08 novembre 2015

R. GIRARD, l' ultimo degli umanisti?



Il sacro come difesa dalla violenza naturale dei rapporti fra gli uomini. Questo il pilastro centrale della ricerca di René Girard, il grande intellettuale francese scomparso nei giorni scorsi.

Roberto Esposito

Addio René Girard, l’ultimo degli umanisti

Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. Si può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana.

Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio. Come fin dalla sua prima grande opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare.

Diversamente da quanto pensava Freud – che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato – Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.

Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione.

Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti – naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale.

Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo. I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima. Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” – è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) – si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare.

Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile.

Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.

Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio.

Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.


La Repubblica – 6 novembre 2015

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