06 novembre 2014

LA PIETROBURGO DI ANDREJ BELYJ


Torna in libreria il capolavoro di Andrej Belyj.  Negli anni dieci del ’900 intravvide dietro lo splendore architettonico di Pietroburgo una città di morti. Una visione notturna di un campo di macerie. Poi nel 1917 sarebbero arrivate le guardie rosse....

Enzo Di Mauro
Andrej Belyj, Pietroburgo a precipizio nel romanzo spietato


Nel 2003, quando si svol­sero i festeg­gia­menti per i tre­cento anni della fon­da­zione di Pie­tro­burgo, il romanzo di Andrej Belyj a quella città inti­to­lato fu riletto, misu­rato e discusso come il reso­conto postremo di un mito che cor­ro­borò il grande, irri­pe­ti­bile Otto­cento russo di linfe fan­ta­sti­che, di geo­me­trie scre­ziate e insi­diose, di imma­gini e di visioni ana­mor­fi­che, di umori cor­ro­sivi, vele­nosi, mal­sani.

Parve e si disse insomma, in sede di bilan­cio cri­tico, sto­rico e let­te­ra­rio insieme, che la Pal­mira del Nord fosse stata eretta non a caso sopra un ter­reno tor­bido e palu­doso e che la stra­bi­liante impresa archi­tet­to­nica, mera­vi­glia delle mera­vi­glie, con­te­nesse in sé una pato­lo­gia neces­sa­ria, pre­ziosa e per­fet­ta­mente inci­stata a un destino, a una con­di­zione spi­ri­tuale tor­men­tata e tor­men­tosa su cui non poteva che regnare senza solu­zione di con­ti­nuità un mai risolto dis­si­dio tra la luce e la forza della ragione e l’altrettanto potente, irre­fre­na­bile impulso a pre­ci­pi­tare (arti­gliati, stretti e attratti dal ghi­gno sonoro di oscene sirene) in una cafar­nao popo­lata di ombre indi­stinte e di fan­ta­smi dal volto can­giante e pur sem­pre minac­cioso e ferale.

Andrej Belyj


















Nulla come quelle lar­ghe pro­spet­tive, quei ponti, quel lun­go­fiume, quei canali, quelle cat­te­drali altis­sime che paiono voler tra­pa­nare il cielo, quei palazzi dorati, quei tea­tri sgar­gianti – ma non di meno le fumose oste­rie, le luride stam­ber­ghe, le mise­ra­bili pen­sioni, i maleo­do­ranti e umidi sot­to­scala, gli antri e i sot­ter­ra­nei segreti –, nulla come quello spa­zio sospeso, insi­curo e mal­fermo si è lasciato deci­frare al pari di un arduo gero­gli­fico senza tut­ta­via rive­lare il fondo opaco del pro­prio scri­gno, poco o nulla con­ce­dendo per­sino ai dio­scuri suoi, vale a dire ai tita­nici crea­tori e cir­cum­na­vi­ga­tori del mito stesso, da Puš­kin a Gogol’, da Dostoe­v­skij a Belyj, in un per­corso durato pres­sap­poco un secolo.

Di un simile scarto hanno dovuto in qual­che modo pren­dere atto, in sede di rico­gni­zione, gli stu­diosi che vi si sono dedi­cati, a par­tire dal valo­roso e pio­nie­ri­stico Ettore Lo Gatto nel suo Il mito di Pie­tro­burgo (Fel­tri­nelli, 1960) per poi arri­vare, molto più avanti, ad esem­pio a Solo­mon Vol­kov (San Pie­tro­burgo, 1995, tra­dotto per Mon­da­dori nel 1998) o al pon­de­roso volume curato da Ser­geij Andro­sov (San Pie­tro­burgo, Corbo e Fiore, 2002).

Il mosco­vita Belyj (al secolo Boris Niko­la­je­vic Bugàev, 1880–1934) pub­blicò il suo romanzo più impor­tante e più cele­bre dap­prima a pun­tate su un alma­nacco let­te­ra­rio, tra il 1912 e il 1913, e a seguire, in volume, nel 1916, quasi a sim­bo­li­ca­mente voler indi­care un tra­monto e un annun­cio. Per­ché Pie­tro­burgo – appena tor­nato in libre­ria, ripro­po­sto nella «Biblio­teca» Adel­phi (pp. 384, euro  22,00), nella mera­vi­gliosa ver­sione appron­tata nel 1961 da Angelo Maria Ripel­lino per Einaudi accom­pa­gnata da un sag­gio che ancora toglie il respiro – porta in sé i colori di un tra­monto che viene defi­nito spesso, qui, «spie­tato» e ciò mal­grado ine­lut­ta­bile.

È natu­rale e giu­sto pen­sare come que­sto splen­dore che dura pochi attimi prima di virare in tene­bra attenga alla forma del romanzo, alla sua com­pat­tezza, al suo otto­cen­te­sco mostrare i muscoli e, insomma, alla sua for­mi­da­bile tra­di­zione. In Pie­tro­burgoanche i per­so­naggi per­dono peso e con­si­stenza, si muo­vono leg­geri e guiz­zanti come crea­ture di fumo, come Perelà slavi. Il domino in raso rosso che di con­ti­nuo appare e scom­pare nel buio degli androni e sui ponti segna il tempo di una velo­cità nuova e spa­ven­te­vole. La masche­rina che indossa forse non nasconde nulla, nep­pure l’impotente nostal­gia di un cen­tro, di un punto fermo verso il quale fis­sare lo sguardo.

Nel romanzo, è come se gli spec­chi – que­sto, e pour cause,inte­ressò e affa­scinò Vla­di­mir Nabo­kov – riflet­tes­sero figure ormai disos­sate, impal­pa­bili, gas­sose, solo uno sca­bro con­torno del niente. Pure, va subito pre­ci­sato, Belyj non dimen­tica la cor­nice sto­rica: Pie­tro­burgo è infatti ambien­tato nel 1905, nei giorni e nei mesi suc­ces­sivi alla guerra russo-nipponica vinta dai giap­po­nesi, e nel men­tre in città si levano venti tem­pe­stosi che annun­ciano l’imminente rivo­lu­zione («le fab­bri­che erano tutte in ter­ri­bile fer­mento; gli ope­rai si erano tra­sfor­mati in indi­vi­dui loquaci; cir­co­lava tra loro la bro­w­ning; e qual­cosa d’altro»).

«Sca­tu­rita come un mirag­gio dal fango degli acqui­trini per il capar­bio volere di un despota», scrive Ripel­lino, Pie­tro­burgo a quell’altezza «nasconde misere spo­glie sof­fe­renti, un que­rulo mondo di pena», «una ras­se­gna di spet­tri, un tea­tro d’ombre» che fur­tive s’avvicendano in un clima «vaneg­giante» e per­se­cu­to­rio – silhouette para­noi­che che si brac­cano a vicenda. La città sa di losco, di ver­mi­naio. In giro sciami di «ragaz­zacci anti­go­ver­na­tivi». E quella di Belyj, come spiega il tra­dut­tore, è «una scrit­tura amorfa, scon­nessa, tra­boc­cante, tutta sgoc­cio­la­ture e incro­sta­zioni, una matassa di impulsi cao­tici, di ghi­ri­gori, di ingor­ghi limac­ciosi, di gar­bu­gli ine­stri­ca­bili» che si fa stru­mento pla­sma­bile, per­fetto per quella con­di­zione di frat­tura, di rot­tura epo­cale.

È in un simile sce­na­rio – affol­lato di cospi­ra­tori, dop­pio­gio­chi­sti, infil­trati, pro­vo­ca­tori, poli­zia segreta – che Belyj sup­pone l’atto del par­ri­ci­dio. Niko­làj Apol­lò­no­vic – il pro­ta­go­ni­sta del romanzo che pos­siede peral­tro qual­che tratto auto­bio­gra­fico: ad esem­pio, sua madre abban­dona la fami­glia per seguire un arti­sta ita­liano – è o sarebbe un tipico per­so­nag­gio da «romanzo russo», così come il Sena­tore Apol­lòn (il padre, sim­bolo del potere zari­sta), il fana­tico nichi­li­sta Dud­kin, Sòf’ja Petrò­vna (la donna fatale di cui Niko­làj è inna­mo­rato) o il sot­to­te­nente Ser­géj Ser­gée­vic, il marito di lei.



Sol­tanto che qui ogni situa­zione e ogni gesto virano di volta in volta verso il grot­te­sco, la paro­dia, l’arlecchinata, il buffo, il comico, la vera e pro­pria farsa. Quasi tutto – e si prenda in pro­po­sito il terzo capi­tolo – si tra­sforma, men­tre si com­pie, in pochade. Sòf’ja Petrò­vna vor­rebbe essere (ma non può, non rie­sce) la puš­ki­niana Donna di Pic­che, l’uomo di Stato e rap­pre­sen­tante del vec­chio ordine sof­fre di emor­roidi e le sue ampie cono­scenze filo­so­fi­che nulla pos­sono con­tro le apo­ca­lit­ti­che allu­ci­na­zioni che lo este­nuano durante i dor­mi­ve­glia, il ter­ro­ri­sta defla­gra nelle pro­prie nevrosi e così via. Di fatto coloro che avvi­ci­nano Niko­làj per indurlo a com­piere l’attentato con­tro suo padre non sono che i messi della sua coscienza.

Ricorda Vadi­slav Cho­da­se­vic, nelle sue memo­rie, che il «delitto con­tro il padre» (un cele­bre mate­ma­tico) fu l’ossessione ricor­rente di Belyj. Lau­reato in scienze natu­rali e in filo­lo­gia, seguace di Max Stir­ner, appas­sio­nato di musica, di filo­so­fia, di metrica, di bud­di­smo e di bra­ma­ne­simo, di disci­pline esatte, di alcool e di fox-trot, nei due anni (dal 1921 al 1923) visse in un sob­borgo di Ber­lino nella casa di un bec­chino sita al con­fine di un cam­po­santo. Aveva ade­rito alla Rivo­lu­zione d’Ottobre e, una volta tor­nato in Rus­sia dalla Ger­ma­nia, con­ti­nuò a scri­vere poe­sie, romanzi, prose rit­mi­che, saggi (uno anche su Gogol’), libri di viag­gio (visitò, tra l’altro, l’Italia) e di memo­ria. Subì e sop­portò, verso la fine della vita, l’accusa di «for­ma­li­smo».

Giu­sto l’autore di un libro «not­turno» come Pie­tro­burgo poteva morire in seguito ai postumi di un’insolazione, forse guar­dando anche lui verso l’alto pro­prio dove passa una «mac­chia di fosforo ardente» che addita un tempo incom­pren­si­bile e tutto fatto di scintille.


Il Manifesto – 19 ottobre 2014

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