12 ottobre 2014

CINEMA: CLASS ENEMY



Il nemico di classe


di Stefano Guerriero


Il bel film Class enemy, diretto dallo sloveno Rok Biček e uscito in questi giorni nelle sale italiane, sembra fatto apposta per far discutere, con i suoi assunti problematici e controcorrente.
Come in una pièce teatrale, quasi tutto accade dentro una scuola, che nonostante le suppellettili invidiabili per qualsiasi istituto italiano, nonostante il decoro, diventa subito un luogo claustrofobico. Il nemico di classe è il nuovo insegnante di tedesco, il professor Zupan (Igor Samobor, veramente bravo), che sembra apparentemente non interessarsi al lato umano del suo mestiere, non si preoccupa di essere affettuoso e comprensivo con gli studenti, come fanno invece tutti gli altri intorno a lui. Considera anzi la condizione di studente un privilegio di cui essere all’altezza, specie al di fuori degli anni dell’obbligo, e l’adolescenza l’età in cui si inizia a trattare ed essere trattati da adulti. Ma questo lo spettatore lo capisce via via, all’inizio è portato a solidarizzare con la classe, che lo considera uno spietato nazista.
Catalizzatore degli eventi è il suicidio di Sabine, la studentessa che al suo primo incontro con Zupan aveva posto la domanda basilare e inevasa di qualsiasi adolescente (“perché si vive?”), senza ottenere risposta (troppo bello se il senso della vita si potesse trovare in una semplice risposta). In seguito il professore la riprende duramente per la sua scarsa preparazione in tedesco: non impegnarsi per lui vuol dire non sapere cosa si vuole fare e essere, cosa inaccettabile. Contemporaneamente, avendola per caso sentita suonare Mozart, le riconosce un talento e le dà un consiglio (“continua a suonare il piano, quello lo sai fare”). Se non risponde a domande dirette, tuttavia comunica. Sabine però esce dall’edificio scolastico e scompare (telecamera impallata nel bianco).
Di fronte ai compagni sconvolti, Zupan non offre affetto, ma strumenti per capire. Si ostina a fare le sue lezioni, ma in quelle lezioni giganteggia Thomas Mann, il dramma di essere o sentirsi diversi in una società borghese, il suicidio del figlio, l’idea che la morte di qualcuno riguarda tutti gli altri che restano.
La classe non vuole capire, rifiuta di parlare e sceglie la rabbia, cerca solo un colpevole e un capro espiatorio, ogni studente fa un uso personale del suicidio della compagna, si ribella contro il sistema che ha schiacciato un individuo. Il film rallenta, le vessazioni e gli scontri sono raccontate forse troppo nel dettaglio, ma poi ritrova tutta la sua forza nel finale, dove Zupan spiega le ragioni del suo agire (e il pubblico che ha ceduto al meccanismo del capro espiatorio, sperimenta su di sé l’ingenuità dell’errore: un brutto voto a scuola non può spiegare una morte, nella sua grandezza tragica).
 Si può dire che il professore di tedesco difenda – senza simpatia certo – l’idea di una comunità nel tempo dell’individualismo, e per questo nessuno lo sopporta, neanche i suoi colleghi. Difende un’idea di educazione come maturazione, assunzione di responsabilità, ricordando una verità oggi sempre più controintuitiva: “andare incontro” agli studenti, essere “buoni”, non vuol dire necessariamente fare il loro bene.
Il suicidio di Sabine non è quello di Neil in Dead Poets Society di Peter Weir (L’attimo fuggente, 1989). Neil è ostacolato nel suo desiderio (diventare attore) da un mondo adulto costrittivo, Sabine è ostacolata prima di tutto da se stessa e dalla debolezza dei suoi desideri. E tutti intorno la lasciano in pace, nessuno la vede. Aspettare che arrivi il momento giusto, essere comprensivi non è sempre la cosa migliore da fare, a volte è una scusa per rinunciare a capire e stare a propria volta tranquilli (“scherzaci”, “mettigli buoni voti”, e tutto passa, dice un collega).
L’antipatico Zupan parla invece di responsabilità sia verso se stessi (verso il proprio talento), sia verso la società (quelli che chiama rituali, che ci rendono diversi dagli animali e ci vincolano a un legame comune). Responsabilità che un tempo andavano sotto il nome di doveri: parola non a caso scomparsa dal lessico attuale – i diritti seguiranno a breve? –, e sostituita tutt’al più da merito, che però riconduce il discorso soltanto al singolo (quanto sono bravo io: merito sicuramente di più, merito tutto, comunque merito più degli altri! A me che merito la società deve dare, agli altri, chissenefrega). Nel socialismo almeno c’erano pure i bisogni: io la buona scuola la vorrei socialista anche nell’assunzione collettiva dei bisogni.
L’educazione, la scuola sono l’interfaccia attraverso cui una società versa tutta se stessa in chi sta ancora sulla soglia. Nelle scuole si trova tutta la vita, i valori e i disvalori di un paese e di un’epoca. Questo, Biček lo intuisce chiaramente e costruisce un ambiente gretto, stupido, razzista, confuso, in cui ognuno è concentrato solo sul proprio io, ognuno vuole essere capito senza sforzarsi di capire, come per il regista succede anche al di fuori della scuola (la Slovenia corre gli stessi rischi dell’Europa tutta?). Class enemy propone una realtà che non è in bianco e nero, ma più articolata; sembra voler ricordare che il benessere vero di una società è legato a una miscela complessa di valori e comportamenti, non a qualche singolo valore totem di volta in volta aggiornato.
E in questo senso – e a bilanciamento – giova ricordare che neanche il rigore, la disciplina e il fare i compiti possono bastare da soli, neanche a scuola. Zupan aveva rimproverato Sabine perché non sapeva che cosa voleva, dicendole che Mozart invece lo sapeva fin da bambino, o almeno lo sapevano i suoi genitori (che lo obbligavano alla musica). Curiosamente, anche Paolo Volponi nelle Mosche del capitale parla del padre di Mozart, paragonandolo però all’impresa capitalistica, per la loro comune natura “di promotori organizzatori persecutori e consolatori, con la stessa presunzione di guidare e proteggere, di scegliere e d’insegnare, di decidere cosa è bene e cosa è male”.

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