03 maggio 2014

PICCOLA PATRIA AL CINEMA




Cinema. In sala il bell’esordio di Alessandro Rossetto, racconto attuale del nordest nelle sue contraddizioni. Una geografia emozionale dei luoghi e dei corpi che li attraversano.
Cristina Piccino

I confini della Piccola Patria


Lasciamo da parte per ora quello che Ales­san­dro Ros­setto, un po’ scher­zo­sa­mente, chiama il «fat­tore D». Ovvero il docu­men­ta­rio con cui si è alle­nato all’immagine «totale» — è uno dei pochi regi­sti ita­liani che sta anche in mac­china — riu­scendo a sca­vare tra le crepe sot­tili dei males­seri evi­denti nel nostro paese. Senza enfasi, anzi quasi sot­to­tono, per met­tere al cen­tro le sfu­ma­ture più che le cesure vio­lente, il rito quo­ti­diano più che i grandi eventi, quelle cose ordi­na­rie ma indi­spen­sa­bili per non arri­vare stu­pe­fatti di fronte alle grandi esplo­sioni.

Il suo punto d’osservazione è il nor­dest, luo­ghi che cono­sce bene, lui pado­vano emi­grato a Bolo­gna, Parigi e Roma, vi è sem­pre tor­nato (o quasi) nei suoi film — da Bye Bye One (99) a Chiu­sura (2002) — che ce ne rac­con­tano l’anima invi­si­bile, la «pan­cia» di oggi e di ieri a volte peri­co­lo­sa­mente vicine.

Pic­cola patria — in sala e in tour ita­liano, non lo per­dete è tra i migliori film dell’anno — ci porta di nuovo lì, in un nor­dest dai con­fini incerti e dai malu­mori stru­men­tal­mente fissi in cui si agi­tano i furori sepa­ra­ti­sti del Veneto insi­nuanti e dif­fusi più di quanto non dica l’attualità di que­sti giorni. Siamo in una zona di con­fine dove cam­pa­gna e città coz­zano senza entrare l’una nell’altra. Un hotel con piscina, un maneg­gio, capan­noni, casali agri­coli lasciati in abban­dono, le strade diritte che tagliano l’orizzonte senza fuga.

Qui vivono due ragazze, Luisa e Renata a cui danno vita Maria Rove­ran e Roberta Da Sol­ler. E apriamo una paren­tesi: sono bra­vis­sime, Maria Rove­ran è anche musi­ci­sta, è lei che ha com­po­sto e che inter­preta alcune delle can­zoni del film, rivi­si­tando anche i cori di ispi­ra­zione popo­lare. Reci­tano in dia­letto, coi per­so­naggi fanno vivere un corpo a corpo pieno di suspense e di verità.

Lo stesso vale per gli altri attori, da Lucia Mascino nel ruolo di mamma molto o troppo poco «imper­fetta», a Vla­di­mir Doda e Diego Ribon, che Ros­setto accom­pa­gna in un movi­mento d’improvvisazione sem­pre con­trol­lata. Così come la sua regia che cerca di far affio­rare un sen­ti­mento sco­stante, e un approc­cio fisico alle zone d’ombra, spiaz­zando e la sce­neg­gia­tura (scritta dal regi­sta insieme a Cate­rina Serra e Mau­ri­zio Braucci). O meglio con­tro l’idea che uccide molto cinema ita­liano secondo cui il film deve esserne più o meno l’illustrazione.

Cosa accade allora in que­gli spazi geo­me­trici resi quasi immoti dalla calura estiva? Uno scon­tro tra ado­le­scenti, le due ragazze e il loro amico alba­nese, e gli adulti come la madre di Luisa che le grida die­tro: «Ma giri sem­pre in mutande» cri­ti­cando le gambe al vento della figlia. O il padre con pistola e peri­co­lose attra­zioni sepa­ra­ti­ste, o il tipo che sbava die­tro a entrambe (Ribon), tutti chiusi in sogni e scon­fitte che li hanno resi agri, raz­zi­sti, pieni di ran­cori a cui è facile dare fuoco.

Le ragazze lavo­rano nell’hotel brutto ma con piscina, Renata, che di Luisa è pos­ses­si­va­mente gelosa e quasi amante, ha messo in piedi un ricatto a uno degli uomini del paese, con cui ha avuto una rela­zione. Foto e fil­mini ero­tici che le ragazze minac­ciano di fare vedere in giro, coi soldi le due vogliono scap­pare via da quel buco. Però suc­cede che Luisa si inna­mora del ragazzo alba­nese «uti­liz­zato» per il ricatto, e dei soldi non le importa nulla …

Meschi­nità gelo­sie, silenzi, chiac­chiere e pet­te­go­lezzi cat­tivi, il gusto amaro di una rab­bia sorda, cre­scono fino a diven­tare incon­te­ni­bili. La «realtà», certo, e le sue epi­fa­nie improv­vise come il comi­zio di Gian­luca Busato, teo­rico del movi­mento indi­pen­den­ti­sta veneto. O la festa coun­try di vino e malin­co­nia. E soprat­tutto i luo­ghi, pro­ta­go­ni­sti in sé come se nell’aria ferma di caldo e umi­dità que­gli umori cat­tivi vi si con­den­sas­sero prima che nel cuore.


Il Manifesto – 11 aprile 2014

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