04 novembre 2014

ANDIAMO A VEDERE L'ULTIMO FILM DI ERMANNO OLMI



«Torneranno i prati» di Ermanno Olmi nelle sale da giovedì: omaggio ai soldati caduti nella grande guerra e feroce atto di accusa. Un film intenso che stride con le celebrazioni del centenario e che guarda invece nella vita e nella morte delle persone.

Cristina Piccino

Le ombre in trincea dei traditi della Storia

Un giorno tor­nerà l’erba, tor­ne­ranno i prati e tutto quelloche abbiamo patito non sem­brerà nem­meno vero …. Lo dice par­lando con gli occhi fissi all’obiettivo, come in una vec­chia foto­gra­fia un po’ sbia­dita. È stanco quell’uomo, e non ha più sto­rie da rac­con­tare, poco prima altri come lui, sem­pre guar­dan­doci diritto in fac­cia, ci hanno detto di vite pas­sate nelle miniere d’Europa, tra Fran­cia e Bel­gio, e di fami­glie lasciate troppo pre­sto tanto da avere per­duto i con­torni dei loro visi. Di ran­cori amari, rab­biosi come l’istante di chi tor­nando a casa si sco­pre tra­dito dall’amata. Di desi­deri sem­plici, vedere cre­scere i pro­pri figli e rima­nere al mondo. Ven­gono da lon­tano que­gli uomini strac­ciati, feb­bri­ci­tanti, con gli animi feriti, e aspet­tano, sospesi nel silen­zio di una neve bian­chis­sima, quasi irreale, che li avvolge sopra e sotto al cielo.

Tor­ne­ranno i prati è il nuovo film di Ermanno Olmi — da gio­vedì in sala, oggi in ante­prima in cento paesi — che il regi­sta ha girato sull’Altopiano di Asiago, dove vive, sfi­dando un inverno ghiac­ciato insieme agli attori e alla troupe per­ché di quello che rac­con­tava voleva che si sen­tisse anche la fisi­cità dei luo­ghi e della fatica. E però non è que­sto, non solo almeno, che da al film la sua verità.

Si parla della Prima guerra mon­diale, nel cen­te­na­rio dell’inizio, ma Olmi (sua la sce­neg­gia­tura men­tre alla regia ha col­la­bo­rato Mau­ri­zio Zac­caro), che ha lavo­rato ispi­ran­dosi al libro di Fede­rico De Roberto, agli archivi, alle let­tere dei sol­dati, da quella trin­cea sca­vata in mezzo ai boschi, e in mezzo al nulla, allarga lo sguardo alla con­di­zione umana, al nostro con­tem­po­ra­neo fra­gile di vio­lenza, all’assurdità di ogni con­flitto per­ché se si muore si muore dav­vero e all’improvviso tutto quello per cui accade appare privo di senso, svuo­tato di logica, negato come il futuro di quel tempo fermo, che si declina sol­tanto al pre­sente: qui e ora.



Dopo non c’è più nulla, non ci sono più i sogni, non ci sono più gli ideali, non serve a niente la giu­sti­zia come com­menta il capi­tano prima di strap­parsi i gradi, ribel­lan­dosi a «ordini cri­mi­nali» per sal­vare i suoi uomini, e spa­rire così dal qua­dro. E non c’è nem­meno dio, che non si è «sco­mo­dato» manco per il figlio morto in croce, la morte si scon­figge resti­tuendo alle vite per­dute una voce, una sto­ria, una memo­ria.

Siamo in trin­cea, la neve ha per­messo una tre­gua, e nono­stante i malanni — è un’influenza bal­ca­nica dirà il mag­giore ben vestito e nutrito arri­vato lassù per por­tare nuovi ordini — gli uomini al fronte sono quasi con­tenti del freddo che rende tutto impos­si­bile, anche la guerra. Fin­ché non ritorna il sol­dato col ran­cio, le let­tere da casa e insieme a lui il rombo dei cannoni …

Al comando vogliono aprire un nuovo avam­po­sto per le comu­ni­ca­zioni, quello che c’è è stato inter­cet­tato dagli austriaci che stanno pre­pa­rando una grossa offen­siva lì a nor­dest. Il comando chiede al capi­tano di man­dare su, verso la cima, i suoi sol­dati, ma quei pochi passi nella neve sareb­bero letali, i cec­chini non lasciano scampo e la notte, per­ché vogliono che sia fatto entro mezz’ora, è lim­pida di luna. Il primo muore, il secondo anche, il terzo chiede di pisciare per­ché anche alle bestie al macello si con­cede di farlo prima di morire.



Chi ha dato gli ordini stava seduto in uffi­cio como­da­mente, a pren­dersi le pal­lot­tole sono altri, pove­racci che non hanno scelta … È que­sta qui la guerra? E quando il gio­vane tenen­tino prende il comando, i suoi studi e le sue spe­ranze in poco più di un’ora sem­brano sva­nire sotto le bombe come la sua gio­vi­nezza e quella di tanti altri, chi muore e chi soprav­vi­verà e quella morte se la por­terà den­tro per sempre.

Sui bordi delle imma­gini gelate (nella foto­gra­fia densa di Fabio Olmi), Olmi illu­mina dun­que quella Sto­ria che stride con l’«ufficiale» di cele­bra­zioni e atti eroici, e guarda invece nella vita (e nella morte) delle per­sone, negli istanti della loro paura e nei desi­deri di feli­cità, in quell’esercizio di soprav­vi­venza che per qual­cuno è riu­scire ancora a stu­pirsi di fronte a un albero di licheno imma­gi­nando le sue foglie dorate nell’autunno.

Lui la guerra l’ha cono­sciuta dai rac­conti del padre, c’era nei per­so­naggi dei Recu­pe­ranti, il suo film del 1970 di cui ritro­viamo il rimando al pastore Toni Lunardo con la sua sag­gezza antica che «la guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Den­tro all’avamposto che di quel mondo sem­bra essere l’essenza, con­cen­trata nel silen­zio assor­dante dell’attesa, Olmi ci parla anche dell’Italia di cent’anni fa, con­ta­dina, e anal­fa­beta, di una guerra di classe che a morire man­dava chi era povero, di un Paese fatto da tante lin­gue che si mischiano in uno spa­zio stretto dove l’unità diventa reci­proca compassione.



I suoi sol­dati sem­brano fan­ta­smi, ombre che sci­vo­lano nel bian­core di una memo­ria che li ha offu­scati, e che all’improvviso invece tro­vano di nuovo vita dicen­doci che non è la «guerra di trin­cea» come si è defi­nita la Prima guerra mon­diale, ma un mas­sa­cro feroce in cui il secolo appena nato perde anch’esso la spen­sie­ra­tezza nel trauma che lo segnerà per sem­pre. 

Il tempo si dilata, la notte che è quando si svol­gono i fatti diventa infi­nita pur non essen­doci nes­sun oriz­zonte, Olmi non esce mai dalla trin­cea, come i sol­dati; il tempo è un fru­scio nel silen­zio che per­mette di intuire l’attacco, è una can­zone napo­le­tana che da un momento di gioia, ma adesso anche quella tace per­ché non si canta se il cuore non è con­tento. Cosa rimane è dolore, corpi senza vita, la pol­vere che sem­bra coprire già tutto prima che sia finito. Così che quel tor­ne­ranno i prati del titolo, più che un augu­rio appare come la con­danna, la con­sa­pe­vo­lezza dell’oblio.

Ma qui è anche la sfida di Olmi, che con com­muo­vente deli­ca­tezza ci inter­roga, e inter­roga il mondo; nel corpo a corpo diretto, modu­lato dal respiro del mon­tag­gio di Paolo Cot­ti­gnola e della musica di Paolo Fresu, con l’idea di una Sto­ria non ci sono rispo­ste ras­si­cu­ranti, alle super­fici piane lui pre­di­lige le pie­ghe, i risvolti dei vis­suti, di morti che hanno un volto, una parola, e solo così ci pos­sono dire cosa è una guerra, col suo tempo immo­bile come la morte, a cui Olmi lascia solo qual­che pic­colo punto di fuga di chi esce verso l’ignoto dal qua­dro. Il tempo que­gli uomini li ha immo­bi­liz­zati lì, il cinema ne riscrive la sto­ria viva in que­sta magni­fica «lezione» di umanità.


Il Manifesto – 4 novembre 2014

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