06 giugno 2014

SULLA MIGRAZIONE ITALIANA NELLE AMERICHE






Il buon ladro e la migrazione italiana nelle Americhe

di Gabriele Santoro

Albert Camus, incuriosito dalle cronache giornalistiche, volle incontrare quel recidivo irrecuperabile in carcere. Il tempo di un’intervista che narrò per prima la vicenda di un emigrante italiano, figlio di una miseria antica. Gino Amleto Meneghetti, classe 1878, si congedò dall’ospite inatteso con una richiesta: «Un buon sigarillo sarebbe sufficiente. Nient’altro, grazie». Beppe, il nonno pescatore, con la dignità propria dei poveri provò fin dall’infanzia a tirarlo fuori dai guai. «All’ingiustizia sociale non si reagisce rubando», gli diceva. Il nipote cercava la giustizia, ma trovò sempre la legge.
Nel decennio successivo all’unificazione due italiani su tre non disponevano della quantità di calorie necessarie a vivere in salute. Solo il 26% era alfabetizzato. Tra il 1861 e il 1915 trentanove milioni di europei, un quinto del totale era italiano, raggiunsero le Americhe, sognando le terre dell’abbondanza. Il governo italiano riconobbe ufficialmente l’emigrazione solo il 28 aprile del 1876, sottraendo il fenomeno alla clandestinità. La prima globalizzazione, quanto il precario equilibrio nel Vecchio continente tra economia e demografia, pose le fondamenta di un’emigrazione proletaria di massa. Se nel 1867 occorrevano in media quarantaquattro giorni per raggiungere gli Stati Uniti, nel 1880 ne bastavano dieci. La navigazione a vapore: una rivoluzione per la mobilità intercontinentale; ma in terza classe si viaggiava parecchio stretti. E all’arrivo sovente si piangevano figli, mogli o amici morti durante la traversata oceanica. «Noi lavoratori/Allegri andiamo nel Brasile/E voialtri d’Italia signori/Lavorate il vostro badile»; cantavano i braccianti veneti, benedetti dai preti di paese, prima di raggiungere il porto di Genova e smarrirsi nei numeri della massa.


 


La vita di Gino fu una fuga costante, come racconta Andrea Schiavon ne Il buon ladro (Add editore, 14 euro, 160 pagine). Schedato appena adolescente. Dopo lo svezzamento in riformatorio, la scelta di cercare migliore fortuna altrove. Nel giugno del 1913 dal porto della città ligure salpò a bordo del piroscafo Tomaso di Savoia destinazione Santos. In realtà stava tramontando un’epoca: con la deflagrazione della prima Guerra Mondiale si arrestò un immane flusso di esseri umani. Dal 1900 al 1913 circa tre milioni di cittadini italiani entrarono negli States; un milione tra il 1887 e il 1907 in Brasile, senza dimenticare l’Argentina. Meneghetti aveva una morale tutta sua; un po’ alla Robin Hood: «Tolgo ai ricchi il superfluo; ciò che soddisfa solo la vanità». Niente pistole, niente droga. Accusato di ricettazione. Impiegò relativamente poco ad ambientarsi in Brasile. Il debutto con una rissa da bar, per vendicare le contumelie degli indigeni: «Sporco italiano». Soprattutto nel periodo a cavallo tra fine Ottocento e l’inizio del Novecento, le condizioni di vita di chi immaginava di giungere nell’eldorado furono difficilissime.
I preziosi resoconti, consultabili presso la biblioteca romana della Società Geografica, datati 1922, dell’inviato governativo Filippo Peviani ne offrono una lucida testimonianza: «(…) Cacciati fuor d’Italia dalla fame e dalla disperazione a turbe innumerevoli i nostri emigranti si riversavano nelle Americhe, coperti di cenci e abbandonati a tutte le ingiurie del tempo e degli uomini. Scesi nei porti brasiliani essi venivano intruppati, come pietose mandrie, fra gli scherni degli indigeni. Essi venivano poi caricati sui vagoni bestiame e scaricati, secondo il bisogno, senza garanzie contrattuali, fino a che gli avidi mercanti se ne impadronivano per aggiogarli al loro crudo lavoro sotto l’incontrollata prepotenza dei fazendieros (…)». Intonavano litanie per ottenere l’acqua borica, lenitiva per le irritazioni da campo. La Locaçao dos servicos poneva il destino del colono straniero nelle mani del padrone: una servitù della gleba legalizzata nelle piantagioni di caffè, dalla quale poi si emanciparono.
Gino non ne voleva sapere di sottostare agli ordini, tanto più ai soprusi. Con fughe spettacolari divenne l’incubo della polizia brasiliana, collezionando diciassette evasioni. Spodestò Pelé dalle prime pagine dei giornali. Conobbe la durezza della galera. Quanto la violenza della tortura dietro le sbarre di Avenida Tiradentes, dove poi toccò la medesima sorte all’attuale presidenta Dilma Roussef, allora ventiduenne oppositrice alla dittatura. «Sarò sempre un uomo libero», urlava. Nella biblioteca carceraria si appassionò alla lettura. L’amata Concetta, anch’ella migrante, onesta tessitrice, morì di crepacuore per quell’antieroe osannato dal popolo dei sobborghi, soggiogato dalla schiavitù fino al 1888 e poi relegato nelle favelas. Le sue ceneri furono sparse nel vento. Dove venne arrestato per l’ultima volta una targa ricorda “O bom ladrão”.
Il libro di Schiavon rappresenta l’occasione per riscoprire la storia, il dolore e il coraggio di generazioni migranti. Cambiarono il destino personale e quello economico-sociale del Brasile. Affrontarono la solitudine e l’alienazione: le statistiche ci dicono che tra il 1903 e il 1923 oltre duemila connazionali vennero rimpatriati affetti da malattie mentali. Costruirono comunità tenute insieme da un forte sentimento religioso. Si affermarono i self-made men, protagonisti del processo di industrializzazione brasiliano. Gli operai d’origine italiana furono al contempo l’anima delle lotte sindacali. Come disse un’ignota bracciante veneta al Peviani: «Manco mal che finalmente i scominsia a ricordarse anco de noaltri».

Pubblicato da   venerdì, 6 giugno 2014 

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