04 settembre 2014

STORIA DELLE LOTTERIE


Lotterie di Stato, una sicura fonte di entrate. Una tassa nascosta accettata volentieri (ieri come oggi) dal popolo.  Riguardo al gioco d’azzardo ha sempre prevalso sull'etica la scelta del male considerato necessario per le casse (vuote) dello Stato. E gli argomenti (pro e contro) nella Francia del settecento non sono poi molto diversi da quelli correnti oggi da noi.

Marco Dotti
La sovranità popolare giocata al lotto
Ogni set­ti­mana, Madame Descoings pun­tava tre numeri alla lot­te­ria. Sem­pre gli stessi. Con immu­tata osti­na­zione, la signora non man­cava un colpo poi­ché – scrive Bal­zac, ne La Rabouil­leuse – per nove anni uno di quei numeri «era rima­sto sul fondo di tutte le ruote, da che la lot­te­ria era stata inven­tata». Lo si doveva estrarre, quel numero, libe­rarlo, ripor­tarlo al mondo con­si­de­rando che non usciva dall’annus hor­ri­bi­lis 1789.
Dal 1789, dun­que, dei numeri di Madame Descoings non si vedeva trac­cia. Non era un’invasata, né un’indovina, ma una donna qua­lun­que persa in una pro­vin­cia qua­lun­que, schiava di un gioco qua­lun­que. Una donna senza qua­lità in un mondo che di qua­lità ne aveva ancora meno. La «povera donna» – così la qua­li­fica, quasi scu­san­dosi, Bal­zac – arri­vava per­sino a dubi­tare «dell’onestà dell’amministrazione e accu­sava il governo, cre­den­dolo capace di togliere dall’urna quei tre numeri, per indurre chi pun­tava su di essi a mol­ti­pli­care furio­sa­mente le pro­prie giocate».
Apparso senza grande suc­cesso tra il 24 feb­braio e il 4 marzo del 1841 su «La Presse», ori­gi­na­ria­mente col titolo Les Deux Frè­res, La Rabouil­leuse di Bal­zac si col­loca su un fronte cri­tico rispetto a una Rivo­lu­zione che – nello spazio-tempo del romanzo, ambien­tato tra il 1792 al 1830 – si rivela ben pre­sto una con­qui­sta non dell’uguaglianza, non della libertà, non della fra­tel­lanza, ma dei mezzi sui fini. Una rivo­lu­zione del denaro, della Borsa e del gioco che in qual­che modo, per Bal­zac, san­ci­sce l’ingresso dell’azzardo nel ritmo della vita quo­ti­diana.
Non per caso, come atte­stato dal senso e dal par­lare comune, «Bourse» divenne pro­prio allora un modo ger­gale per indi­care la lot­te­ria. Finanza e gioco erano solo i due volti di un azzardo che pie­gava il mondo alle pro­prie istanze. Nel 1719, tra le pagine del suo The ana­tomy of exchange Allen, Daniel Defoe — un altro roman­ziere nelle vesti dello spe­cu­la­tore tra­dito — d’altronde già scri­veva: «la spe­cu­la­zione (stock-jobbing) è un gioco. Una sca­tola con dei dadi può essere meno peri­co­losa, ma la sua natura rimane la stessa: l’azzardo».
LA FEB­BRE DEL SISTEMA
Il coup de dés della Rivolu­zione per la Madame Descoings di Bal­zac era ora­mai solo un mito dimez­zato, un grande evento depo­ten­ziato inte­rior­mente più che dai suoi nemici dai «falsi amici» della logica mone­ta­ri­stica sim­bo­leg­giata dagli assi­gnats (titoli di Stato poi usati in fun­zione di carta moneta) e dal gioco d’azzardo, inteso qui nella forma prima tipica e poi ideal­ti­pica del biglietto di una lot­te­ria o nel lotto di Stato.
Per iro­nia della sorte, pro­prio nell’anno della Rivo­lu­zione un libraio pari­gino, Bar­rois l’aîné, dava alle stampe un duris­simo pam­phlet di qua­ran­ta­sette pagine, tito­lato Des lote­ries. A fir­marlo era il vescovo di Autun, che altri non era se non il futuro archi­tetto dell’Impero, quel Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord che, mae­stro imper­ter­rito di ceri­mo­nie, pas­sando indenne dall’Ancien Régime al colpo di Stato di Napo­leone Bona­parte fino al Con­gresso di Vienna, tra­ghet­terà l’Europa verso sce­nari di futuri equi­li­bri di potenza.
Nell’ivresse del gioco, ben al di là di un sem­plice fat­tore di cor­ru­zione dei costumi o di feb­bre momen­ta­nea del sistema, Tal­ley­rand, autore soli­ta­mente parco nella scrit­tura, per­sino delu­dente quando si trat­terà di con­fes­sarsi tra le pagine delle sue memo­rie, vede dell’altro. E quest’altro è una cor­ro­sione interna del lavoro, attra­verso il gioco d’azzardo pub­blico – che egli coglie, al tempo stesso, come mol­ti­pli­ca­tore di povertà e acce­le­ra­tore dei pro­cessi ero­sivi dello spi­rito delle leggi.
Il gioco, scrive Tal­ley­rand, induce a con­su­mare senza pro­durre. Una tesi, que­sta, ripresa molti anni dopo anche da chi defi­nirà il lotto e la lot­te­ria come la più immo­rale fra le tante impo­ste dello Stato. La più immo­rale, ma di certo la più effi­cace. Già nel 1772, nel tren­tu­ne­simo capi­tolo delle sue Medi­ta­zioni sull’economia poli­tica, sot­to­po­nendo a vaglio cri­tico le forme della tas­sa­zione, Pie­tro Verri scri­veva che «fra gli spon­ta­nei tri­buti il primo di tutti si è il tri­buto delle lot­te­rie». Pur cri­ti­cando non la lot­te­ria in sé (il ter­mine in Verri con­nota ciò che oggi i codici chia­mano «gioco pub­blico»), ma solo quelle non fon­date «su un’equa pro­por­zione tra l’utile e l’azzardo», Verri con­cen­trò le pro­prie cri­ti­che su quello che gli parve un resi­duo di tempi bui e pas­sati, una sorta di scheg­gia con­fic­cata nella ragione, che la Ragione avrebbe pre­sto estir­pato. Ma si sbagliava.
Pietro Verri

LA COR­RU­ZIONE DEL POPOLO
Per l’economista e filo­sofo mila­nese alcune, ma solo «alcune lot­te­rie nascon­dono una tale ingiu­sti­zia, che se que­sto genere di tri­buto non ci fosse tra­pas­sato per tra­di­zione dal secolo scorso, tanta è l’umanità che pre­sen­te­mente regna in Europa, tanti pro­gressi ha fatti la ragione uni­ver­sale, tanto lumi­no­sa­mente si cono­sce l’unione che passa fra gli inte­ressi pub­blici e la tutela del più minuto popolo, che io ardi­sco cre­dere che ne sarebbe rifiu­tato il pro­getto se ora fosse per la prima volta pro­po­sto».
Dove il Verri non si sba­gliava, però, era nel com­puto delle con­se­guenze, per quel «minuto popolo» costi­tuito da sala­riati e basso volgo, illuso e deluso dal gioco. Scrive ancora il Verri: «Il più minuto popolo, che non è né può mai essere gene­ral­mente un pro­fondo cal­co­la­tore, viene deluso con gigan­te­sche e chi­me­ri­che spe­ranze d’una dif­fi­ci­lis­sima for­tuna, alla quale le più povere fami­glie dello Stato sacri­fi­cano il letto, il vestito della moglie e de’ figli, ridu­cen­dosi all’ultima mise­ria e dispe­ra­zione. La super­sti­zione, i sacri­legi, i furti, le pro­sti­tu­zioni e il mal costume di ogni genere viene pro­mosso da que­sta classe di tri­buto spon­ta­neo, per cui all’uomo più vir­tuoso dello Stato, al padre del popolo, al legi­sla­tore si fece vestire tal­volta il carat­tere della seduzione».
Attra­verso un «con­tratto spro­por­zio­na­tis­simo», l’azzardo satura lo spa­zio, erode il tempo. E quel tempo, cavo all’interno, spinge il corpo sociale sul ciglio di un bara­tro da cui dif­fi­cil­mente può fare ritorno. Il gioco d’azzardo, coniu­gato alle sup­po­ste virtù di Stato, è un demone – così scri­veva ancora una volta Bal­zac. Bal­zac che, da parte sua, non dimen­ti­cava di richia­marsi a Jean-Jacques Rous­seau, il cui pen­siero, espresso nel Libro IV dell’Emile, sin­te­tiz­zava così: «Posso capire che un uomo sia attratto dal gioco, ma solo quando tra lui e la morte non resta altro che l’ultimo centesimo».
Intro­dotta in Fran­cia il 30 giu­gno del 1776, con un decreto che tutte le inte­grava tutte nella Lote­rie Royale de France, la lot­te­ria ces­serà di esi­stere in que­sta forma il 15 novem­bre del 1793, dopo che il pro­cu­ra­tore gene­rale della Comune, Pierre Gaspard Chau­mette, aveva invo­cato a gran voce la sua sop­pres­sione dinanzi all’Assemblea. «La lot­te­ria di Stato», gridò allora Chau­mette, «è un fiume inven­tato dal dispo­ti­smo per anne­gare il popolo sulla sua mise­ria, ingan­nan­dolo con una spe­ranza che aggrava la sua disgra­zia». Ma il 30 set­tem­bre 1797, esat­ta­mente tre anni anni, dieci mesi e quin­dici giorni dopo que­ste parole, la lot­te­ria rinac­que dalle pro­prie ceneri, per ben più pro­sai­che ragioni di «cassa».
Avviato nel 1790, il dibat­tito sulla sop­pres­sione della lot­te­ria nazio­nale non avrebbe avuto alcun esito, se non vi fosse stata una serie di for­tuite cir­co­stanze, che di fatto spo­sta­rono altrove l’attenzione comune, nono­stante l’abolizione del mono­po­lio sul tabacco (1791) avesse spia­nato la strada a prov­ve­di­menti abo­li­zio­ni­sti. Il 16 otto­bre 1793, era sta ghi­gliot­ti­nata la Maria Anto­nietta: pro­prio que­sto per­mise alla fronda degli abo­li­zio­ni­sti di far pas­sare quasi sot­to­banco un prov­ve­di­mento for­te­mente avver­sato, facen­dolo acco­gliere dal depu­tato Thu­riot che ne decretò – dopo le pero­ra­zioni di Chau­mette – la morte apparente.
Talleyrand
UN LEGAME PERVERSO
Sem­pre, nei periodi di crisi, emerge il legame per­verso tra esi­genze di era­riali, impo­si­zione regres­siva (chi meno ha più paga) e azzardo. Pro­prio qui si inne­sta il discorso di Tal­ley­rand: la lot­te­ria rap­pre­sen­tava un vul­nus radi­cale nell’ordine delle cose pub­bli­che, un asser­vi­mento volon­ta­rio misto di son­nam­bu­li­smo e deli­rio: «la lot­te­ria può essere con­si­de­rata come impo­sta libera e volon­ta­ria. Ma come è strana la libertà quella che sup­po­niamo esi­sta tra que­ste bombe seducenti».
Tutto il dibat­tito su proi­bi­zio­ni­smo o anti­proi­bi­zio­ni­smo nell’azzardo di massa ancora oggi pog­gia su que­sta illu­sione di libertà, lad­dove sap­piano esserci solo sedu­zione (che i tec­nici pre­fe­ri­scono chia­mare addic­tion) che vizia alla radice ogni libertà di scelta, pur lascian­done intatta l’apparenza.
Al pre­sunto disin­canto del moderno, l’azzardo con­trap­pone un incanto minuto, quo­ti­diano, un’illusione di sovra­nità popo­lare che si con­suma nell’attimo stesso in cui si infiamma. Il gioco in mano pub­blica è que­sta fiamma e que­sta illu­sione. La lot­te­ria come modello di que­sto azzardo di massa, scrive Tal­ley­rand, insi­nua nelle menti di tutti un tarlo desti­nato in breve a divo­rarsi il corpo sociale, dopo averlo ine­be­tito e con­dotto all’inerzia. La lot­te­ria è per lui una sorta di sol­vente che disperde la spe­ranza del povero e innalza il fer­vore del ricco. Sin­go­lare inver­sione delle parti, tra cause, pregi, difetti e effetti, se è vero che la prima lot­te­ria sto­ri­ca­mente atte­stata in terra di Fran­cia venne isti­tuita da Fran­ce­sco I con l’Editto di Châ­teau­re­gnard del 21 mag­gio 1539.
L’intenzione espli­cita del sovrano era di atte­nuare il fer­vore dell’azzardo e, come si legge nel testo, «pour por­ter remède aux jeux dis­so­luts». Due secoli dopo, il nesso tra sovra­nità e azzardo si mostrerà in tutta la sua tenace resi­stenza, riu­scendo a tran­si­tare anche nei giorni isti­tu­zio­nal­mente più tem­pe­stosi. Della Grande Lote­rie Royale di Luigi XIV, in que­gli stessi giorni il Mer­cure de France scri­veva: «il ter­mine lot­te­ria è oggi un affare di Stato. È un idolo che ha i suoi tem­pli, i suoi preti, i suoi ado­ra­tori, i suoi giorni soletti. Annun­cia le sue con­ces­sioni nel fra­stuono delle bande mili­tari, tra corone inghir­lan­date e tavo­lacci, dove sono dispo­sti i suoi oracoli».
Telegrafo ottico

L’ERARIO ANTI­PROI­BI­ZIO­NI­STA
Nel suo libello, Tal­ley­rand ricorda come, tra il 1776 e il 1789, le entrate fos­sero aumen­tate costan­te­mente, pas­sando da 6 a 11 milioni. A tanto ammon­ta­vano gli incassi della Lote­rie Royale di Fran­cia, foto­gra­fate un istante prima della cata­strofe del 1789, che fece pian­gere leg­ger­mente il banco, por­tan­dolo a 8 milioni. Sotto il Diret­to­rio, il 9 ven­dé­miaire dell’anno VI (30 set­tem­bre 1797), l’assemblea legi­sla­tiva del Con­seil des Cinq-Cents ria­bi­litò la lot­te­ria. La sua rete di rice­vi­to­rie – cen­to­cin­quanta nella sola Parigi – riprese a fun­zio­nare a pieno regime. Una rete che Napo­leone Bona­parte, giunto al potere con il Colpo di Stato di due anni dopo, dovendo rior­ga­niz­zare l’assetto fiscale del paese, trovò a pro­pria com­pleta dispo­si­zione, affi­dando la gestione delle lot­te­rie a Jean-François Car­teaux, gene­rale oltre che pit­tore con non poche vel­leità. Posto al ver­tice della Lote­rie natio­nale, da parte sua Car­teaux non farà che ampliarne l’etensione ter­ri­to­riale. Un’estensione favo­rita anche dall’uso di un nuovo mezzo di tra­smis­sione: il tele­grafo ottico di Chappe.
Nella Fran­cia del XIX secolo, in piena fase rivo­lu­zio­na­ria, il tele­grafo di Chappe costi­tui­sce forse l’antecedente prin­ci­pale del web, nell’archeologia dell’azzardo di massa. La prima linea aerea di tra­smis­sione tele­gra­fica, come inter­net ini­zial­mente rele­gato nello spa­zio angu­sto dei soli «fini mili­tari», venne instal­lata col bene­stare della Con­ven­zione nel 1793 e col­le­gava Parigi a Lilla.
La pro­po­sta fatta da Chappe a Napo­leone pre­ve­deva l’uso a fini «civili» del suo tele­grafo, ma il con­sole rispedì al mit­tente l’idea di met­tere a dispo­si­zione di indu­striali e com­mer­cianti la rete. Lo stesso fece con la pro­po­sta di lan­ciare tele­gra­fi­ca­mente una gaz­zetta. La sola appli­ca­zione civile accolta fu quella della tra­smis­sione dei numeri estratti al lotto. Le entrate di lotto e lot­te­ria aumen­ta­rono rapi­da­mente, pas­sando dai sette milioni di fran­chi del 1805, ai dician­nove del 1807. Ma Chappe non poté assi­stere a que­sta rifio­ri­tura del gioco di Stato alla quale aveva pre­stato la pro­pria opera. Morì infatti sui­cida, get­ta­tosi dalla stanza di un albergo pari­gino, il 23 gen­naio 1805. Anche lui vit­tima dell’azzardo di Stato.

Il manifesto – 14 maggio 2014

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