05 gennaio 2015

L'Itaca di Walcott




Navigare come Ulisse verso il tramonto. Derek Walcott (1930),originario di St. Lucia nelle Antille, Premio Nobel per la Letteratura nel 1992, ha cantato le isole del Caribe come metafora della condizione umana. Il vento largo della vita riecheggia nei suo versi.
Walter Siti

L'Itaca di Walcott è un'isola caraibica
Se c'è un trauma contro cui Walcott ha dovuto lottare per tutta la vita, è la propria origine geografica: Saint Lucia, nelle Piccole Antille, è solo uno dei grani di quella collana di isole che si inarca da Portorico fino alla costa sudamericana.
Senza una vera identità culturale che non derivi dalla colonizzazione, passata di mano quattordici volte tra Francia e Inghilterra prima del definitivo dominio inglese (ancora oggi nello stemma conserva il giglio di Francia insieme alla rosa dei Tudor), selvatica e montuosa, dotata di un patois creolo senza ambizioni letterarie, rappresenta uno di quei luoghi da cui uno scrittore non può che emigrare; ma è anche l'eden da cui è duro staccarsi, la natura prima che Adamo la nominasse, la sinfonia d'acqua luce e colori che regala un imprinting indelebile tra rimpianto, tenerezza e complesso di inferiorità.
La luce, prima di tutto (Lucia è nome di luce, anche nel motto della loro bandiera oltre che in Dante); una luce così pastosa e solida che la vela inclinata sembra appoggiarvisi — stanca di peregrinare tra troppe isole. Si presuppone un tramonto, un navigante che rientra; i pescatori tornavano a sera, quando Walcott era piccolo, ed era un passaggio pericoloso tra gli scogli; "più ci si avvicinava a casa", scrive nel poema Omeros, "più crescevano le paure/e i pescatori lo temono proprio come Ulisse/ finché non vedono lampeggiare l'unico occhio del faro".
La nostalgia (intesa alla greca come desiderio del "nòstos" cioè del ritorno) appartiene anche a lui, ogni volta che si trova all'estero per studiare o insegnare; l'archetipo mitico non può essere che Ulisse/ Odisseo — e le isole caraibiche si duplicano nell'identità letteraria delle isole egee.
In tutta l'opera di Walcott agisce questo meccanismo di traduzione, o nobilitazione: ogni forma naturale, o persona, della sua isola senza storia viene paragonata a un elemento della grande cultura europea — i poemi omerici prima di tutto ma anche la Bibbia, e Dante e Shakespeare e la pittura del Rinascimento. È una specie di esotismo all'incontrario, che attira in periferia le figure del Centro.
Quel che lo affascina è l'impasto tra vitalità selvaggia e raffinatezza, tra l'Africa nera dei suoi antenati e la Grecia classica; il sangue vergine può rinforzare l'esausta Europa, mentre la maturità della cultura europea può educare le nature troppo semplici ("i nostri miti sono ignoranza, i loro letteratura").

Un esempio di integrazione come piace a noi del Primo Mondo, che per questo nel 1992 gli abbiamo conferito il Nobel; un riconoscimento della nostra supremazia, sia pure con qualche perdonabile scatto d'orgoglio ("questo non è l'Egeo viola-uva,/ non c'è vino qui, né formaggio, le mandorle sono verdi,/ le uve di mare aspre, la lingua è quella degli schiavi"; "il progresso è la barzelletta sporca della Storia").
L'uva di mare (nome comune della Coccoloba uvifera ) è un arbusto tropicale che dà bacche acidule di color rosso scuro, simili agli acini d'uva o alle olive. Perfetto esempio di condensazione: selvatico quanto basta ma anche allusivo di mediterraneità classica (gli olivi, appunto, e il "mare colore del vino" di omerica memoria).
Sotto i suoi stenti grappoli l'anonimo padre e marito sente nell'onomatopeico grido dei gabbiani il nome di Nausicaa; la profondità dell'amore familiare non esclude l'avventura erotica, con forzatura libertina del casto episodio odisseico. Walcott in genere è poeta epico e visivo ma qui si avvicina alla psicologia drammatica e romanzesca: la guerra tra ossessione e responsabilità significa ammettere in se stessi una duplicità non sanabile — la duplicità è un altro tema di Walcott (nato gemello): due sono i picchi montani della sua isola, due le lingue che parla e usa nei testi, doppio il cammino di conoscenza che impone a se stesso ("ci sono due viaggi/ in ogni odissea, uno sulle acque agitate,/ l'altro accovacciato e immobile nel silenzio").
Il dissidio non ha soluzione se non poetica: con un volo pindarico il pellegrino dei mari e l'umile pescatore caraibico sono ricondotti alla vicenda leggendaria, dall'incendio di Troia all'episodio di Polifemo — e dal masso che il gigante scaglia nasce un'onda (fatta di esametri, di cui uno viene mimato al v.17) che attraverso chilometri e secoli viene a spegnersi sulla battigia di Saint Lucia. Lì cultura e natura arrivano alla sola possibile conclusione: la cultura serve a temperare le ossessioni più crude ma la vita proporrà sempre nuove spine.
L'isola di Saint Lucia è stata contesa storicamente come Elena lo fu a Troia; l'unico occhio di Polifemo è anche l'occhio del faro di cui si parla in Omeros (" il faro cieco/ si soffermò come un gigante, una nuvola di marmo nelle mani,/ per scagliare il suo macigno/…/ poi un pescatore negro alzò la vela di sacco/ e scandì il primo verso del nostro epico orizzonte").
Rete sotterranea di metafore, coerenze forse celate al loro stesso autore; che in un tessuto metrico libero ma fitto di echi ("name/same/flame" rimati in tre terzine successive, e anche "war/shore", poi le rime visive "home/come" "trough/enough", lamezza-rima "islands/husband's") sa chiudere intere una coscienza, un'antropologia, una storia.
La Repubblica – 7 dicembre 2014

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