Pompeo Colajanni "Barbato"
Giovanni De Luna
ricostruisce una vicenda vera ambientata tra il ’43 e il ’45 in
un castello piemontese. Monarchici e comunisti, preti e partigiani
fianco a fianco in una storia esemplare di cosa fu la Resistenza.
Simonetta Fiori
La Resistenza
“riabilitata” dal diario di Leletta
La Resistenza arrivò nel castello insieme a “Barbato”, il comandante partigiano che aveva l’abitudine di tracciare per terra una linea. Pensaci bene prima di superarla, diceva ai più giovani, perché poi non si torna indietro. Il passo autorevole e i baffi imperiosi gli procurarono la stanza più bella del Palas, quella con il letto a baldacchino. I baroni Oreglia d’Isola — un’antica casata di fede cattolica — erano sideralmente lontani dal mondo comunista, ma non potevano negare l’accoglienza al più coraggioso dei resistenti, l’uomo che venti mesi più tardi avrebbe liberato Torino dalle brigate nere.
Un castello, dunque. Una grande tenuta di boschi, vigne e mulini a mezza strada tra Saluzzo e Pinerolo, a Villar, all’ombra del Montoso. E una sontuosa casa patrizia, ricca di libri antichi e di addobbi, pareti affrescate e ceramiche di pregio. Singolare cornice per l’epica resistenziale, quasi da sospettare che si tratti di una felice invenzione per celebrare il settantesimo della Liberazione.
E invece è tutto vero.
Sono vere la contessa Caterina e sua sorella Barbara che soccorrono i
partigiani feriti nascondendoli nelle soffitte del maniero, e
talvolta salgono su in montagna per recuperarne i corpi senza vita.
Sono veri i combattenti delle brigate Garibaldi che alternano azioni
di guerra con momenti di conversazione colta nei saloni del Palas.
È vero il repubblichino
Novena, con il suo carico di risentimento e inganno anche dentro le
mura del castello. Ma soprattutto è vera la protagonista Leletta, la
diciassettenne figlia della “Barona” e voce narrante della
storia: è attraverso il suo sguardo che vediamo scorrere «la
gloriosa epopea », venti mesi di guerra civile che significarono
tragedia e sangue ma anche una «scuola di vita » per distinguere
tra coraggio e viltà, amicizia e opportunismo, slancio ideale e
grettezza.
L’antifascismo fu una reazione esistenziale prima ancora che una decisione politica matura. E il diario di Leletta restituisce con semplicità il significato di una scelta che accomunò aristocratici e comunisti, preti e mangiapreti, signori e contadini, monarchici e repubblicani. Anche per questo Giovanni De Luna ha voluto intitolare il suo bel libro La Resistenza perfetta: il Palas diventa simbolo di una storia che in tutti i modi si è cercato di delegittimare, ottenendo il risultato di sporcarne il senso comune soprattutto tra i più giovani.
La Resistenza come un pranzo di gala, impreziosito dagli argenti di casa Oreglia? No di certo. Anche dal castello si assiste alle efferatezze nelle file partigiane, Lucia e Caterina derubate e poi ammazzate su ordine del “Moretta” solo per un vago sospetto di collaborazionismo.
Il castello di Villar
Ma i dialoghi annotati da
Leletta, e i numerosi diari consultati da De Luna, registrano un
rapporto con la violenza che è subìto più che golosamente
ricercato. Il mestiere delle armi, quando esercitato con esuberanza,
suscita sperdimento, non fierezza. Le gesta di “Zama”, io
partigiano che fece in quelle valli la prima vittima fascista, sono
accolte con “orrore reverenziale”. E “Gagno”, audace
comandante gappista, resta “di stucco” quando lo vede uccidere la
prima volta. Anche il compagno “Balestrieri” confessa di provare
«una sensazione di pena per me stesso» mentre mira alla testa del
maggiore tedesco: preme il grilletto ma ne è travolto.
Altro spirito aleggia nelle file avversarie, un surplus di ferocia che cresce insieme al sentimento di sconfitta, riuscendo a penetrare tra le mura del castello. È dentro il cortile del Palas che nel febbraio del 1945 viene selvaggiamente picchiato il garibaldino “Lampo” per mano del camerata Novena. «Oh signor Novena come sta?», era stata la disinvolta accoglienza di Leletta quasi all’alba. Erano arrivati per perquisire la villa, sospettata di complicità con la Resistenza. E con loro s’erano portati “Lampo”, appena catturato in montagna. Volevano indurlo a confessare le relazioni pericolose con il barone e la sua fam iglia. «Non sono mai venuto nel castello», si ostina a negare lui. Pochi giorni dopo viene ammazzato, colpito al volto con un pugno di ferro, gli occhi estratti dalle orbite. A Novena sono stati attribuiti 195 omicidi, chissà se li ha commessi tutti. Una volta si divertì ad armare la mano del figlio tredicenne, «vai, dilettati anche tu».
Nulla sfugge a Leletta, che riferisce meticolosamente sul suo diario. Nel 1944 ha la freschezza dei 18 anni, curiosa degli uomini più delle ideologie. È affascinata da “Barbato”, nome di battaglia di Pompeo Colajanni, ma più per l’impegno generoso profuso nella battaglia che per le teorie arruffate. Coglie la differenza tra il suo «quartetto» di cavalieri rossi e quegli «imboscatucci» degli amici aristocratici, che invece di combattere cercano riparo nella zona franca dell’Ordine di Malta.
Impara a sparare anche
lei, insieme al fratello Aimaro, «incauti e contenti». Perché le
armi sono una necessità, e non se ne può fare a meno, ricorda lo
storico in polemica con quella sorta di «interdetto culturale» che
oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti (i
partigiani ingiustamente assimilati ai terroristi)).
Pompeo Colajanni "Barbato"
Non diventa mai comunista
Leletta, né può diventarlo. Però conserva la stella rossa del suo
comandante perché intuisce l’energia vitale che scorre in quelle
fila. «Ah, dottoressa Aurelia, se avessi vent’anni di meno »,
scherza il partigiano con galanteria. In realtà ha solo 38 anni,
troppi per quell’epoca.
L’aristocratica e il comunista. Nel dopoguerra assisteranno al lento disfarsi di quella rete di affetti e solidarietà intessuta dentro il castello. Ciascuno riprende il suo posto in un mondo che non ha tagliato completamente i ponti con il passato. I fascisti tornano in libertà grazie a Togliatti, con motivazioni spesso raccapriccianti: giocare a calci con la testa del partigiano appeso viene considerato un “incidente”, non una sevizia efferata. Anche per Novena solo dieci anni di galera, poi una vita da benzinaio a Velletri. Colajanni assume importanti incarichi politici nelle file del Pci, come qualche altro suo compagno di brigata.
E Leletta? Segue la sua
vocazione religiosa. Nel 1947 entra in convento come suor Consolata,
poi diventa terziaria domenicana. Per il resto della sua vita non
farà che ascoltare gli altri, come in fondo aveva fatto dentro il
Palas. Muore nel 1993, sei anni dopo “Barbato”. Nel 2012 si è
aperta la causa per la sua beatificazione. La beata Leletta che
sapeva usare il parabellum.
La Repubblica – 24
marzo 2015
Giovanni De Luna
La Resistenza perfetta
Feltrinelli, 2015
euro 18
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