11 novembre 2014

CI CHIAMAVANO "ROSPI"



Diffidenza, disprezzo, disastri di mare: nel monumentale “Dizionario enciclopedico” della nostra migrazione tutti i dati, i nomi e storie che richiamano vicende d’oggi.
Giorgio Boatti

Quando gli italiani erano “rospi”


Nel mondo attuale nessuno sta fermo per sempre e l’Italia non fa certo eccezione: siamo un po’ tutti «migranti» dopo essere stati «emigranti» o «immigrati» e, dunque, non a caso proprio su questo fenomeno fa efficacemente rotta il Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo (Demim) realizzato su progetto di Tiziana Grassi Donat-Cattin e voluto dalla Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana. 

Inoltrarsi nelle 1500 pagine di quest’opera porta ogni lettore quanto mai lontano, anche dalle sicurezze che crede di avere. Il repertorio dei termini spregiativi attribuiti agli italiani nei diversi Paesi dove emigravano fa comprendere come lo stare a casa d’altri fosse una sfida difficile. In Germania eravamo gli «Ithaker» (da Itaca, ovvero eterni vagabondi), in Francia i «babis» (rospi), in America Latina ci chiamavano «burros» (asini) o «polpettos». E se qualcuno pensa che la «migrazione» non abbia mai toccato da vicino la sua famiglia, faccia una verifica. Consulti una delle banche dati sugli sbarchi di italiani a New York o a Buenos Aires, approdi tra i più significativi dell’esodo che tra Ottocento e Novecento porta lontano dalla patria decine di milioni di nostri connazionali. 

Ad esempio andando al sito del Cemla, Centro de Estudios Migratorios Latino-Americanos, www.cemla.com, ho finalmente saputo chi e quanti Boatti sono sbarcati a Buenos Aires tra il 1800 e il 1960. Di ognuno, oltre all’età e al mestiere, sono riportati anche nome della nave su cui ha viaggiato, data e porto di partenza, giorno dell’arrivo. Non c’è migrante che sia sfuggito ai registri del porto argentino. Se si cerca il cognome Bergoglio la banca dati vi ragguaglia all’istante sull’arrivo di Mario Bergoglio, 21 anni, il padre di papa Francesco, giunto dal Piemonte a Buenos Aires il 15 febbraio 1929 assieme a Giovanni Bergoglio, 45 anni, il nonno dell’attuale pontefice.

A lungo le condizioni della traversata atlantica per i passeggeri di terza classe erano state simili a trasporti di mandrie umane. Dai primi decenni del Novecento le cose, però, erano cambiate. A colazione in terza classe si distribuiva caffè, zucchero, pane a volontà (a volte con acciughe). Per pranzo in tavola arrivava una minestra (magra o grassa), un piatto di lesso, pane e un quarto di vino. A cena - servita alle 6 pomeridiane - si offriva ancora minestra, carne e legumi. 
Migranti italiani affogati sulla spiaggia di Cartagena

Il Demim si sofferma ampiamente sulle vie del mare e, di conseguenza, anche sui tragici naufragi che - proprio come le cronache mediterranee di questi nostri mesi - punteggiavano le rotte degli emigranti. Vi sono disastri come quello del vapore Sirio, affondato con 1500 migranti a bordo, il Mafalda, colato a picco per un’avaria, il Matteo Bruzzo, che butta a mare centinaia di cadaveri per un’epidemia a bordo. 

Ma le strade dell’emigrazione procedevano anche via terra, lungo i binari delle ferrovie. Chi nel dopoguerra dall’Italia puntava verso la Germania approdava quasi sempre al binario 11 della stazione di Monaco di Baviera: un universo che senza la voce del Dizionario rischierebbe di scomparire assieme al ricordo del periodo, non così lontano, in cui gli emigranti eravamo noi, non gli altri. Anni in cui l’Italia appena uscita dalle devastazioni belliche firmava col Belgio l’accordo «uomo-carbone»: per ogni connazionale mandato nelle miniere belghe Bruxelles avrebbe fornito alle nostre industrie 2,5 tonnellate e mezzo di carbone. 

A rammentare queste realtà sono sorti in diverse regioni italiane musei dedicati all’emigrazione e monumenti all’emigrante. Molti di questi monumenti hanno in comune la rappresentazione della valigia che ogni emigrante teneva stretta, facendone un tutto unico col suo corpo che, combattuto tra nostalgia e speranza, andava incontro all’ignoto. La valigia era quanto rimaneva del mondo che ogni emigrante si lasciava alle spalle e al quale cercava di rimaner radicato.
A volte non solo metaforicamente. Spesso infatti in valigia prendevano posto, in sacchetti di iuta, non solo i legumi, i semi degli ortaggi e i chicchi dei cereali della terra di casa, ma anche alcune viti della vigna di famiglia, nella speranza di poterla far rinascere nel paese di destinazione. Affinché nel corso della lunga navigazione le viti non si seccassero si infilava ogni talea dentro una patata e la si teneva al buio, in valigia, fino allo sbarco. 

Nell’Italia attuale il «paese con la valigia», ovvero il Comune che detiene il primato della maggior percentuale di residenti all’estero rispetto alla popolazione, è una località del Piemonte, Roasio, dove un quarto dei 2457 abitanti, seguendo una tradizione sviluppatasi sin dall’Ottocento, opera in grandi imprese impegnate nella costruzione di infrastrutture nelle più importanti nazioni dell’Africa. 

Appendici statistiche e schede documentarie ampiamente presenti nel Demim e articolate per regioni e città restituiscono a ogni dinamica migratoria la sua originale concretezza. Emergono così le filiere di migranti che riuscivano, partendo da uno specifico territorio, a volte non più vasto di una vallata, a conquistare il predominio su rilevanti mestieri in grandi metropoli.
I friulani ad esempio monopolizzavano i posti da infermiere negli ospedali di Buenos Aires. Nell’edilizia, in Francia, andavano forte i piemontesi, mentre gli impianti di riscaldamento di Parigi erano per lo più affidati a lavoratori arrivati dall’Appennino parmense e piacentino. Le modelle ciociare erano le preferite negli atelier dei pittori, mentre le stiratrici dei grandi alberghi erano rigorosamente valdostane. Altri tempi. Tutt’altro che distanti, tuttavia, dai copioni che oggi, mutando volti e lingue dei migranti, vanno in scena nelle nostre città. 


La Stampa – 10 novembre 2014

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