09 marzo 2014

I GIGANTI DI PIRANDELLO





Antonio Scavone - I Giganti a teatro

      In una villa alle falde di una montagna vivono gli Scalognati: chi sono? Sono uomini e donne respinti dalla società, vivono di tutto e niente, animati da un ineffabile disincanto e da strambe premonizioni ma vigili e custodi della loro integrità, del loro essere quello che vogliono essere. Il nano Quaquèo, il dispettoso Doccia, l’eccentrico Milordino, la muta e sensuale Maddalena, Mara detta la Scozzese e la fervida Sgricia si affidano al loro capo, al loro demiurgo, il mago Cotrone che si presenta bardato da turco, col fez, perché i cristiani non l’hanno capito. Che fanno questi Scalognati? Aspettano: aspettano che passino i giorni, che si manifestino eventi, che cambi la luna, che desideri e sogni si confondano o che arrivino alla loro villa ospiti, esuli, erranti.
     L’attesa non è vana. Vengono avvistati dei viaggiatori e che viaggiatori! È una compagnia di attori, la Compagnia della Contessa, formata appunto da Ilse, la Contessa, da suo marito il Conte, Diamante la seconda donna, Spizzi l’attor giovane, Battaglia il generico ambiguo, Sacerdote, Cromo il caratterista e Lumachi che tira il carretto dove sta riposando la Contessa per le fatiche del viaggio.
     Questo lo scenario e questi i personaggi del dramma “I Giganti della montagna” che Pirandello scrisse nel 1933 e che lasciò incompiuto. La storia di questo dramma ha affascinato generazioni di attori e registi, di critici e spettatori. È una storia tipicamente pirandelliana, di una modernità eccitante, di una complessità talora esasperante.
     Gli attori della Compagnia della Contessa sono gli scavalcamontagne di sempre: rissosi e polemici (Cromo), petulanti e bizzosi (Diamante, Battaglia), servili e accorati (Lumachi, Spizzi), delusi e immalinconiti (il Conte). Vagabondi come vuole la tradizione, non hanno trovato un teatro che abbia potuto o voluto accoglierli per rappresentare il loro cavallo di battaglia: La favola del figlio cambiato, che racconta appunto il rapimento e la sostituzione di un bambino nella culla accanto alla madre appisolata.
     Teatro nel teatro, si dirà, citando la struttura fondante della drammaturgia pirandelliana ma ne I Giganti della montagna – diversamente dai Sei personaggi in cerca d’autore – la specularità o la doppiezza del teatro, per così dire “dal vivo”, non si esaurisce nello sconcerto provocato da personaggi che chiedono di vivere e concludere la loro particolarissima vicenda “esistenziale”. Gli attori della Contessa chiedono di recitare, molto più semplicemente, di rappresentare quella storia che sta molto a cuore al loro capocomico, la Contessa Ilse. Questa storia era stata scritta da un poeta che si era innamorato della Contessa e voleva possederla ma Ilse, pur apprezzando moltissimo quella favola, si negò: per questo rifiuto il poeta si uccise e Ilse si impegnò a recitare la storia come doverosa e tardiva ricompensa per quell’amore incompiuto, per quell’amante respinto.
     Tuttavia, la storia che Ilse propone alla sua compagnia, a dir la verità, non convince gli attori o non riscuote quel fervore che Ilse si aspettava: la giudicano esagerata, personalistica, di una mal riposta teatralità. Oltre tutto, la compagnia versa in precarie condizioni di sostentamento: nessun teatro disponibile, nessuna paga, nessuna pubblicità. Raminghi, affamati, alla ricerca di un alloggio degno e confortevole, questi attori sono puttosto patetici per le loro sciagure e le loro fisime artistiche ma sono costretti ad accettare l’ospitalità di Cotrone e dei suoi Scaloganti, anche se non riescono a capire, giustificare o avallare il tipo di esistenza che conducono quegli strani “personaggi”.
     Forse, però, non c’è niente da capire nella villa degli Scalognati: vivono di prodigi del mago Cotrone, di ricordi o memorie perdute nel tempo, di qualcosa che sta tra la realtà e l’immaginazione, tra la fantasia e lo smarrimento eppure vivono, parlano, confortano, rievocano, alludono, con uno stile e dei toni indefinibili e sfuggenti, alla possibilità di riconoscersi tutti in quello che sono o che potrebbero, facilmente, essere.
     Forse per questo gli attori li considerano, più o meno, a loro prossimi se non simili, gli Scalognati, e tentano di propiziarseli, di usarli come spettatori, di far loro intendere la drammaticità di una favola che non riescono a rappresentare. Ma Cotrone il mago è esplicito con garbo e maniera: potranno alloggiarli – la villa ha molte stanze – ma non avranno bisogno di assistere allo spettacolo giacché, di solito, sono gli Scalognati che fanno spettacoli, sono loro che dànno vita a creature inanimate evocate in vita per realizzare un prodigio tra ciò che la poesia non è più in grado di offrire e ciò che gli uomini affidano alla poesia, una capricciosa e stravagante mania di grandezza.
     In un intermezzo, puntualmente magico, prendono vita i fantocci che rappresentano abitualmente i desideri e le paure, le voglie e i mancamenti e saranno creature con la testa di uccello e il tronco di uomini, marinai e ballerine di carillon che si attirano in un gioco sensuale, manichini e saltimbanchi posseduti da conturbanti passionalità. È l’epifania di un’alterità, di una dimensione onirica che si fa veglia, in una sarabanda coinvolgente che chiede solo di essere vista, partecipata, goduta con il candore di un bambino o di un mendicante. E con i fantocci e i fantasmi evocati interagiranno gli Scalognati: raccontando le loro esperienze messianiche della sopravvissuta Sgricia (l’incontro con l’Angelo Centuno), lasciando che Spizzi – o un suo compresente alter ego – rappresenti il poeta che si uccise, morendo al posto del poeta per una compensazione solidale e tragica, amorosa e teatrale.
     Cosa c’è dietro queste “enormità mitologiche” o queste “arie favolose”, come le chiama Cotrone? Allo sgomento e al raccapriccio degli attori, Cotrone risponde che la verità esiste “solo quando la si inventa”, che non esiste una verità “di per sé” e che gli Scalognati non hanno bisogno di confrontarsi con una traccia immodificabile (in questo caso, un copione) e con dei referenti immutabili (in questo caso, personaggi da teatro).
     Se i fantasmi e i prodigi possono sostituire la vita reale reinventandola, potranno anche capovolere e sconvolgere la “poesia scritta” ma non si tratta di riscrivere in altro modo e per altri intenti quanto è stato scritto da altri, ma di ricostruire un’invenzione, di presentare una sacralità (tanto della poesia quanto della vita) che sgorga da sé, senza infingimenti o calcoli, intenzioni o vanità.
     È duro questo distinguo o quest’artificio. Sembra quasi un ripensamento strutturale che Pirandello lasciò sospeso sulla sua poetica, una virata di bordo per mari mai navigati, una dilatazione della teatralità convenzionale, operata sdegnosamente con gli stilemi dell’inautenticità e della crudeltà. (Inautenticità, assurdo, crudeltà: termini e moduli che ritroveremo compiuti nelle drammaturgie della seconda parte del Novecento).
     Il linguaggio del dramma è quello solito di Pirandello: ricco, forbito, immaginifico quando occorre, immediato quando meno te l’aspetti. Ilse parla ossessionata dai rimorsi (di non aver aderito alle proposte del poeta, di non aver tradito il marito); Cromo è sarcastico nel denunciare pubblicamente le miserie artistiche e umane della compagnia; Spizzi si premura di difendere Ilse dalla meschinità dei suoi colleghi; Battaglia e Diamante non sanno come reagire all’insensatezza della situazione e sperano nella solidarietà degli Scalognati. Su tutti e su tutto il mago Cotrone spiega, rassicura, rintuzza dubbi e provocazioni e, come un deus ex machina, organizza una vita d’uscita, un’ultima occasione agli attori della compagnia, dopo aver verificato che le magie approntate non avevano arrecato alcun beneficio agli animi piuttosto aridi di quei teatranti, nella ricerca esasperata di una supremazia artistica e di una gloria individuale.
     Qual era, allora, il distinguo o l’artificio proposto o perpetrato da Pirandello in questo dramma?
     È sicuramente un’insidia, quella orchestrata da Pirandello. Il drammaturgo non crede più nella capacità salvifica dei teatranti, o del teatro come veniva considerato alla fine degli anni ’30. In quegli anni non si vivevano certo atmosfere concilianti ed esaltanti per i popoli europei sotto le dittature totalitarie. L’adesione opportunistica di Pirandello al regime fascista o alle sue istituzioni “culturali” (come per tanti altri poeti e scrittori) non gli fece perdere, a onor del vero, il senso della realtà o di quella realtà (quindi anche della sua personale). Premiato col Nobel, accademico d’Italia, Pirandello esplorò con acuta e sofferta profondità non solo il cambiamento della società ma, forse di più, il mutarsi della condizione umana, in una disamina che teneva conto della varietà e della variabilità delle coscienze in lotta con un sussulto di consapevolezza. Non difende più i suoi attori, non ne giustifica gli orgogli infondati e li presenta per quelli che sono: non più “maschere nude” ma simulacri fatui di una vanità ormai frusta, capaci solo di reiterare stancamente il loro velleitario repertorio di sdoppiamenti senza sbocchi, senza soluzioni.
     Potrebbero riscattarsi gli attori della Contessa, come potrebbero farlo tutti quelli (uomini e donne) che vivono fittiziamente al di là o al di sopra della realtà, ma dovrebbero tutti – attori e spettatori, interpreti e comparse – ricomporre il loro sistema di percezione dell’esistenza, dovrebbero ri-conoscersi in qualcos’altro (o semplicemente “trovarsi”, come in un’altra pièce famosa). Quel qualcos’altro potrebbe essere il mondo di cui parla Cotrone, il mondo che fa vivere gli Scalognati ma è arduo passare da una vita recitata ad una vita che non si sa dove e come sia iniziata, come e perché sia perseguita. Gli Scalognati non offrono garanzie o premi, possono impersonare figure probabili o esistenze incerte o anche tragedie e silenzi ma, per rendere tutto ciò fruibile e godibile, occorre dar fondo alle proprie idealità trascurate, alla capacità di ognuno di proiettarsi altrove, finanche nei sogni. Cotrone ammonisce che “ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni”.
     Il pessimismo di Pirandello si fa strada, dovremmo dire, teneramente: non si può e non si deve venir meno alla compiutezza del teatro (e della propria coscienza) se si baratta la rappresentazione drammatica con l’esercizio di una ridondante falsificazione del reale. Bisogna scegliere e scegliersi. Cotrone propone alla compagnia di Ilse di rappresentare la loro favola ai giganti che vivono sulla montagna alle loro spalle. Sono chiamati “giganti”, spiega Cotrone, non perché siano grandi e grossi ma perché hanno costruito case e fabbriche, hanno creato attività produttive e commerci, sono diventati padroni indiscussi e hanno fondato, con la loro rozzezza, un mondo a parte, pratico, ricco e seducente.
     La Compagnia della Contessa accetta la proposta e si prepara a rappresentare il loro spettacolo a questa platea che sembra esigente e inconsueta. Boati e rumori sinistri annunciano l’arrivo bestiale dei “Giganti” e tutto si compie. Insofferenti alle arti e all’espressività, alla poesia e alla libertà, i Giganti della montagna uccidono e sterminano Ilse e i suoi attori, eliminandoli dalla vita e dal teatro. Il dramma si è realizzato, resta solo il buio della dissoluzione e, come spesso accade nelle sue opere, Pirandello non dà speranze. A distanza di anni, “I Giganti della montagna” potrebbero apparire come l’esito manicheo di una controversa e incompleta illuminazione del drammaturgo, una revisione in qualche modo mistificatoria del fare teatro. A distanza di anni, tuttavia, il messaggio dei “Giganti” è ancora tristemente attuale e tristemente insoluto.

Testo già pubblicato da http://rebstein.wordpress.com/2014/03/09/i-giganti-a-teatro/
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     Di questo dramma esistono infinite edizioni ma, fra le tante, va ricordata quella del “Piccolo” di Milano del 1995 per la regìa di Giorgio Strehler con Andrea Jonasson (Ilse), Giancarlo Dettori (il Conte), Lino Troisi (Cromo) e Franco Graziosi (Cotrone).

      Per la sua grandiosità scenica l’allestimento più suggestivo fu quello delle “Panatenee” del 1989 per la regìa di Mauro Bolognini con Irene Papas (Ilse), Luigi Pistilli (il Conte), Flavio Bucci (Cotrone) e Giustino Durano (Cromo). Tutt’e due impagabili, la seconda imperdibile. Queste due edizioni sono reperibili nella collana DVD “A teatro con Pirandello”,  Rai Trade e Fabbri Editori.
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