14 ottobre 2014

UN'INTERVISTA-DIALOGO CON NICOLA LAGIOIA



Proprio qui, tra stato di natura e stato di grazia

Un’intervista-dialogo con Nicola Lagioia su La Ferocia

di Giuseppe Zucco



Al contrario dei tuoi precedenti romanzi, Occidente per principianti (Einaudi, 2004) e Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009), dove mettevi in scena dei racconti di formazione, formazione sia individuale sia generazionale, tra le pagine de La ferocia dai corpo alla storia di un crollo, di una famiglia che inesorabilmente crolla, di un mondo che da subito appare destinato al disfacimento. «Maggiore l’altezza, più fragoroso il crollo», scrivi a un certo punto. Cosa ti ha spinto a ripercorrere l’ascesa e la caduta della famiglia Salvemini?

Per questa domanda ho almeno due risposte. Una letteraria, l’altra riguarda la mia vita. Raccontare di una potente famiglia del sud mi sembrava un ottimo espediente per fotografare un’intera società, la filiera di tutti i piccoli e grandi poteri che tengono in piedi una città, o un paese. C’è da una parte il potere economico, la Salvemini Edilizia, la quale intrattiene per forza di cose rapporti continui con i politici locali. Il presidente della regione, il sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali. Sono rapporti snervanti, sfibranti, violenti per entrambe le parti. Ma questo è solo il primo nodo. C’è la magistratura da tenere per quanto è possibile sotto controllo. La sanità con i suoi appalti e gli archivi dei malati terminali, utili in materia di nude proprietà. Ma anche l’università, i giornalisti, i picco-li feudi dei cosiddetti progressisti. E poi una marea di commercialisti, ingegneri, geometri e le loro chiassose famiglie (e vitali, perfino belle nel tragicomico contesto in cui navigano a vista). Poi gli operai edili, i manovali, i garzoni, le sorelle dei garzoni. Insomma, tutto il mondo.
Il problema (e vengo al secondo corno della questione) è che si tratta del mio mondo. Sono cresciuto in un’enorme famiglia di imprenditori fattisi dal nulla da una parte, e dall’altra di piccoli coltivatori diretti i cui genitori vivevano nella preistoria che Pasolini credeva di trovare nelle borgate romane degli anni Sessanta. Il problema è che Pasolini conosceva poco i contadini del Sud, o i muratori del Sud, o certi agenti di commercio del Sud, o alcuni microimprenditori del Sud che, negli anni Settanta e Ottanta e Novanta, e persino oggi (a Capurso, a Triggiano, a Cellamare, a Sannicandro, a Pulsano, a Ginosa, a Castellaneta, a Castellana, a Galatina, a Galatone eccetera eccetera) hanno facce che i compulsatori degli “Scritti corsari” credono scomparse mentre non lo sono per niente.
Ma comunque. Per questa mia proliferante famiglia (mio nonno agricoltore, mio padre imprenditore, il compagno di mia madre ex socio di mio padre, l’altro nonno camionista, e poi tenutari di lavanderie, di pescherie, di piccoli e grandi commerci, mio fratello nato dal secondo matrimonio di mio padre – dunque non legato al nonno coltivatore diretto – di nuovo nel campo dell’agricoltura ripartendo da zero) il denaro è stato sempre un assillo e una maledizione. Una maledizione quando ce n’era tanto. Una maledizione quando non ce n’era più. Un tormento quando le imprese prosperavano in modo scandaloso. Sempre un tormento quando le imprese fallivano l’una dopo l’altra e una valanga di interessi passivi era pronta ad abbattersi su di noi. In mezzo, tutto il resto. I costruttori, per esempio. E i geometri, i muratori, i rappresentanti di commercio, i piccoli politicanti, i geometri a loro volta autoproclamatisi piccoli costruttori. Un’umanità vitale, feroce, macabra e comica al tempo stesso. In mezzo fughe all’estero, tentati suicidi, adulteri, tradimenti, frodi, crolli rovinosi e impennate assurde. Sentimenti estremi e laceranti. Un carnevale macabro.
Un complesso turistico costruito dopo che un incendio probabilmente doloso aveva distrutto ettari di macchia mediterranea? Io ci andavo in vacanza ogni estate! Una coppia di adulti che tenta di strozzarsi sul bordo di una piscina dall’acqua marcia in procinto di finire tra le grinfie di un ufficiale giudiziario? Io ci sono cresciuto. La miseria nera, ancestrale? L’ho vista. La ricchezza volgare? Pure quella. La mia famiglia. Come farne senza? È stata un paio di volte sul punto di distruggermi, di annientarmi, ma non l’ha fatto. Così ho potuto scrivere questo romanzo.


Vittorio Salvemini è un palazzinaro – famelico, corrotto, corruttore. Un uomo che, per dirne una, non si fa scrupoli a sfruttare la debolezza dei figli, costringendoli a firmare carte che ac-cresceranno illegalmente la sua ricchezza e il suo potere. La cosa strana è che Vittorio porta lo stesso cognome di Gaetano Salvemini: uno storico, un meridionalista, un riformista socialista di origine pugliese che faceva della probità il più grande dovere e che, per tornare al mondo animale che si annida nel romanzo, avvertiva sempre il rischio che (brutalizzo e faccio mia una delle sue dichiarazioni più celebri) i «passerotti», coloro che lavorano all’invenzione e alla diffusione di idee chiare e pulite, potessero essere sopraffatte dalle «aquile», coloro che si ado-perano per fabbricare il buio. È questo? Vittorio, nell’epoca in cui vive – il passato prossimo e i giorni nostri – segna la supremazia delle aquile sui passerotti?

La ferocia è il ritorno allo stato di natura ogni volta che ci siamo illusi di essercene emancipati. Mentre no, la legge della giungla è sempre dietro l’angolo, basta darle l’opportunità di scatenarsi. Per esempio una crisi economica. Non credo molto a questa divisione di Gaetano Salvemini. Non per l’oggi, almeno. Mi piacerebbe, ma credo le cose stiano in un’altra maniera. Il problema, infatti, è quando i “passerotti” si trasformano in “aquile”. Nessuno, o pochi, pochissimi, possono dirsi al riparo da questo rischio. Metti cinque bravissime persone a una tavola con cinque piatti di pasta. Converseranno amabilmente, daranno il meglio di sé. Riduci i piatti a quattro, a tre, a due, a uno solo, e vai avanti così per giorni. Chi sarà il primo a cedere alla tentazione di fare fuori gli altri per sopravvivere lui? La ferocia è questa cosa qui.
Il contrario della ferocia è invece in questo caso l’amore. Quando (ed è ciò che succede a Clara e al fratellastro Michele) riusciamo incredibilmente a sabotare l’istinto di prevaricazione che altrimenti ci porterebbe a sbranarci l’un l’altro. Questo gli animali non riescono a farlo. Metti una colomba davanti a un gatto, e il gatto le correrà dietro con gli artigli sguainati. È la sua natura, non può farne a meno. Gli animali non costruiscono campi di concentramento ma non sono capaci di spezzare l’anello della violenza. Noi sì, raramente, episodicamente. E non so neanche se questo autosabotaggio (meraviglioso quanto raro) sia il frutto di un mostruoso atto di volontà o di qualcosa assimilabile all’altro, alla grazia. L’amore, appunto, o il suo stadio più barbarico e primitivo. Al di sopra del quale ci sono i santi e i pazzi. Ma a noi, almeno nella sua forma primitiva, è dato di inciamparci. Che bello quando succede. Nel mio romanzo (tra oceani di buio) c’è anche questo.


Clara, figlia di Vittorio, è il buco nero attorno a cui si dispiega questa storia. È la cruna dell’ago attraverso cui passano tutti i fili narrativi. « […] ogni cosa in lei era magnete e assenza di volontà, l’ipnotico richiamo assecondando il quale tutto si fa identico e perfetto, e noi non esistiamo più.» Com’è andata con la costruzione di questo personaggio? Dove hai trovato ispirazione per disegnarlo in questo modo? Ogni tanto ho avuto la sensazione che fosse una specie di Anna Karenina virata al nero – è lei che regge fisicamente l’urto della società intera, rivelandone al passaggio le contraddizioni. Quando hai capito che la sua pelle sarebbe stata la lavagna adatta su cui iscrivere i segni – i lividi, gli ematomi, le ferite – di questo tempo feroce?


Clara. È lei il centro, il buco nero, è vero. Ed è sempre lei il momento di singolarità da cui è nato “La ferocia”. Diversamente dagli altri romanzi, l’inizio non è stata un’idea, un’intuizione, e nemmeno (come nel caso di “Riportando tutto a casa”) un sentimento macerato a lungo.
L’inizio, in questo caso, è stata un’immagine primaria, qualcosa che aveva a che fare quasi con l’informe, intorno alla quale, piano piano, con una pazienza sfibrante, ho costruito l’intero romanzo. E’ successo una notte d’estate. Ero a Castellaneta Marina con mia moglie, ed era notte. Dormivamo in una villetta di questo complesso turistico costruito quarant’anni fa dopo che il famoso episodio di “autocombustione” aveva distrutto la macchia mediterranea. A mio parere non un caso di autocombustione. Ma comunque, in quarant’anni, intorno alle villette, la pineta è ricresciuta impetuosamente, tanto che sembrano case nel bosco. Le cinque del mattino. Sto dormendo accanto a mia moglie e sogno questa ragazza. Nuda, ricoperta di sangue. Clara. Massimo dell’attrazione e massimo della repulsione. Desiderio e disturbo. Che cosa voleva dire? Non il sogno in senso psicanalitico, proprio l’immagine. Questa immagine calda, moribonda, umida. Una sabbia mobile notturna fatta tutta di languore e tristezza infinita. Me la sono portata dietro per mesi senza scrivere una riga. Parlandone a mia moglie continuamente. Con Chiara (il nome di mia moglie) abbiamo fatto chiacchierate infinite su questa ragazza (o questo informe principio femminile) per capire cos’era. A un certo punto lei, mia moglie, non ce la faceva più a sentirmi. Ero proprio ossessionato. Poi, continuando a parlarne (ricordo benissimo il giorno, una domenica dopo ora di pranzo, in cucina, subito dopo aver distrutto il file dell’altro romanzo a cui stavo lavorando da mesi, pur di non affrontare un’urgenza così intensa e potente), ho raccontato a voce a mia moglie tutta la prima scena del romanzo. Una cosa pazzesca, mai accaduta. Non avevo scritto ancora un rigo e ho raccontato, di punto in bianco, l’incipit del libro a voce, in cucina, una domenica, in uno stato mezzo allucinato mezzo disperato, con mia moglie che diceva “bene, vai avanti, coraggio, cosa succede dopo?” Non lo so. Era come un’esperienza erotica. O era come lamentarsi nel sonno a voce alta. Quattro o cinque ore dopo, era ormai sera, avevo già distrutto senza rimpianti sei mesi di lavoro (svuotato il cestino dentro il quale avevo messo prima il romanzo che stavo scrivendo per ingannare il tempo, in attesa di dare forma a quel sogno estivo) e iniziavo ad avventurarmi in quello che (e se ci penso mi sembra un miracolo il modo assolutamente fermo con cui io sono stato quasi quattro anni, senza staccare un solo giorno, un’ora, chino a lavorare sul libro) sarebbe diventato “La ferocia”.


Michele, figlio di Vittorio, ma nato da una relazione fuori dal suo matrimonio, è timido, riservato, fuoriposto, pieno di casini, non tarderà a sviluppare problemi di salute mentale. Eppure, illuminato da Clara, mi sembra la sola figura positiva del romanzo. È l’unico che si farà carico della morte della sorella. L’unico che cercherà di capire come sono andate realmente le cose. Come un detective mancato, spinto da un debito immenso nei confronti di Clara che gli ha rivelato lo stato di grazia dell’amore, si avventura sulla strada che lo porterà a diventare l’anello di congiunzione tra lo stato di natura, la ferocia, e lo stato di diritto, che in tutto il romanzo brilla per la sua totale e sconsolante assenza. È così? È questo?

Michele è anche un idiota, cioè un mezzo santo. Ha avuto problemi psichici. Una lieve forma di schizofrenia che a un certo punto sembra portarselo via, o forse una sindrome bipolare, in certi casi la diagnosi non è mai perfettamente chiara. La malattia mentale è un altra caratteristica della mia famiglia. Chi non ha dei matti in casa? Io ne sono stato circondato. Entrambi i rami della famiglia, anzi tutti i rami della famiglia, se si considera il fatto che tra divorzi e secondi matrimoni, e figli precedenti di precedenti matrimoni dei secondi matrimoni, i rami si moltiplicano. Ebbene, tutti questi rami sono stati chi più chi meno toccati dal disturbo mentale. Michele è toccato dal disturbo mentale. Mettendosi sulle tracce della morte dell’amatissima sorellastra è uno Sherlock Holmes che al posto della logica usa la “luccicanza”. Ha strumenti storti con cui indagare. Il suo maggiore ostacolo (una mente non sempre salda) diventa all’occorrenza anche il suo radar capace di captare cose che altri non sentono. E sì, lui porta il disagio e la debolezza (come una vittima predesignata), eppure quando si illumina di una particolare luce porta la legge e la spada (come l’arcangelo Michele), e soprattutto porta l’amore per Clara. Non gli interessa la legge, gli interessa la giustizia. Una giustizia anteriore a qualsiasi codice civile o penale. Questa giustizia è stata violata, nella sua famiglia, forse proprio per mano della sua famiglia, e a questo punto lui (per l’amore che porta a Clara) è condannato a intervenire.

Quello di un fratello e una sorella che si attraggono e si amano alla follia, magari in maniera avventurosa, sfiorando un rapporto incestuoso, è un topos letterario. Due capolavori della letteratura, due delle esperienze più sconvolgenti che possano capitare a un lettore, Cime Tempestose di Emily Brontë e L’urlo e il furore di William Faulkner, si fondano su un rapporto del genere. La biografia del poeta Georg Trakl è intessuta di una storia simile. Perché hai cercato e rivitalizzato l’unione di queste figure così intensamente toccate dalla grazia e dalla disperazione?

L’urlo e il furore
, Cime tempestose, le poesie di Trakl. Se solo penso a quanto questi libri mi appartengono, mi stanno proprio conficcati dentro come paletti di frassino, rischio di sentirmi male. Anche se non ne sono degno, mi appartengono. Non ci posso fare niente. Non riesco neanche, o meglio non voglio neanche indagare troppo i motivi di questa appartenenza, non perché avrei magari brutte sorprese che riguardano la mia vita interiore, ma perché temo che quel tipo di magia si spegnerebbe. E si spegnerebbe perché andrei a indagare un grande mistero con strumenti (i miei) inadeguati alla sua tensione e forza. Diciamo – e non è un modo facile per liberarsi della domanda – che in questo caso “La ferocia” ne sa più dell’autore. Non dico che conosca la risposta, ma se ne avvicina cert-mente più di me.
Gli animali sono personaggi fondamentali. Nel libro ne esistono tantissimi, una popolazione intera. Tra i tanti, abituali, ricorre perfino una tigre. Sono il correlativo oggettivo sia dei pe-sonaggi sia del tempo che i personaggi vivono. Rappresentano in modo inequivocabile la ferocia primordiale che torna ciclicamente a solcare le azioni umane, e forse risultano un po’ troppo schiacciati su questa caratterizzazione – la vita animale, ovviamente, è molto più ampia e complessa rispetto al solo istinto alla sopraffazione. Però è dalla loro vicinanza che gli esseri umani possono capire almeno parte di se stessi. « [gli adulti] Non sapevano che gli stormi d’uccelli non hanno un condottiero. Ogni creatura regola i movimenti su quelli dei simili che gli volano accanto, un prodigio per cui dal nulla sembrerebbe sorgere la vita e il movimento. Un gioco di specchi con nulla al centro, simile a quello da cui nasce la coscienza. Era il motivo per il quale, guardando gli uccelli passare in gruppo, agli uomini sembrava di ritrovare se stessi sin dalla notte dei tempi.» Come sei arrivato a capire che in questo momento storico può essere più utile avere dimestichezza con l’etologia piuttosto che con la sociologia?

Sulla capacità/non capacità di spezzare il movimento circolare di ferocia e violenza ho già risposto prima. Aggiungo due cose. Una l’hai detta tu: non l’intuizione, ma il timore che l’etologia possa spiegare meglio di altre discipline questi ultimi anni, e speriamo non i prossimi. La seconda è che, man mano che si procede di specie in specie, dagli animali più complessi ai più primitivi, dai gatti ai topi alle lucertole alle falene, c’è qualcosa negli animali che mi fa proprio uscire di testa. Una questione di apparato percettivo. Non cosa pensano ma cosa sentono gli scarafaggi? Con cosa sono in contatto gli esseri viventi il cui apparato percettivo è immutato da milioni di anni? Sono a due passi da noi, possiamo stringerli tra le dita (uno scarafaggio, una formichina, un verme palla) eppure sono scatole misteriosissime, scrigni delle meraviglie e degli orrori. Non siamo gli unici abitanti del pianeta. Ci sono anche gli animali. Ci sono anche le piante. Questa cosa, se ci penso bene, mi provoca meraviglia. Ma se inizio a sentirla, allora mi sconvolge.
Il sud è questa parte del mondo su cui grava la pace dei morti, dici, in altro modo. La Puglia è la tua regione. Bari è la tua città, «un diadema sfrigolante». Qui hai già ambientato Riportando tutto a casa – da qui, da questo osservatorio, ti sembra che il mondo quadri e trovi senso. Non è esattamente il posto solare che ci potremmo aspettare. Predomina la notte e la luce lunare. Appare uno strano incrocio di arcaico e futuro, un posto reale e una condizione dell’anima. In che modo la tua terra ha assunto per te questa dimensione?
Ogni volta che, in treno verso sud, inizio a vedere il Tavoliere (meglio, lo percepisco a occhi chiusi quasi dal cambio di pressione atmosferica, anche se sono in Frecciarossa e non su un regionale, quindi senza poter neanche tirare giù i finestroni) a me viene proprio un tuffo al cuore. Mi sale lo stomaco in gola. Ecco la pianura, e al termine della pianura Bari. E più a sud Taranto, e poi il Salento. Ecco la mia terra di fantasmi e scheletri danzanti. Mi sembra di sapere tutto della Puglia, anche se poi invece mi mancano un sacco di informazioni e la mia cultura storica (ed etnografica, sociale, politica) è davvero deboluccia. Da quando a quando i normanni? E in che anno l’eccidio di Otranto? E Federico II? Da dove viene fuori un personaggio come Di Vittorio? E Mike, il SuperMago del Gelato di Polignano a Mare? La quale Polignano, diede i natali a Domenico Modugno e Pino Pascali. Nel foggiano: Andrea Pazienza. Campi Salentina: Carmelo Bene. Poi le cantine sociali. Grazie a quali lotte venne finalmente costruito il primo frantoio a Capurso? A Capurso sono nati i miei nonni e i miei genitori, e anche i genitori e credo i nonni di Luca Medici (Checco Zalone). Che fine ha fatto Baffone, tenutario di un famosissimo minimarket di Castellaneta Marina? È Melpignano o Galatina la vera patria della Taranta? È vero che le mogli dei muratori morti sul lavoro, se vanno in pescheria il venerdì successivo al funerale dei loro mariti, e comprano un pesce di mare, hanno speranza di trovare dentro l’immaginetta di un santo o di una santa? Il rock barese di un tempo? Gli Skizo, il Gruppo Sanguigno, gli Aneurisma. I Radiodervish. Paolo Achenza Trio. Dispoto sul canalone, che affittava i locali a chi suonava. Mario Materia e Andrea Piva. È vero che tutti i Matarrese vivono in un unico palazzone a Japigia? Joao Paulo vive ancora a Santo Spirito? L’elemento segreto della Coca-Cola non è nulla rispetto a quello della birra Raffo. L’immenso Tavoliere è concimato con le ossa di una legione di braccianti. Io tutte queste cose non le so mai completamente, le so malissimo, cioè le porto dentro perfettamente e per intero. So tutto delle Puglie, devo solo continuare a scoprirlo.
Dalla prima pagina, il romanzo è infestato dai fantasmi. Cose, animali, persone diventano prima o poi lo spettro di se stessi. I fantasmi sono «la traccia che sentiamo dopo aver frequentato una persona a sufficienza perché i caratteri primari si ricombinino dentro di noi in modo via via più complesso, fino ad avere vita propria». I fantasmi sono presenze che ci condizionano, che «ci guidano, ci ossessionano con la loro voce inesausta». Questi fantasmi, oltre a rendere tutto tremendamente gotico e notturno, danno anche l’idea di cosa percorra segretamente la vita degli esseri viventi. Mi viene in mente l’inizio di una poesia di Emily Dickinson (Einaudi, 1986): «Perché gli spettri ti possiedano – / non c’è bisogno di essere una stanza – / Non c’è bisogno di essere una casa – / La mente ha corridoi – che vanno oltre / lo spazio materiale.» Da dove vengono fuori tutti questi fantasmi? Perché hai sentito l’esigenza di metterli in scena?
Mi piacciono i romanzi in cui sembra che lo scrittore scriva da morto. O che la voce narrante sia prestata dai morti. “Assalonne, Assalonne!” ad esempio è tutto così. Anche se i personaggi sono vivi, sono posseduti dall’energia dei morti. Io, per la prima volta, sono andato a caccia di questa cosa qui. E so di essermi sintonizzato, di essere stato degno di questi morti. Magari non ho avuto tutto il talento e la forza per portare fino in fondo la missione, ma so che questa volta ne sono stato degno. Non è una cosa che mi eccita o mi fa sentire migliore. È successo e basta. A un certo punto mi sono fatto mettere in una brutta situazione, però sono sopravvissuto (spiritualmente e moralmente, fino alla prossima volta), allora ho potuto fare questa cosa. Non so spiegarlo meglio.
La questione dei fantasmi mi porta a un altro punto del libro. «L’ingegno umano era libero di inventarsi le architetture più strambe, quelle che più lo illudevano di staccare l’ombra dal terreno che le aveva generate. Ma il fondo delle cose […] restava chiuso nel suo mistero. Erano i boschi di sempre. Topo segue pifferaio. Carrozza diventa zucca. Lupo mangia maialino. Ragazza in fondo al pozzo. Specchio specchio…». Quanto dici mi sembra faccia il paio con ciò che scrive Anna Maria Ortese in un bellissimo e stranissimo romanzo, L’Iguana (Adelphi, 1986), dove gli animali hanno una parte fondamentale: «Purtroppo non si tiene conto che il reale è a più strati, e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione». Mi sembrano entrambi passaggi importanti. Molto del realismo che ho ritrovato negli ultimi anni nella letteratura contemporanea mi appare come una versione monca e menomata del reale. È come se, volontariamente, si escludesse una sua larga parte – forse quella più vitale. Tu come sei arrivato ad aggiornare e allargare le forme del tuo particolare realismo? Qual è stato il percorso? Cosa ti ha portato qui?
Per esempio ho riletto quasi tutte le favole dei fratelli Grimm! La realtà è vasta e misteriosa, e noi abbiamo il solito secchiello per sottrarre qualche litro a interi oceani di ignoto. A che servono i sogni? Non si sa ancora. Se indaghiamo il mondo con i “razionali” strumenti offerti dal reale, le cose si complicano ancora di più. Per certa fisica quantistica il gatto è vivo e morto contemporaneamente. Come la mettiamo? Sottrarre al reale il 99% di ciò di cui è fatto per mancanza d’immaginazione è un crimine che il giornalismo (persino quello sulla letteratura) tollera ma la letteratura no. E neanche il cinema. Il neorealismo? Riguardiamoci “Accattone” di Pasolini. Franco Citti è tutt’altro che reale, nel senso che la sua sfera va oltre il cosiddetto mondo sensibile.
Se c’è una velo nero che aleggia sul romanzo è la colpa. Tutti sono in qualche modo colpevoli di un reato, di una violazione, di una qualche tristezza – perfino un prete. Se ognuno di loro fosse marchiato dalla colpa, sentendosi come arsi dalle fiamme dell’inferno, saremmo dalle parti de La lettera scarlatta di Nathaniel Howthorne. Invece qui regna l’inconsapevolezza. «Se gli uomini di affari non tenessero alta la soglia dell’inconsapevolezza, se lasciassero affiorare ragionamenti che in superficie esploderebbero nella loro totale contraddittorietà, non guiderebbero il mondo come fanno.» Ma questa inconsapevolezza è, appunto, una scelta. Solo che poi, per uno strano pervertimento, «Diamo la colpa al meccanismo. Come darla alla natura. Se non c’è scelta, non c’è nemmeno colpa. Fare una cosa in luogo di non farla. Farla». Forse è questo il problema, oggi. Commettere le azioni peggiori avendo anche l’arroganza di non prendersene la responsabilità. Il richiamo all’attuale ceto politico, imprenditoriale, intellettuale è inevitabile. Credi che la situazione sia davvero così drammatica? Credi che questa inconsapevolezza, di fronte a una situazione sociale sempre più votata al collasso, possa durare ancora a lungo?
Sì, credo sia come hai detto. Una miseria umana che (in quanto umana) non è mai definitivamente e del tutto irredimibile, ma ci va vicino. Una cosa è compiere un crimine consapevoli di farlo. Ma costruirsi una falsa coscienza per uscire ai propri occhi puliti dalle peggiori azioni che compiamo è proprio una cosa che mi fa arrabbiare. È una collera poveraccia a propria volta, la mia, perché di fronte all’amoralità bisognerebbe provare compassione.
Il male, l’emersione del male, perlomeno nel romanzo, che in sé ha il carattere della tragedia – più volte il motivo del destino anima le azioni dei personaggi – ha un qualcosa di etico. L’unico momento di luce, di amore reciproco senza condizioni, è quello improbabile, e per questo così potente, tra Clara e Michele. Ma, come scrive Anna Maria Ortese sempre ne L’Iguana, «essendo qualsiasi bene incentivo al male, incoraggiamento per questi a mettere fuori la sua spaventosa testina, appariva somma pietà astenersi da qualsiasi bene, acciocché la vita nel suo complesso di bene e male poco per volta deperisse, e scioltosi alfine il nodo vitale, chi o coloro avevano fatto il primo errore, avvedutisi, cambiassero sistema, ricostruendo un mondo privo affatto di male.» E a questo che tende la grandiosa caduta delle famiglia Salvemini? A una sorta di azzeramento della storia? A un modo drammatico per mettere la parola fine e ricominciare da capo?
La Storia, per fortuna, è un cimitero di aristocrazie. I grandi patrimoni finiscono in polvere e i padroni del vapore non sono mai gli stessi troppo a lungo. Sembra banale, ma ci possiamo portare nella tomba solo le nostre ossa e le nostre carni per i vermi. Niente case, niente stock options, niente fondi azionari. Se non abbiamo perduto tutto noi, ci penseranno i nostri figli, o i nipoti. Smettere di coltivare questa assurda idea di un potere (o una potenza) da tramandare, significherebbe iniziare a poter essere felici. Il potere non si tramanda a lungo. Si tramanda a lungo solo il male che facciamo e il bene che riceviamo. Il male va estinto e il bene alimentato per quel che si può. Questo dovrebbe essere il compito che una generazione dovrebbe provare ad assolvere rispetto alla precedente. Ovviamente non ci si riesce mai. Ma questa dovrebbe essere la missione. O meglio il compito.
Georg Trakl è il nume tutelare de La ferocia. Non solo è citato più volte. Uno dei suoi versi più noti, «Dove passi tu si fa autunno e sera», sbuca tra le righe del romanzo. E se vogliamo, l’inizio di una sua poesia, Anima della vita (Garzanti, 1983), folgora in poche battute l’anima del romanzo: «Sfacimento che molle il fogliame oscura, / dimora nel bosco il suo vasto silenzio. / Un borgo sembra quasi spettralmente chinarsi. / Della sorella la bocca sussurra in neri rami.» A cosa è dovuta la tua passione per Trakl? Perché il suo fantasma si aggira senza pace nel romanzo?
Be’, Trakl ebbe una relazione incestuosa con sua sorella Grete. Fu un veggente, più ancora di Rimbaud. Ma sono i versi delle sue poesie, davvero incredibili. Raccontare qualcosa mostrandoci tutt’altro. Questo lo sanno fare solo i grandissimi. Nelle più grandi poesie di Trakl vengono anticipati gli orrori della Prima guerra mondiale, il disastro (fisico, politico, ma anche spirituale, sentimentale) in cui l’Europa sta per crollare. Eppure (a parte le ultime poesie, quelle del 1914) non si parla di guerra nei suoi versi. Ci sono solo corvi neri nel cielo, vitigni, alberi alla sera, vino nei tini di legno. Come fa? Come fanno, questi semplici versi, a suggerire tutt’altro? Il mistero della grandissima letteratura è incredibile, roba da brividi.
Un’altra presenza molto forte di mi sembra quella di David Lynch. Se leggo una cosa come «La città gli passava davanti come da un’altra dimensione. Una grande casa silenziosa immersa nel verde. Una tavola di legno tra le erbacce. Sotto si muoveva un mondo oscuro e senza forma, radici contorte, piccoli insetti ciechi, la presenza fosforescente di sua sorella Clara.», non posso fare a meno di pensare al formidabile attacco di Blue Velvet (1986), dove alle prime inquadrature di un borgo delizioso come lo zucchero filato segue lo zoom su microscopici insetti che, sotto il tappeto curatissimo del giardino, divorano con rumori da banchetto infernale tutto ciò che trovano. Quanto ti è stata utile la conoscenza dei suoi film?
“Blue Velvet” tra l’altro compare senza essere mai citato quando Clara va al cinema con Giannelli e i due iniziano a baciarsi mentre, sullo schermo, Dennis Hopper picchia selvaggiamente Isabella Rossellini. David Lynch mi è stato molto utile due volte. Una, come antidoto contro la solitudine, quando, tanti anni fa, vivevo a Milano in una situazione da mezzo baraccato, senza amici, senza quasi più soldi, senza ancora un lavoro. Andai a vedermi “Lost Highway” da solo alle 18.30 in un brutto cinema del centro. La seconda, anni dopo, quando a Roma, in una situazione (economica, sentimentale, esistenziale) più fortunata, anzi molto più fortunata, andai a vedere con due amici a cui sono tutt’ora legatissimo “Mulholland Drive”. Ma David Lynch, per me, è anche l’autore di “Cuore selvaggio”. Eccessivo quanto volete, ma terminò l’opera di rivoltamento del calzino che fu la mia adolescenza. È anche il film culto di mia moglie. La quale moglie porta tatuato sulla nuca un’altra parola magica: Heathcliff. Tutto torna. Su queste cose, ovviamente, in famiglia scherziamo e ridiamo molto.
«Parlo della struttura come potremmo parlare della struttura di questo tavolo e di questa tazza; è una parola che mi sembra un po’ più ricca e un po’ più ampia della parola forma, perché «struttura» ha un che di intenzionale: la forma può essere data dalla natura, mentre la struttura presuppone un’intelligenza e una volontà che organizzano qualcosa per articolarlo e dargli struttura.» Sono parole di Julio Cortázar, tratte da Lezioni di letteratura (Einaudi, 2014). Se c’è una cosa su cui, penso, tu abbia lavorato molto, è proprio la struttura. Tra le altre cose, scrivi per scene – ma queste scene, che potrebbero sembrare autosufficienti, si assestano e si completano solo quando sono riprese e rinarrate, anche molto tempo dopo, da un altro lato, da un altro personaggio, da un altro punto di vista. La composizione delle scene è prismatica – e il romanzo non è altro che un prisma più ampio che li racchiude tutti. Per avere la completezza dei fatti, bisogna che il lettore combini insieme tutte le facce del prisma. E non è solo per questioni di suspense. Non è solo qualcosa di modernista. Questa struttura è qualcosa che nobilita e salva il mondo che allestisci, proprio perché lo rende intellegibile in ogni suo punto. E come se tu dimostrassi un’enorme fiducia nel romanzo, nelle possibilità della letteratura, nella possibilità «di passare dalla realtà sensibile al suo ripensamento», nella possibilità che qualsiasi cosa, dalla più evidente alla più impercettibile, possa essere illuminata, capita e tramandata. Proprio per questo, nel paesaggio disperato che tratteggi nel romanzo, la struttura sotterranea che sostiene tutto risalta come un motivo di speranza e di riscatto. È così?

È così, assolutamente così. Ti ringrazio. L’hai detto meglio di quanto avrei potuto fare io.
Lo stile, rispetto ai tuoi libri precedenti, è piuttosto cambiato. È più asciutto, più stringato, più incisivo. La paratassi è uno degli strumenti a cui ricorri di più. Al discorso colmo di volute e divagazioni hai preferito la costruzione di immagini nitide e perentorie. Traendo delle similitudini sempre dal mondo animale, è come se tu avessi dismesso i tentacoli, uno stile accogliente e tentacolare, per ricorrere a delle continue zampate. In questo modo, mettendo da parte gli artifici di una ricchissima e debordante prosa post-moderna, hai reso le scene molto più drammatiche e i tuoi personaggi hanno acquisito un carattere tragico. Come sei arrivato a questo stile? A cosa è dovuto?

Al fatto, credo, che tra un libro e l’altro sono passati cinque anni. E in questi cinque anni mi è successo di tutto. Intendo nella mia vita privata. Sono successe cose drammatiche, ma (per fortuna) molto spesso senza effetti irreversibili. Mi sono sposato. La mia migliore amica ha fatto una figlia. In questi anni la mia vita ha avuto proprio un’accelerazione. Sono cambiato io, è cambiata l’urgenza, è cambiato lo stile. Il problema era semmai mettersi in sintonia con questi cambiamenti. Comprenderli, assecondarli. Purtroppo io non comprendo mai benissimo queste cose al primo colpo. Ci me-to tempo, vado per tentativi. Poi all’improvviso ci sono, e a quel punto so abbastanza bene cosa fare.
Sempre riguardo allo stile, è davvero molto efficace l’uso che fai delle frasi nominali. Non solo sono percussive, ritmiche, ellittiche – a volte sembrano piccole sinapsi che collegano con grande forza ed economia cose che toccano lo stesso argomento ma che in realtà potrebbero sembrare lontane. Sinapsi o piccole spille che connettono i lembi di discorsi differenti. Copio una parte lunga e molto bella per rendere l’idea.
«Certe notti [Vittorio] osservava il cielo stellato – la linea del mondo stava di nuovo ruotando su se stessa, e lui temeva che lo spettacolo si consumasse fuori dal suo punto di vista.
Clara.
Dalla finestra aperta entrò una coccinella. Un anonimo chicco nero si trasformò nel bel guscio vermiglio venendo fuori dal buio della notte. Il volo, lento e tremolante, si sarebbe potuto spegnere con un battito di mani. L’aspetto piacevole rendeva per gli uomini piuttosto rara l’evenienza. Gli uccelli venivano ingannati per il motivo opposto – associavano quel rosso punteggiato alla velenosità di funghi e bacche. In questo modo le piccole coccinelle potevano meglio interpretare il ruolo che la natura aveva affidato loro: arrivavano a divorare anche cento afidi al giorno, e lo facevano con una voracità, una rapidità, un freddo convulsivo movimento mascellare che in scala sarebbe risultato insostenibile per la sensibilità degli uomini.»
Ecco, grazie a quel «Clara.», al modo in cui collega due paragrafi distinti, veniamo a conoscenza di talmente tante cose su Vittorio, la figlia, il loro rapporto, la natura, lo stato di natura, che al contrario ci sarebbero volute chissà quante pagine per rendere l’idea. Come sei arrivato a questo accorgimento stilistico? Lo hai mutuato dalla lettura di poesia? Se sì, quale lettura è stata più fertile?

Non lo so con precisione. Sono passato attraverso tutte le cose che ti ho raccontato, e a un certo punto padroneggiavo quello stile lì. Anzi, era l’unico stile possibile per il tipo di romanzo che mi chiamava a sé. Una volta individuata la mia fiera notturna, che era anche la mia preda, diventava inevitabile catturarla con quel tipo di rete, o strategia. Ma l’importante era capire che bestia fosse. Vederla nella notte, appunto. Questa è stata all’inizio la cosa davvero difficile.

In esergo al romanzo hai riportato una frase di Niels Bohr, «La predizione è molto ardua, soprattutto se riguarda il futuro.» Il futuro, per quanto possiamo capirne oggi, avanza sotto la spinta illimitata di internet. Ma nel romanzo, ogni volta che il web viene citato, sembra apparire una triste foschia. «Adesso sulle reti viaggiavano algoritmi che emettevano enormi ordini di acquisto, li cancellavano una frazione prima che diventassero operativi ed emettevano all’istante nuovi ordini in modo da lucrare sulle variazioni da essi stesse generate». Cosa ne pensi di questa specie di futuro che si intravede da qui?


La Rete è il luogo in cui alcune menti ebbre di violenza scaricano tutto il loro malessere. È il regno di Google e dei grandi monopoli, e dunque delle grandi scandalose disparità. Però è anche l’elemento senza il quale un’intervista come questa non sarebbe stata possibile.



Pubblicato da
 il 14 ottobre 2014 su  http://www.nazioneindiana.com

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