02 febbraio 2014

SUL CINEMA DI SERGIO LEONE


Massimo Raffaeli

Sergio Leone e la politica


Non mancano i buoni studi su uno dei più grandi cineasti del XX secolo, Sergio Leone, e basterebbe riferirsi ai lavori che gli ha dedicato negli anni Oreste De Fornari, alle monografie di Francesco Mininni (Il Castoro 2007) e Marcello Garofalo (Baldini&Castoldi 1999), al memoir di Italo Moscati (Sergio Leone. Quando il cinema era grande, Lindau 2007) e ovviamente alla biografia monumentale, pressoché esaustiva, a firma di Christopher Frayling che in Italia si intitola Danzando con la morte (Il Castoro 2002). Per un maestro così a lungo sottovalutato in vita e anzi sconciato dalle etichette sia del western all’italiana sia di un formalismo proclive all’estetica della violenza, si rendeva però necessario uno studio che ne deducesse la ispirazione politica tanto tenace quanto mantenuta sottotraccia e mai proclamata se non nel corso delle rare interviste dove infatti Leone confessava il sospetto che il cinema esplicitamente “militante” in realtà smentisse tanto il suo linguaggio specifico quanto, soprattutto, la sua vocazione allo spettacolo di massa.
Né va dimenticato che se Leone, da una parte, è l’erede della maniera grande di un John Ford o di un LeRoy (o in Italia un allievo di Carmine Gallone, con cui collaborò in gioventù grazie all’imprimatur di suo padre Vincenzo, in arte Roberto Roberti), dall’altra la sua formazione sarebbe impensabile senza il magistero dei neorealisti e specialmente di Vittorio De Sica, nel cui capolavoro, Ladri di biciclette, il giovanissimo Sergio fa una breve comparsata. Figlio di un metteur en scène del muto a lungo discriminato per antifascismo, cresciuto a Trastevere in una banda di ragazzi degna di Jean Vigo che egli avrebbe voluto far rivivere nel primo film scritto e tuttavia mai girato dal titolo Viale Glorioso, per Leone, nato nel 1929, la politica corrisponde alle passioni e alle speranze, troppo presto tramontate, dell’immediato dopoguerra cui segue la fase del disincanto e via via di una radicale disillusione che coincide con la sua medesima vicenda d’autore, per appena sette film, da Il colosso di Rodi (’61) a C’era una volta in America (’84). E’ dunque propizio il saggio di Christian Uva, Sergio LeoneIl cinema come favola politica (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, “Le Torri”, pp. 220, € 12.90) che, con chiarezza analitica, si divide in tre parti: la prima è un ritratto del regista, la seconda affronta il tema specifico e la terza ne fornisce una concreta esemplificazione esaminando alla moviola alcune sequenze capitali.
Uva muove dall’assunto secondo cui il cinema di Leone, dichiaratamente metalinguistico, nasce nel contesto della postmodernità e in effetti si caratterizza per la contaminazione di “alto” e “basso” e cioè per la costante acquisizione di un genere (prima il peplum, poi il western, l’avventura, infine la gangster story) regolarmente sottoposto a reinvenzione e riscrittura, quando già Lino Miccichè poteva parlare di uno stile raffinatamente “alessandrino”. Scrive Uva: “La coincidentia oppositorum su cui si fonda la produzione leoniana: un cinema autoriale di genere nel quale la peculiare poetica del regista e il suo raffinato stile si radicano in un orizzonte narrativo di stampo popolare”. Quanto a ciò, giova rammentare la sua antica passione per il teatro dei burattini e per il melodramma se, da assistente alla regia di Gallone, si trovò a debuttare nel ’46 proprio con un Rigoletto. In ogni caso, se del postmordernismo Leone condivide il sospetto o il rifiuto preventivo delle grandi narrazioni ideologiche, nondimeno ne ignora la disinvoltura, l’irresponsabilità etica ed il citazionismo che spesso arriva a incorporare i propri modelli. E’ vero che Leone, a proposito delle sue opere, parla volentieri di favole (“favole per adulti”, più precisamente) e di veri e propri miti nell’accezione primordiale ma è vero, altrettanto, che favole e miti per lui prendono corpo non nell’inframondo dell’invenzione disinteressata ma sulla terra dei conflitti interpersonali e storico-sociali: il suo West allucinato è la terra di tutti e di nessuno in cui si affrontano i bounty killer, uomini della frontiera, e i pionieri del capitalismo, mentre l’America del Lower East Side, a sua volta, è la nuova frontiera che divide la sopravvivenza e il piccolo artigianato del crimine dalle arrembanti corporation della criminalità neocapitalista.
Uva sa cogliere il nucleo della ispirazione leoniana nella solitudine, appunto la terra di nessuno, in cui agiscono gli eroi delle sue storie e cioè quello spazio disertato che li lascia fatalmente soli e li spinge alternativamente all’utopia o alla nostalgia: in Noodles, il personaggio su cui si focalizza C’era una volta in America, lo sfregio arrecato a una duplice utopia, insieme dell’amicizia e dell’amore, si riconverte infatti in una nostalgia autopunitiva e in sostanza suicida. E ciò vuol dire, in altri termini, che nel regista romano il socialismo giovanile si è presto incupito e tradotto nella posizione anarchica che individua giusto nella rescissione dei legami sociali lo stato di normalità, la quale è tragica in essenza nonostante in alcuni personaggi (Tuco in Il buono, il brutto e il cattivo, Juan in Giù la testa) essa dia luogo a un comico, un riso eclatante e sarcastico, che suona rabelaisiano prima che chapliniano. Circa il singolare anarchismo di Leone e le relative fonti letterarie, ingenti ma di solito accuratamente dissimulate, Uva avanza con cautela il nome di Ernst Jünger e la figura dell’”anarca” (comunque antipode, nella sua cifra aristocratica e mineralizzata, alla violenza emotiva di Leone) ma forse sottovaluta, menzionandolo lateralmente, il Viaggio al termine della nottedi Louis-Ferdinand Céline e non solo perché risulta fra i progetti più cari a Leone (vedi l’articolo L’univers de Céline, comparso su “Le Figaro” il 5 aprile del 1971, assente nella bibliografia di Uva) ma perché del picaro e anarchico Bardamu come del suo deuteragonista Robinson assumono più di una caratteristica tutte le coppie della filmografia maggiore, da Armonica/Cheyenne in C’era una volta il West a Juan/Sean in Giù la testa e Noodles/Max in C’era una volta in America. Qui viene a taglio la testimonianza di un suo grande sceneggiatore, Luciano Vincenzoni, che nell’autobiografia Pane e Cinema (Gremese 2005) rammenta la propria passione per ilVoyage (e per i céliniani come Kerouac e Bukowski) giurando di averla trasmessa al maestro, dal momento che scrive: “Leone aveva visto la copia sul mio tavolo (quella polverosa e ingiallita). Mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai tutto il mio entusiasmo. Lo lesse e andò in Francia con l’intenzione di realizzarlo. Non è successo, pazienza.”
In realtà, il Voyage è stato girato senza che Sergio Leone lo abbia mai espressamente girato: “Stavo nella mia verità fino in fondo, e poi la mia stessa morte mi seguiva per così dire passo passo. Facevo fatica a pensare ad altro che al mio destino d’assassinato con la condizionale, che tutti d’altronde trovavano assolutamente normale per me”; oppure: “E’ forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare sé stessi prima di morire”. Sono frasi prese a caso dalla versione italiana del Voyage, firmata da Ernesto Ferrero per Corbaccio nel ’92, ma le potrebbe pronunciare, disilluso a morte, il personaggio di Noodles in C’era una volta in America.
[Questo articolo è uscito su «Alias - il manifesto»].

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