09 ottobre 2014

L' AMERICA DI ITALO CALVINO 1 e 2



Esce per la prima volta come libro singolo “Un ottimista in America”, diario del viaggio negli Stati Uniti di Italo Calvino. Ne esce l'immagine di un'America che solo un grande scrittore poteva immaginare.

Ernesto Ferrero

Calvino folgorato sulla strada di Manhattan


Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino parte per l’America con una borsa della Ford Foundation per giovani scrittori europei. Si pente subito d’aver preso la nave, pretenziosamente nuova, ma popolata di gente «antiquata, vecchia e brutta». Si ricompensa con l’emozione dell’arrivo a New York, «la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa terra». Ci rimane due mesi. Lì realizza quella che è la vera vocazione del Barone Rampante: osservare il mondo da una posizione defilata, studiare le differenze senza essere visto, meravigliosamente incognito.

Si sbottona: «E’ l’unico posto in cui posso far finta di risiedere», una città «geometrica, cristallina, senza passato, senza profondità, che posso illudermi di padroneggiare con la mente, di pensarla tutta intera nello stesso istante». Il viaggio prosegue verso Chicago, Detroit, la California, il Texas, il Sud. Forse il vero paesaggio dell’America è la piatta e squallida Los Angeles, «città fatta di mille periferie», o la dura Chicago materiale e produttiva.

Com’è sua abitudine, Calvino cerca di capire dal di dentro, da antropologo e cibernetico, come funziona il sistema America, ma compie anche missioni di scout per Einaudi (porterà in Italia, tra gli altri, autori come Salinger, Bellow e Malamud). Scrive a Torino (e alla madre) lunghe lettere che stanno tra il diario e la relazione, e alimenteranno anche una serie di articoli poi apparsi su settimanali. Tutti materiali che, rielaborati, confluiranno in Un ottimista in America, previsto per i «Saggi» Einaudi.
Nella primavera del 1961 il libro è pronto, ma Calvino lo ferma in seconde bozze. Applicando a se stesso il rigore luterano che riserva alle letture editoriali, lo sente «troppo modesto come opera letteraria e non abbastanza originale come reportage giornalistico». Così confesserà nel 1985, senza essere convinto nemmeno con il senno di poi della giustezza della decisione: in fondo «sarebbe stato comunque un documento dell’epoca». Vero, ma è molto di più.

Dopo cinquant’anni d’invecchiamento, il libro che ora esce da Mondadori conserva le sue bollicine, e si fa degustare con delizia, anche perché il tono è quello vivace e informale di una conversazione tra amici. In queste pagine l’uomo che detestava dire «io» e aborriva l’autobiografia parla finalmente di sé. Di abitudini taciturne e appartate, si rivela conversatore amabile, frequenta parties, socializza ovunque con una disinvoltura quasi mondana.

Con lui, scopriamo che l’America è molto meno americana di come se la immaginava il nostro immaginario un po’ provinciale. Loro non giocano al flipper, non vestono jeans, vanno poco al cinema, di Coca-Cola in giro se ne vede poca… Forse, dice, dovremmo insegnare agli americani che cos’è l’America.

L’esperienza è elettrizzante. Appena tornato, confesserà a Carlo Bo: «Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e “altra da me”, come non mi era mai capitato». Il Calvino ipercinetico che si autoproclama «newyorchese» come già Stendhal si voleva «milanese», è un uomo felice. Le lettere agli amici italiani sprizzano allegria. A Elsa Morante: «New York mi ha assorbito come una pianta carnivora assorbe una mosca… È il paese che ti dà il senso di svolgere un’enorme attività anche se in realtà combini poco». A Pasolini: «L’America non ha grandi problemi tranne quello di come faranno a tradurre Pasolini (It is dialect? It is slang?) e quello: Pasolini è un beatnik? No, insorgo io, è tutto il contrario e spiego per mezz’ora». A Carlo Levi: «La notizia del tuo arrivo, che comincia a diffondersi, suscita una sensazione che ha precedenti solo in quella dell’arrivo di Krusciov».



È ovunque. Intervista gli abitanti del Village (gli unici titolari di un qualche brandello di storia), frequenta l’ascetico Actor’s Studio di Lee Strasberg, una fabbrica di calcolatori e supermarkets in cui si vendono anche motoscafi; loda la politica fiscale che consente alle fondazioni di godere di ricche donazioni private; studia la forma della fanaleria delle auto; parla con i potenti leader sindacali degli scaricatori di San Francisco; assiste a malinconici spettacoli di burlesques, va a cavallo in Central Park, si accorge che i beatniks sono dei bravi borghesi che si travestono da bohémiens per andare nelle case dei ricchi a recitare la parte dei provocatori; ma scopre anche il degrado urbano, i vagabondi, gli alcolizzati, e la loro «oscura religione di autoannientamento». Visita i pueblos delle riserve indiane (pare di essere ad Alberobello). Sperimenta la noia mortale di highways e cittadine tutte eguali. Arriva in Alabama in tempo per vivere in diretta una manifestazione non-violenta di Martin Luther King («tipo molto solido e abile») e un razzismo tanto più repellente quanto più paternalista e bonario.

Le sue intuizioni arrivano al cuore dei problemi, prefigurano lo scoppio della bolla immobiliare di tanti decenni dopo: il sistema si regge sull’indebitamento ottimistico, sul credito troppo facile concesso a tutti. Le case non le paga chi le compera, ma la banca: «È questa la società della fiducia o dell’ansia?». E sembra che parli dell’oggi quando spiega che la vera debolezza americana sta nell’incapacità di capire ogni altro mondo che non sia il suo. Non hanno il senso della storia perché hanno scelto la geografia, l’occupazione degli spazi.

La full immersion negli States nutrirà a lungo l’immaginario di Calvino. È probabile che il germe delle immaginarie Città invisibili stia proprio nelle marcate differenze che segnano tante città visibili, ognuna portatrice di un’idea, di un modello, di una potenzialità da sviluppare o da contrastare, ma tutte colte nelle loro linee essenziali con grazia illuministica.



La Stampa – 9 ottobre 2014




Ironica e stralunata corrispondenza di Italo Calvino da New York:


Italo Calvino

A cavallo per le vie di New York


Nei primi giorni non sapevo. Volevo affittare o comprare usata una di queste auto dalla coda lunghissima, solo per avere il senso dell’inserimento nella vita americana; ma tutti mi sconsigliano, quella è la via sbagliata, avere una macchina a New York è un disturbo: se per miracolo trovi da parcheggiare la notte davanti a casa, di mattina presto devi scendere a spostare l’auto sul marciapiede opposto perché è scaduto il tempo consentito: i newyorkesi veri vanno tutti in taxi. Giusto: ma non si risolveva il mio problema.

Adesso, finalmente ho capito qual è la prima cosa che deve fare uno straniero a New York: affittare un cavallo. È, oltre tutto, la giusta via d’approccio all’America, la via storica, perché partendo dal cavallo potrò seguire l’evoluzione dei mezzi di trasporto che hanno caratterizzato la storia americana, e, se è il caso, arrivare alla Cadillac.

Il guaio è che questa è la prima volta che monto a cavallo in vita mia. Per arrivare a Central Park, siccome la scuderia è piuttosto lontana, nel West Side (una delle poche superstiti tra le molte scuderie che erano qui intorno), devo cavalcare per una via piena di traffico e attraversare due avenues.

Dall’alto della sella, domino i tetti delle auto, obbligate a rallentare dietro il passo del cavallo, prudente sull’asfalto. Sprovvisti di senso epico, i monelli portoricani che giocano sui marciapiedi mi danno la baia.

A Central Park, buon fondo un po’ fangoso; per i prati corrono i soliti scoiattoli; intorno, nell’aria meravigliosamente serena s’alzano i grattacieli; rimbalzo in arcioni cercando invano di prendere il ritmo del trotto; l’amazzone che mi accompagna, leggera in sella, mi grida istruzioni tecniche che non capisco; il mio cavallo s’invischia in pantani o si caccia sotto fronde basse in cui m’impiglio; la bianca scia d’un reattore si perde sopra i grigi grattacieli che sfumano downtown; e questa città, che è sempre stata degli ultimi venuti, da oggi è mia.

La Stampa - 9 ottobre 2014

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