06 settembre 2014

A. PROSPERI SULLE RIFORME DEL GOVERNO RENZI




Riforme. Il caso italiano conferma che all’introduzione o al cambiamento di Costituzione si arriva solo in momenti gravissimi (guerre e rivoluzioni), quando vi si è costretti dalla pressione di eventi straordinari. Un articolo di qualche mese fa, ma ancora di grande interesse.

Adriano Prosperi

La rivoluzione passiva


Nella discus­sione intorno alle riforme isti­tu­zio­nali in corso in Ita­lia lo schema conservazione-innovazione si è sosti­tuito da tempo alla cop­pia antica destra-sinistra. Così si è giunti all’esito di defi­nire con­ser­va­tori i cri­tici delle pro­po­ste del governo Renzi, anche se qual­cuno ha ricor­dato (come un dato nega­tivo) che si tratta di figure appar­te­nenti alla «sini­stra radi­cale»: radi­cali ingua­ri­bili, attar­dati pro­fes­sio­ni­sti dello scontento.

Inu­tile, davanti al vento di tem­pe­sta che sospinge le vele dell’opinione pub­blica, ricor­dare che non tutto ciò che è nuovo è bene e tutto ciò che è con­ser­va­zione è male: anche se tutti sap­piamo quanto sia neces­sa­rio con­ser­vare beni come l’ambiente, i beni cul­tu­rali, i diritti umani, la memo­ria del pas­sato, e così via.

Pole­mi­che a parte, la discus­sione di merito si è svolta pre­va­len­te­mente tra esperti di diritto: ogni parte ha sfo­de­rato i suoi costi­tu­zio­na­li­sti. E tut­ta­via davanti all’importanza dei muta­menti oggi in via di rati­fica ma anche alla lunga discus­sione e alle molte pole­mi­che che li hanno pre­ce­duti negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qual­che rifles­sione sulla genesi sto­rica delle costituzioni.

È noto che da sem­pre le Costi­tu­zioni, mate­riali o scritte che siano, sono figlie di tempi agi­tati: guerre e rivo­lu­zioni . Senza biso­gno di risa­lire alla Costi­tu­zione di Atene, basta con­si­de­rare la sto­ria medie­vale e moderna degli stati euro­pei: dalla Magna Charta e dal Bill of Right del Par­la­mento nella lotta con­tro la monar­chia inglese del ’600 fino alla Costi­tu­zione degli Stati uniti d’America e a quelle della Fran­cia moderna, si è trat­tato ogni volta di inter­venti rego­la­tori dei rap­porti for­mali di potere resi neces­sari da pro­fonde tra­sfor­ma­zioni nei rap­porti sostanziali.

Il caso ita­liano con­ferma che all’introduzione o al cam­bia­mento di Costi­tu­zione si arriva solo in momenti gra­vis­simi, quando vi si è costretti dalla pres­sione di eventi straor­di­nari. Non avremmo avuto la nostra Costi­tu­zione se non ci fosse stata una guerra per­duta, seguita dalla per­dita della sovra­nità nazio­nale e dall’auto-cancellazione delle isti­tu­zioni sta­tali vigenti rati­fi­cata dal refe­ren­dum isti­tu­zio­nale del 1946. Senza una feroce guerra civile, senza la Resi­stenza non ci sarebbe stato quel fer­mento di volontà inno­va­tiva che soprav­vive ancora nella Costi­tu­zione repub­bli­cana dan­dole un valore di esor­ta­zione ad andare al di là dell’esistente.

Si pensi a quel fon­da­men­tale secondo comma dell’art.3 sulla neces­sità di rimuo­vere gli osta­coli di ordine eco­no­mico che limi­tano di fatto libertà e ugua­glianza dei cit­ta­dini e impe­di­scono il pieno svi­luppo della per­sona umana e l’effettiva par­te­ci­pa­zione dei lavo­ra­tori all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del Paese. Mai come in que­sti tempi si è avver­tita tutta l’importanza e l’angosciante attua­lità di que­sto testo, ban­diera di una bat­ta­glia che riguarda ancora e sem­pre i lavo­ra­tori tutti intesi come per­sone, ma oggi soprat­tutto chi per non avere lavoro o per averlo pre­ca­rio e revo­ca­bile a pia­cere sci­vola nella cate­go­ria delle non persone.

E tut­ta­via non va dimen­ti­cato che alla nascita della Costi­tu­zione repub­bli­cana si arrivò non per una rivo­lu­zione popo­lare con­tro il regime pre­ce­dente ma per effetto della rice­zione del nuovo ordine mon­diale in cui aveva finito per tro­vare col­lo­ca­zione lo scon­fitto stato ita­liano. Que­sto aiuta a capire la debo­lezza e l’inefficacia della Carta costi­tu­zio­nale una volta ripar­tita la vita del paese sotto il saldo con­trollo di forze mode­rate e di appa­rati ere­di­tati dallo stato fasci­sta. Fu allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di una dia­let­tica sana del con­flitto sociale e poli­tico, si aprì l’epoca del par­tito unico al potere e dell’opposizione bloc­cata da una insor­mon­ta­bile esclu­sione.

L’Italia di allora fu uno dei paesi dove un solo par­tito aveva accesso al governo dello Stato: una delle uncommon demo­cra­cies, secondo la defi­ni­zione di T. J.Pempel evo­cata di recente da Sabino Cas­sese in Gover­nare gli ita­liani. Sto­ria dello Stato (Il Mulino). Dun­que, se rivo­lu­zione ci fu con l’avvento della Costi­tu­zione repub­bli­cana, si trattò ancora una volta di una spe­cie par­ti­co­lare di rivoluzione.

Nella sto­ria ita­liana si mate­ria­lizzò di nuovo un fan­ta­sma antico, quello della «rivo­lu­zione pas­siva». Un con­cetto che Vin­cenzo Cuoco nel Sag­gio sto­rico sulla rivo­lu­zione napo­le­tana del 1799, intro­dusse nel voca­bo­la­rio poli­tico ita­liano. Ricor­dia­molo: secondo lui quella rivo­lu­zione napo­le­tana era stata «pas­siva» per­ché impor­tata da fuori e attuata da una mino­ranza , un’élite intel­let­tuale, senza che ci fosse stata una coscienza,una par­te­ci­pa­zione dif­fusa in mezzo al popolo. Quel fal­li­mento dimo­strava, secondo Cuoco, che nes­suna rivo­lu­zione poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filo­sofi» o essere impo­sta con «la forza delle baio­nette». Una Costi­tu­zione auten­tica come patto dure­vole di un popolo poteva nascere e man­te­nersi solo se ade­guata alle carat­te­ri­sti­che, alla sto­ria e alla cul­tura di quel popolo.

L’appuntamento per una nuova Costi­tu­zione si pre­sentò alla metà dell ’800. Fu nel 1848 che prese forma lo Sta­tuto alber­tino, un docu­mento fon­da­men­tale della sto­ria d’Italia. Era una costi­tu­zione octroyée, con­cessa dal sovrano sabaudo ai suoi sud­diti, non con­qui­stata da una rivo­lu­zione popo­lare, ma det­tata dal timore dei movi­menti che agi­ta­vano l’Europa e in modo spe­ciale la Fran­cia. Ancora una rivo­lu­zione pas­siva, dun­que. E così si entra in quella sta­gione della sto­ria d’Italia che è stata chia­mata Risor­gi­mento quando, per la prima volta sulla scena euro­pea, prese forma un stato ita­liano uni­ta­rio.

Lo Sta­tuto alber­tino fu esteso senza modi­fi­che a tutta l’Italia di cui fu la Carta fon­da­men­tale dal 1861 al 1944 (con la cesura del Fasci­smo). Fu un feno­meno sin­go­lare: lo potremmo defi­nire una fusione fredda, lon­tana come fu dal calore e dal rumore di popoli in rivolta, anzi com­piuta pro­prio allo scopo di evi­tarne il rischio. Per­ché avve­nisse que­sta tra­sfor­ma­zione in punta di piedi ci volle la paura dello «spet­tro rosso» del comu­ni­smo, deci­siva nel con­vin­cere le classi domi­nanti della peni­sola a rifu­giarsi sotto la ban­diera sabauda.

Così quello Sta­tuto fu non il frutto di una rivo­lu­zione ma lo stru­mento di una restau­ra­zione. E pro­prio così – restau­ra­zione – la definì un appas­sio­nato osser­va­tore della realtà ita­liana, Edgar Qui­net. Biso­gnava – come ha scritto Giu­seppe Tomasi di Lam­pe­dusa – che tutto cam­biasse per­ché tutto restasse com’era.

Sulla que­stione della «rivo­lu­zione pas­siva» doveva riflet­tere in pri­gione Anto­nio Gram­sci in pagine che restano fon­da­men­tali e da rileg­gere in que­sto nostro pre­sente. Il Risor­gi­mento secondo lui era stato una «rivo­lu­zione pas­siva», una «restau­ra­zione»: una «rea­zione delle classi domi­nanti al sov­ver­si­vi­smo spo­ra­dico e disor­ga­nico delle masse popo­lari con ‘restau­ra­zioni’ che accol­gono una qual­che parte delle esi­genze popo­lari». Era man­cata l’ ini­zia­tiva delle masse popo­lari , c’era stato ancora una volta lo scol­la­mento con l’élite intel­let­tuale del paese.

Uno scol­la­mento che oggi emerge di nuovo pur se in con­di­zioni sto­ri­che e sociali diver­sis­sime: il titolo di «pro­fes­sori», con la variante peg­gio­ra­tiva di «pro­fes­so­roni» ne è l’espressione più popo­lare. Le esi­genze di muta­mento sostan­ziale nell’assetto della catena di comando e di orga­niz­za­zione del con­senso nascono ancora una volta dall’esterno: dopo il crollo del muro di Ber­lino c’è stato quello degli assetti sta­tali davanti alla glo­ba­liz­za­zione come governo del mondo da parte della finanza inter­na­zio­nale. Da qui la neces­sità di ren­dere liquida la società e per­mea­bili gli esseri umani ai rapidi rias­setti di un sistema pro­dut­tivo fun­zio­nale all’illimitato arric­chi­mento di pochi .

Avremo dun­que ancora una volta una «rivo­lu­zione pas­siva». Se ne fa por­ta­tore un governo di emer­genza soste­nuto da un Par­la­mento di nomi­nati e da un pre­si­dente della Repub­blica da tempo con­vinto che il ritorno alle ele­zioni sia un male da evi­tare, una «scioc­chezza». Quello che sulle riforme costi­tu­zio­nali pro­po­ste fa aleg­giare il sospetto di una restau­ra­zione è il fatto che manca in tutto il dise­gno una parola impor­tante: la parola Par­tito. Se c’è oggi una realtà costo­sis­sima e che si è resa odiosa alla popo­la­zione attra­verso innu­me­re­voli scan­dali è pro­prio il sistema attuale dei par­titi.

Mac­chine di potere refrat­ta­rie a qua­lun­que disci­plina di legge e sorde al refe­ren­dum dell’abolizione del finan­zia­mento pub­blico, assi­stono adesso a una sot­ter­ra­nea rina­scita. È il Par­tito che vin­cerà le future ele­zioni con l’Italicum (il nome lo lasciamo alla fan­ta­sia dei let­tori) l’entità che si cela die­tro la pro­po­sta di un Senato-fenice che muore e rina­sce dalle sue ceneri come Camera delle auto­no­mie. Camera non elet­tiva, benin­teso, che invece di can­cel­lare il Senato, come dice la vul­gata dema­go­gica, lo vor­rebbe rici­clare come pen­sio­nato di lusso per quel ceto di ammi­ni­stra­tori poli­tici locali e regio­nali che si affolla in cerca di altri inca­ri­chi pub­blici e non vuole pas­sare attra­verso altre ele­zioni. 

Una pic­cola pre­ghiera, dun­que: si eli­mini pure il Senato, ma senza resur­re­zioni sospette. Altri­menti la defi­ni­zione di con­ser­va­tori sarà meglio usarla per i «rinnovatori».

Il manifesto – 11 aprile 2014

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