10 novembre 2014

L'ARTE DEL GIOCO DI SPECCHI


"La rappresentazione della rappresentazione": da Velázquez a Orson Welles quel dialogo invisibile tra osservatore e osservato. 
Roberta Scorranese
Gioco di specchi

«La rappresentazione della rappresentazione». Così Michel Foucault scrisse a proposito di uno dei quadri più analizzati in epoca contemporanea: Las Meninas (1656) di Diego Velázquez. Una tela in cui le damigelle e il resto della famiglia reale guardano negli occhi lo spettatore ma, sorpresa, l’artista stesso ha deciso di autoritrarsi e guardarci, con la tela vista dal retro. Un gioco sottilissimo di osservatori e osservati di cui si parlerà all’edizione autunnale di Visioni in Dialogo a Lugano, sabato 15 novembre.

«Osservatore-Osservato», chi guarda che dipende da chi è guardato e viceversa. Un tema che arriva dopo quelli, suggestivi, della solitudine e della folla , una scelta che, come sempre, attraverserà in modo trasversale, la filosofia, l’arte, la fisica. Fisica, sì, perché è stato proprio dalla rivoluzione scientifica del secolo scorso che si è giunti alla conclusione che le parti minime dell’atomo esistono solo grazie a una serie di interrelazioni. Carlo Rovelli, ordinario di Fisica Teorica all’ateneo di Aix-Marseille, partirà dalle sue idee sulla meccanica quantistica relazionale: gli stati quantistici sono sempre relativi a un osservatore. «Questo suggerisce — afferma lo studioso — che la struttura della realtà possa essere compresa meglio in termini di “relazioni” e “processi” che non in termini di “cose” e “sostanze”».

Las meninas. Particolare dello specchio
























Le cose dunque sono in virtù di uno sguardo. Tema di cui discuteranno anche Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica all’Università di Torino e Elena Volpato, storica dell’arte. Ma questa è anche la poesia che ha da sempre innervato l’opera di un artista come Giulio Paolini, tra i relatori.
A cominciare dal suo famoso Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) fotografia che ritrae il dipinto rinascimentale di Lotto e ci permette così di entrare nel suo stesso sguardo, nel suo fuoco. «Osservare o essere osservati, sulla stessa traiettoria dello sguardo, significa fissare due punti o forse uno solo: un riflesso, un’illusione — spiega l’artista, classe 1940 —. Merito del pittore è saper sottrarre il dato dell’osservazione, far vedere nonostante il quadro , illuminare la zona d’ombra tra tela e parete».

Come in Susanna e i vecchioni di Guercino (1617): Susanna si sottrae, uno dei vecchi le fruga avido nel corpo e un alto guarda lo spettatore come per zittirlo. Lo fa entrare nella tela , al pari del capolavoro di Jan Van Eyck, Gli sposi Arnolfini (1434): il segreto è nello specchio in fondo, dove un barbaglio restituisce i testimoni di nozze nascosti dalla scena.

Van Eyck, Gli sposi Arnolfini
























Con questa materia affascinante Paolini ha plasmato altre opere, come per esempio Mimesi (1975): due calchi in gesso del busto dell’ Hermes di Prassitele sono collocati uno di fronte all’altro, leggermente sfalsati in modo che i due sguardi si incrocino. Paolini aggiunge: «All’artista non importa tanto cosa mai sarà quella certa opera che sembra affiorare davanti ai suoi occhi e incrociarne per un istante lo sguardo, ma toccarne la “verità”, consacrarne — vorrei dire l’imperscrutabile segreto».

La dimensione sacra dell’arte si apre all’uomo che guarda e ne nasce una sintesi. Non solo nell’arte. Si pensi alla bellissima poesia Menage di Mario Luzi, che ci fa entrare in una intimità spinosa, lei, la desiderata e l’altro uomo. Il «terzo uomo», per dirla con Aristotele, colui che osserva la relazione tra osservatore e osservato, sarà al centro dell’intervento di Daniel Soutif, filosofo e critico d’arte, che chiamerà in causa dei film come Familia del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa — storia di una famiglia che si rivela poco alla volta nella sua complessità, sotto gli occhi dello spettatore.

Gli sposi Arnolfini. Particolare dello specchio




















Ma anche La signora di Shangai di Orson Welles, regista che impersona il protagonista, Michael O’Hara. Questi si ritrova al centro di un intrigo che non vede (ma lo spettatore intuisce eccome) e alla fine, simbolicamente, eccolo davanti a un labirinto di specchi, mentre assiste all’ultimo incontro tra Elsa e suo marito.

E d’altra parte, la letteratura ha sfondato da tempo questa soglia visiva. Il Calvino di Palomar , certo, ma pure il Tolstoj de La morte di Ivan Il’ic, dove il protagonista di tutto l’intreccio guarda metaforicamente dalla sua condizione di assenza. Viene in mente, alla fine, un racconto di Agatha Christie, tra i suoi più lodati: L’assassinio di Roger Ackroyd (1926). Ma sarebbe un peccato, qui, rivelare il finale, ossia il cuore di questo sguardo del «terzo uomo».


Il Corriere della Sera - 10 novembre 2014

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