02 maggio 2014

LA PRIMA STRAGE DI STATO DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Disegno di Gaetano Porcasi


A 67 anni dal massacro di Portella della Ginestra un grande giornalista intervista l'ultimo sopravvissuto della banda Giuliano e conferma che si trattò di una strage di Stato, la prima di una lunga serie destinata a insanguinare l'Italia fino agli anni '90.
Francesco La Licata

Portella della Ginestra
«Hanno sempre parlato di un bambino che era una specie di beniamino di Salvatore Giuliano e della sua banda, ma nessuno mai è riuscito a sapere chi fosse e che fine avesse fatto. Si è detto di una piccola vedetta che andava e veniva su e giù per le montagne, andava in paese, a Borgetto, a procurare il pane, i viveri, il tabacco trinciato per fare le sigarette e tornava - sempre correndo - per consegnarli ai banditi che si nascondevano tra quelle rocce.

Ecco, sono passati quasi settant’anni, un secolo che mi porto dentro questo segreto. Ma adesso voglio dirlo: quel bambino ero io. Ho conosciuto bene Giuliano, Turiddu, e quasi tutti i suoi uomini. Conosco la loro storia, che è diversa da quella raccontata dai giornali e dai libri. Sono stato per tanto tempo vincolato al segreto perché lo avevo promesso a mio zio e, in punto di morte, a mio padre, che mi fece giurare di non parlare prima che fossero passati cinquant’anni. Ora posso sciogliere quel giuramento e parlare di quella che per me fu anche una straordinaria avventura. Io, il piccolo Giacomino, ho vissuto a fianco di Turiddu: dal 1942 fino alla sua morte».

Giacomino oggi è un uomo vicino agli ottanta che non vive più in Sicilia da diverso tempo. La sagoma, però, e l’inflessione sono rimasti quelli impressi col fuoco della Sicilia più cupa, aspra come le montagne di Sagana, Partinico, Montelepre e Piana degli Albanesi. Ha una faccia scolpita e gli occhi ardenti e mobili, Giacomo B. quando racconta fa una gara con le parole, come se temesse di perderle nel pozzo della sua memoria che sembra prodigiosa e incredibilmente ricca.



Non rivela il cognome non perché abbia qualche timore, ma soltanto per riguardo ai parenti che abitano ancora in Sicilia. Il suo racconto è meticoloso, forse potrà non essere condiviso da chi ha codificato una storia diversa, ma tuttavia rimane una preziosa testimonianza. La «verità» di un teste oculare che non ricorre a cautele politiche o storiche, perché non sa cosa siano. Un racconto che comincia nel 1942, quando il bambino Giacomo trascorre la propria esistenza tra le campagne di Borgetto (paesone tra Partinico e San Giuseppe Jato, nel Palermitano), all’aria aperta con le pecore e le mucche, all’ombra di un vecchio cimelio nobiliare chiamato Palazzo Ramo, dal nome degli antichi proprietari, dove abitava con la famiglia .

«La fama di Giuliano – attacca Giacomo – era già esplosa con la sparatoria che aveva avuto coi carabinieri che gli volevano sequestrare il grano preso al mercato nero. Mio padre e mio zio erano molto rispettati in quella zona e Palazzo Ramo era una specie di zona franca per tutti. Lo diventò anche per Turiddu, che intanto aveva formato la sua banda. C’era l’acqua, c’era la possibilità di rinfrescarsi e riposare e quindi spesso lo vedevo arrivare e parlare con mio padre».

Si intuisce che Giacomo nutre (ancora oggi) una vera passione per Giuliano e lo ricorda come una specie di difensore dei poveri: «Gli ho sentito dire che bisognava finirla di “calare” sempre la testa, non sopportava di vedere la gente scalza e morta di fame e così cominciò a usare i soldi che gli arrivavano dai suoi “colpi” per comprare il pane e distribuirlo a chi non aveva niente. Mi ricordo che diede dei soldi a un certo Peppino Panettini perché ordinasse a mastro Paolino Migliore, artigiano calzolaio, una certa quantità di scarpe da dare a chi aveva bisogno. Giuliano andava in giro con le tasche piene di fichi secchi e li offriva a grandi e bambini che non avevano da mangiare. Io così me lo ricordo».

Il ritratto di Giuliano-Robin Hood coincide con una certa tradizione popolare, almeno per quel che riguarda l’inizio della sua storia. Bandito sì, ma amato. Persino dalle suore dell’Ospedale Gesù Bambino di Palermo, che furono ospiti, sfollate a Palazzo Ramo per quasi due anni, fra il ’42 e il ’44, lontano dai bombardamenti palermitani. «La superiora – rammenta Giacomo – stava ore a parlare con mio padre, poi mi ricordo suor Valentina e suor Carlotta. Giuliano non si nascondeva da loro e quando fu ferito in uno scontro a fuoco coi carabinieri fu salvato proprio da madre Valentina, che gli fece una puntura, senza la quale Turiddu sarebbe morto. La riconoscenza di Giuliano durò per sempre: finanziò il restauro della chiesa di Palazzo Ramo e, anche dopo il ’44, continuò a mandare il frumento alle suore». Certo, il bandito aveva i suoi metodi e così, quando qualcuno cercava di imporre l’acquisto del grano a prezzo di contrabbando, Turiddu non esitava a «convincerlo» a praticare il prezzo di mercato, molto più basso. I sequestri dei «padroni del grano», dunque, cominciarono a proliferare in tutta la zona.



E Giuliano, a sentire Giacomo, entrò in confidenza anche coi soldati americani, quando arrivarono da Licata, dopo lo sbarco. «Io andavo a prendere acqua, ogni giorno, presso una sorgente. Una volta vi trovai un soldato che mi diede una borraccia e mi fece segno di riempirla. Poi a gesti e a sillabe mi chiese se conoscevo Giuliano. Mi dava fiducia quel soldato e così gli dissi che lo conoscevo a sapevo dove trovarlo. Alla fine si incontrarono a Palazzo Ramo e Giuliano comprò pure delle armi. Da lì passarono pure altri personaggi: venne il giornalista Stern (che era una spia, ma Giacomo non lo sa, ndr) e pure una bella signora che restò a lungo ospite (si tratterebbe di Maria Lamby Karintelka, anch’essa spia, che intervistò il bandito con lo pseudonimo di Maria Cyliacus) e venne più d’una volta l’Alto commissario Ciro Verdiani.

Giacomo avrebbe altri episodi da includere nell’epopea (per esempio, quando Giuliano curò un carabiniere che aveva ferito e quello gli chiese un ricordo da conservare, Turiddu gli regalò un coltellino e iniziò un’amicizia) e non è facile frenarlo. Ci riusciamo ricorrendo ai «problemi di spazio». Ma si riaccende quando si passa agli argomenti più «seri»: la strage di Portella della Ginestra (oggi sono 67 anni) e il mistero della morte di Giuliano. Anche qui, Giacomo parla per testimonianza diretta e per aver ascoltato i racconti del padre e dello zio.

«Giuliano fu tradito dai suoi stessi uomini. Fu tradito – scandisce Giacomo – da Giuseppe Passatempo che sparò a Portella su mandato della mafia, della politica, con la complicità dei carabinieri, che addirittura fornirono armi agli assalitori». La politica? «In particolare i separatisti. Turiddu era stato agganciato nel 1944 da Finocchiaro Aprile che venne, accompagnato da un altro, a Palazzo Ramo. Giuliano non c’era e mio padre li mandò dalla madre. Ma lei non si fidò e disse loro di lasciare un biglietto che avrebbe fatto avere al figlio. Finocchiaro Aprile scrisse un indirizzo di Palermo, dove si potevano incontrare, e specificò le modalità di riconoscimento. Turiddu conosceva Finocchiaro Aprile e sapeva chi era e cosa faceva. Andò a Palermo travestito da postino, accompagnato da Gaspare Pisciotta e Giuseppe Passatempo. Parlò a lungo con il padrone di casa e da allora ebbero un rapporto continuo».



Ma torniamo a Portella. Riprende, Giacomo: «Per l’operazione di Portella furono investiti 80 milioni di allora, molti dei quali andarono alla mafia. Il capo della congiura era il boss don Calò Vizzini, che con Giuliano aveva avuto più di qualche scontro. Accanto a lui la mafia di Monreale, Nitto Minasola e gli amici di Domenico Albano, orientati dai carabinieri. Contrario a questo schieramento c’era il boss di Partinico e Borgetto don Gioacchino D’Arrigo che stimava molto mio padre e mio zio».

Ma come fu portata avanti la congiura? «Giuliano – è la risposta – aveva ordinato a Passatempo di andare a Portella solo coi fucili. Invece spararono i mitragliatori che colpirono anche dall’alto della montagna». Questa la «verità» di Giacomo, che – bisogna dirlo – confligge con tutta la storiografia prodotta sul tema: non ha mai convinto la tesi che a Portella il bandito volesse soltanto spaventare i contadini in festa. «Il fatto è – insiste il nostro – che quella mattina, nascosti in un furgoncino, arrivarono sei mitragliatori che furono assegnati ad altrettanti mafiosi. Ci fu un testimone che li vide: un ragazzo che andava in bicicletta ed era stato sorpassato dal camioncino. Io ho sentito con le mie orecchie che le mitragliatrici erano state procurate dai carabinieri e a loro erano state riconsegnate dopo la sparatoria».

E Giuliano seppe questa storia? «Certo che l’ha saputo. Arrivò anche a parlare col ragazzo della bicicletta. Seppe i nomi dei sei mafiosi, ricordo che due erano di Piana degli Albanesi, due di San Giuseppe Jato e due di un paese che non so più bene. Lui li voleva rapire per farli parlare, ma il progetto non era fattibile. Quei nomi, comunque, li scrisse nel suo libretto (sarebbe il terzo memoriale di Giuliano, mai ritrovato, ndr) insieme con tutta la verità su Portella). Lui, Turiddu, avrebbe voluto uccidere Domenico Albano, che faceva il doppio gioco con quelli di Monreale, ma fu dissuaso da don Gioacchino D’Arrigo. Il 4 maggio, verso le 18, ci fu una riunione nella masseria messa a disposizione da Vito D’Amico. Io aprii perché solo io sapevo dove stavano le chiavi. Don Gioacchino lesse il giornale con la notizia di Portella e commentò: “Questo è troppo”. Pisciotta gridava e ripeteva: “Ci hanno preso in giro” e si riferiva ai politici. Giuliano, mi ha raccontato mio padre prima di morire, propose la vendetta verso Albano, ma don Gioacchino disse che le cose potevano aggravarsi ed era meglio soprassedere».

Ma chi ha certezza del tradimento di Passatempo? «Giuliano, dopo la strage, lo convocò e lo legò ad un albero. Due giorni dopo, prese il giornale e andò ad affrontarlo dicendogli: “A chi hai fatto questo favore?” Quello rispose: “All’amico tuo”, riferendosi a don Calò Vizzini».



Ovviamente, l’inconfessabile verità sulla strage di Portella sta, secondo Giacomo, alla base della morte di Salvatore Giuliano: «Che non fu ucciso a Castelvetrano, lo sanno tutti. Fu ucciso a Monreale, a villa Carolina. A Giuliano lo cercavano tutti ma per modo di dire, perché lui aveva rapporti persino con Ciro Verdiani, il capo dei poliziotti. Grazie a lui era riuscito a far scarcerare i suoi genitori.

Il 3 luglio del 1950 gli tesero la trappola: l’ho visto io, a Borgetto, parlare con Domenico Albano, poi andò dalla madre che gli consigliò di dirigersi verso Castelvetrano e non a Monreale, perché tutti quelli che c’erano andati non erano più tornati. Pisciotta era già a Monreale. Giuliano partì da Borgetto con un amico che lo accompagnò in taxi, giunse a Monreale e disse a Pisciotta: “Che stai combinando?”. Turiddu sarebbe dovuto tornare a Borgetto e invece morì lì, a villa Carolina (poi la messinscena dei carabinieri a Castelvetrano nel baglio dell’”avvocaticchio” Gregorio Di Maria e il finto scontro a fuoco, ndr). Mio padre e mio zio mi hanno raccontato che Giuliano fu addormentato con un potente sonnifero datogli da Pisciotta che lo aveva avuto dai carabinieri, durante una sosta nella caserma di corso Calatafimi, a Palermo». Il resto è più o meno noto. Ora Giacomo dice di sentirsi meglio, anche se di storie da raccontare ne ha ancora tantissime.
La Stampa – 1 maggio 2014

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