegrinaggio per impervie vie del reciproco riconoscersi, nell’arte, la poesia, le infinite forme dell’immaginario. Mentre ad oggetti d’ ogni sorta (dal braciere al ferro per stirare a carbone) era affidato il miracolo della restituzione di luci ed ombre del nostro passato,lo spreco, la vanità, il superfluo, restavano fuori (tra marciapiedi di città, vetrine, mercati) dai variopinti fermenti che evocavano paesaggi, paesi, cammini faticosi  tra miti, epopee della montagna, tracce di storia di questa terra stremata da troppi abbandoni e penosi tradimenti. Grazie a itinerari avviati da Francesco Carbone è possibile oggi ricordare, riflettere, analizzare cesure tra passato e presente, riconoscere quel che ripara identità, interpretare mutamenti, verificare limiti e confini culturali del proprio ambiente e territorio, spiegare quel che nella propria storia ha fallito o generato sviluppo, aiutarsi tutti a partecipare con maggior consapevolezza ad esigenze con cui presente e futuro irrimediabilmente  incalzano per reciproci ascolti, dialoghi, confronti autentici, critici, lucidi.

Giuseppina Abbate 

                       Castelbuono  10 Novembre 2013

 


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