Virginia Woolf alla National Portrait Gallery. Art, Life and Vision
di Antonio Bibbò
La storia di Virginia Woolf è sempre
stata anche la storia dei luoghi da lei abitati. È accaduto per sua
stessa volontà, come si può leggere nei diari e nelle lettere, in cui
notevole spazio è dedicato alle case, alle stanze, alle faccende
domestiche e all’ambiente migliore per scrivere. E appare perciò
naturale che la mostra “Virginia Woolf. Art, Life and Vision”
alla National Portrait Gallery di Londra (aperta fino al 26 ottobre),
cominci con una foto della casa di Tavistock Square, distrutta da un
bombardamento nell’ottobre del 1940. In quella foto si riconosce ancora
una parete dello studio dei coniugi Woolf, con le decorazioni di Duncan
Grant e Vanessa Bell: la prima reazione della grande modernista,
registrata nei diari, è proprio la nostalgia per quelle rovine e per
quella sala, “dove ho scritto tanti libri”. Ma non meno importanti sono
le persone, è scontato dirlo. La sicurezza che emana da vere e proprie
imprese stilistiche come The Waves e Orlando era
sempre accompagnata e controbilanciata in Woolf da un senso di
inadeguatezza e dal bisogno di conquistare i lettori, soprattutto quelli
più vicini a lei. Un bisogno che diventa quasi patologico, e viene
riconosciuto anche dal marito Leonard Woolf come tale, in particolare
verso la conclusione della carriera, nei terribili anni della scrittura
di The Years. Dovendo preparare una mostra-ritratto su Virginia
Woolf, dev’essere sembrato perciò un atto dovuto alla curatrice Frances
Spalding, storica dell’arte, critica e autrice di numerose biografie di
artisti gravitanti intorno al circolo di Bloomsbury, miscelare il più
possibile i luoghi e le persone, quelli del passato e del presente,
seguendo i legami e alle volte allontanandosi perfino da Woolf stessa
per esplorarne i dintorni biografici.
Se la mostra si apre con una
gigantografia di Virginia Woolf quasi cinquantenne, una parete della
prima sala è dedicata quasi del tutto ai “vittoriani eminenti” che la
circondavano, quotidianamente, nell’infanzia; da Henry James, al pittore
C.F. Watts, da Tennyson alla prozia, la fotografa Julia Margaret
Cameron, alla quale si devono molti di questi ritratti. La sensazione
che si prova all’inizio della mostra è perciò un breve e piacevole
spaesamento. Virginia (allora Stephen) è poco presente e le prime pareti
sono occupate quasi del tutto dalle foto della famiglia, molto
allargata, e dagli amici letterati che frequentavano casa Stephen. Un
parallelo viene subito tracciato tra lei e la madre, Julia Prinsep
Duckworth, ritratta di profilo dalla zia Cameron nel 1867,
come la stessa Virginia nel pannello immediatamente successivo. Il peso del passato è il filo conduttore della mostra e, poco più avanti, questo sarà confermato da una foto di Little Holland House, una casa che Virginia non vedrà mai, ma il cui ricordo portatole dalle parole degli altri la ossessionerà a lungo.
Ripensando all’accumulo di informazioni
centrali e tangenziali su cui è costruita questa bella, ma forse troppo
piccola, mostra, viene in mente una graziosa commedia, Freshwater,
recentemente tradotta in italiano da Chiara Valerio per Nottetempo. I
personaggi della commedia sono quelli dei primi ritratti, da Tennyson a
Cameron. In quel volumetto, che includeva saggi, brani autobiografici, e
scritti variamente legati alla commedia del titolo, si poneva l’accento
sul carattere rapsodico e reticolare del macrotesto woolfiano, in cui
la polifonia e la moltiplicazione delle prospettive sostanziano la
pratica stessa della scrittura prima ancora dello stile. A questo, la
mostra della National Portrait Gallery dà una simile attenzione.
Il catalogo di Frances Spalding (che è
una vera e propria biografia per parole e immagini) rende le connessioni
ancora più chiare di quanto non facciano le didascalie, ma
l’impressione che anche il visitatore a digiuno di modernismo ricava è
quella di una vita affollata di personaggi grandiosi, di giganti al
tempo stesso inquietanti e quotidiani: come nella meravigliosa foto del
1894 in cui Henry James è tranquillamente seduto sugli scalini a
leggere, mentre Adrian (fratello minore di Virginia) e Julia Stephen lo
guardano e sono gli unici due che sembrano in posa, e Leslie Stephen (il
padre) appare beatamente ignorante di ciò che sta accadendo, seduto di
spalle su una sedia di vimini. Come il futuro circolo di Bloomsbury,
molto ben rappresentato nella mostra, anche quello degli amici e
colleghi degli Stephen era tutt’altro che un circolo chiuso e ben
definito. Il carattere rizomatico della mostra, nei suoi continui
andirivieni nel tempo, e nelle sue esplorazioni repentine di rami della
famiglia solo apparentemente meno centrali, sembra rispettare questa
flessibilità e curiosa apertura.
Come la prosa di Virginia Woolf, la
mostra si struttura intorno a frequenti ritorni e perciò racconta molte
storie parallele mentre le intesse con quella dell’autrice. È il
presente a richiamare il passato: dopo essere stata ritratta nel 1939,
prima malvolentieri, poi prendendoci gusto e perfino cambiandosi più
volte d’abito, da Gisèle Freund, una tedesca di casa a Parigi che
ritraeva scrittori impiegando un’innovativa pellicola a colori, Woolf le
dice orgogliosa di avere una pioniera della fotografia in famiglia,
J.M. Cameron, e le mostra una pubblicazione della Hogarth Press con le
sue foto, risalenti ai primordi della ritrattistica fotografica. Le foto
di Gisèle Freund erano note solo in bianco e nero, ed è di questa
mostra il merito di restituirne le sfumature e i colori che ci
permettono di apprezzare i toni del salotto dei coniugi Woolf.
E la pittura non è meno presente della
fotografia. Assistiamo in queste sale a serrati confronti tra Vanessa
Bell, Roger Fry e Duncan Grant, colti nell’evoluzione dei rispettivi
stili, spesso perfino alle prese con lo stesso soggetto: Virginia Woolf.
In particolare a Duncan Grant è dedicata quasi una micro personale
(continua nella collezione permanente della NPG, soprattutto con un
meraviglioso ritratto di Vanessa Bell), che ne mette in risalto i
mutamenti nello stile, dai primi dipinti, eduardiani e ricchi di
dettagli, al tratto sempre più spezzato e grossolano,
post-impressionista, degli anni successivi, quella che Vanessa chiamava
“Duncan’s leopard manner”. Nell’ultimo quadro di Grant, un ritratto di
Vanessa, il bianco invade la tela come uno iato, i tratti, sempre più
corposi lasciano spazio al non detto. Il parallelo tra la prosa di Woolf
e la pittura post-impressionista, come scriveva alla stessa autrice
Roger Fry, non potrebbe essere più chiaro.
Nelle sale centrali, ci si concentra,
come è naturale che sia, sulle opere di Woolf e sui libri stampati dalla
Hogarth Press, la casa editrice che i Woolf fondarono nel 1917. Copie
dei primi libri editi (da Two Stories, 1917 a The Waste Land di Eliot, 1922) sono accompagnate da opere meno note come Paris
di Hope Mirrless (1920). Le splendide copertine (talvolta frutto di una
ricerca estenuante di carte dai disegni e dalle fantasie nuove, e alle
volte affidate a Vanessa) rappresentano di certo un aspetto
interessante, ma mostrare qualcuna delle xilografie all’interno, spesso
anch’esse di Vanessa Bell –il cui sodalizio con Virginia è stato
esplorato in tempi recenti da Flora De Giovanni e Jane Dunn– avrebbe
allargato ancora di più lo spettro dell’espressione artistica della
sorella. In questo senso il catalogo è un ideale complemento alla
mostra, anche per i vari esempi di impaginazione modernista ai quali i
coniugi Woolf erano spinti da autori esigenti come Eliot e Mirrless. E
anche qui, la mostra non parla solo di ciò che riguardava Woolf da
vicino, ma esplora anche i dintorni e soprattutto i “se” della storia
privata e della carriera da editori della coppia. Una copia originale di
Ulysses di James Joyce, nella sua copertina “azzurra come la
bandiera greca” quasi sovrasta le opere della Hogarth. Secondo la
didascalia, il capolavoro di Joyce non sarebbe stato stampato da loro
per via della mole del volume. In ogni caso, è un’aggiunta ulteriore
agli scarsi e spesso contraddittori dati sull’ambiguo legame tra Woolf e
Joyce e manifesta ancora più chiaramente quanto una delle idee su cui
si basa la mostra, in perfetta armonia con Woolf stessa, sia quella dei
futuri probabili, quella delle strade non prese ma possibili.
Ma un ritratto è un’interpretazione,
anche quando prende la forma di una mostra. E il ruolo del padre
nell’opera di Virginia Woolf, chiaro da To the Lighthouse a The Years
almeno, è confermato da una curiosa scelta: quella di appendere una
foto di Leslie Stephen sopra una foto di Sigmund Freud (di cui la
Hogarth Press stava preparando l’edizione standard inglese, nella
traduzione di James Strachey). È l’ultima parete della mostra, dedicata
agli ultimi anni, e questo ritorno a Stephen, morto da oltre trent’anni,
è sorprendente. Il viso non è più quello severo della prima sala: negli
occhi gli si riconosce la brillantezza che si vedeva già nelle prime
foto di Virginia e di Thoby, il “fratello maggiore ideale, bello e
sincero”, ma lo sguardo è quasi spaurito; sembra perciò una scelta molto
forte quella di mettere proprio questa foto sopra quella di un Freud
nel suo studio, in una posa simile a quella del San Gerolamo della
tradizione, quasi in bilico su un pavimento inclinato. La didascalia ci
ricorda l’evoluzione di Leslie Stephen agli occhi della figlia. Il
burbero Ramsey ha ceduto il posto al personaggio ambivalente dei diari e
degli scritti autobiografici, affettuoso eppur spesso malinconico ed
egoista; un personaggio molto simile, si potrebbe azzardare, al bonario
Abel Pargiter, il capofamiglia di The Years.
E come nei romanzi e nei saggi di Woolf,
nell’ultima sala, intitolata in modo opportuno: “Thinking is my
fighting”, la storia e la guerra fanno irruzione. Anche in questo caso,
per completare il materiale della mostra, è meglio salire le scale verso
la sala verso la collezione permanente dedicata al primo Novecento, e
passeggiare tra le foto delle suffragette e dei ritratti del tempo di
guerra (la seconda). Eppure la precisa selezione trasmette ugualmente il
senso di precarietà, biografica e sociale, di quegli anni. Il bastone
ritrovato nel luogo del suicidio è vicino alla copia del Libro Nero
(1940) del controspionaggio nazista, in cui tra gli oltre 2800 artisti e
intellettuali messi all’indice dai servizi segreti di Hitler, ci sono i
nomi di Virginia e Leonard Woolf. Più a sinistra c’è un volantino che
ritrae dei bambini vittime di un bombardamento a Getafe nel 1936, una
foto in tutto simile a quella ricordata all’inizio di Three Guineas.
Un ritratto quindi necessariamente
composito, quello della mostra, che affianca immagini più rilassate e
serene (come la foto di Man Ray del 1934) ad altre più inquiete, come il
busto dallo sguardo sbigottito realizzato da Stephen Tomlin nel 1931 e
ripreso anche dalla natura morta di Duncan Grant, in cui però la bocca
di Virginia Woolf è socchiusa, il busto stesso diventa più chiaro, quasi
ocra, e l’espressione è più rassegnata e in pace. Ma è forse il lato
oscuro della scrittrice a essere più presente. Dalle cinque sale della
NPG, infatti, prende forma un ritratto di Virginia Woolf più serioso di
quello al quale ci hanno abituato recenti ricognizioni. La Woolf del
Dreadnought Hoax, quella intimamente ribelle e sarcastica, quella più
semplicemente giocosa, non è solo l’effetto di un gusto relativamente
recente per la demitizzazione, in particolare dei Grandi Modernisti, ma
un elemento importante nella ricostruzione della personalità della
scrittrice. Questo è messo un po’ da parte in questa mostra, se si
eccettuano una rara foto in spiaggia con Strachey e un album di foto
poco note fatte da Ottoline Morrell –mostrate però in alternanza su uno
schermo, l’unico della mostra- in cui emerge una Woolf più quotidiana e
sempre circondata da ospiti e amici, colta nel vivo della conversazione o
nella tranquillità di una sigaretta. Ma una lettera, forse, riscatta la
mostra anche in questo senso. Appena trentenne, dopo essere stata
chiesta in moglie da un riluttante Lytton Strachey (che dichiarò in
seguito di avere il terrore che Virginia potesse finire per baciarlo) e
aver rifiutato, Virginia Stephen finalmente accettò la corte di Leonard
Woolf e i due si fidanzarono nell’estate del 1912. I promessi sposi non
trovarono di meglio che comunicarlo a Lytton Strachey con una lettera il
cui testo possiamo riprodurre integralmente:
Ha! Ha!
Virginia Stephen
Leonard Woolf
Leonard Woolf
Articolo pubblicato
8 ottobre 2014 su http://www.leparoleelecose.it/
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