09 dicembre 2015

NON STANCARSI MAI DI LEGGERE PASOLINI


La grazia e la disperazione di Pier Paolo Pasolini

di Vito Amoruso

«Lavoro tutto il giorno come un monaco/ e la notte in giro, come un gattaccio/ in cerca d’amore. Farò proposta/ alla Curia d’esser fatto santo./ Rispondo infatti alla mistificazione/ con la mitezza. Guardo con l’occhio /d’una immagine gli addetti al linciaggio. /Osservo me stesso massacrato col sereno/ coraggio di uno scienziato. Sembro/ provare odio, e invece scrivo/ dei versi pieni di puntuale amore».
Sono versi, datati 21 luglio 1962, tratti da Poesia in forma di rosa (1964), uno dei più sperimentali libri di poesie che Pasolini abbia scritto.
In essi risplende una delle qualità che a me sono sempre parse la cifra profonda, e il timbro inconfondibile della sua voce di poeta: una innata grazia congiunta a una disperata vitalità, vissute come un destino accettato, perseguito fino ai suoi estremi confini, ma dalla distanza, qui amaramente ironica, di uno sguardo che – esprimendolo – lo domina.
Sono tutte qualità proprie di un classico, proprie del più grande poeta del nostro secondo Novecento. Ma niente di quella grazia sarebbe davvero percepibile se nello stesso tempo non si sottolineasse quanto, nell’inesausto sperimentare, Pasolini sia tutto dentro una tradizione letteraria italiana prenovecentesca, passione profonda concretamente espressa dalla ripresa dell’endecasillabo, della rima, delle terzine, delle strofe di novenari, come negli undici poemetti di Le ceneri di Gramsci (1957).
Del resto, in alcuni saggi raccolti in Passione e ideologia (1960) e nell’ispirazione stessa all’origine della rivista Officina, il bimestrale da lui fondato nel 1955 con Leonetti e Roversi, Pasolini programmaticamente redige una sorta di manifesto anticrociano e antiermetico, al tempo davvero inedito e sorprendente.
Alla lingua elettiva, aulicamente illustre della poesia pura, Pasolini polemicamente oppone la «prosa» linguistica di Pascoli, le infinite variazioni espressive della sua «umile Italia», dentro l’eco lontana del sermo humilis di dantesca memoria.
Ma non solo: la scelta di una poesia civile, che sia cioè anche intervento sul reale e non appagata auscultazione lirica di sé, si riappropria a tal fine anche dell’alto pathos retorico dei Sepolcri foscoliani (1807).
Di qui, infine, il «recitativo» profetico, la sensibilità pittorica e caravaggesca, tutti intrecciati in un folgorante corto circuito con la lezione del più visionario poeta maudit, Rimbaud.
Le radici vere del Pasolini profeta, dello scrittore corsaro, del processo alla Democrazia Cristiana, della denuncia della corruzione, dell’omologazione culturale e della mutazione antropologica, sono da rintracciare qui, in questo «prima», in questo amore insieme viscerale e culto per il perduto mondo di ieri.
La mattanza della sua morte, il come e perché che certamente non sono quelli del tutto inverosimili finora indicati, hanno contribuito a conservarne simbolicamente la statura tragica, lo «scandalo» di testimone e di vittima, col rischio, occorre riconoscerlo, di trasformare la sua presenza in una icona pop. È un rischio che ha in modo ammirevole evitato Pierre Adrian, in una narrazione che è a un tempo inchiesta sul campo e singolare romanzo di formazione, pubblicata lo scorso giugno, La piste Pasolini ( Editeurs des Equateurs, Parigi, 2015, pp. 189, euro 14).
Adrian, poco più che ventenne, ha intrapreso un viaggio in Italia alla ricerca delle tracce superstiti, nella realtà e nella memoria, di un suo maestro e «padre» intellettuale. Ripercorre perciò i luoghi della sua vita: l’idroscalo di Ostia, scenario orrendo e squallido del suo assassinio, le periferie romane dei suo ragazzi di vita, e poi la Casarsa della sua infanzia e adolescenza friulana, e infine gli incontri con amici e parenti.
Passo dopo passo, Pierre Adrian scava nelle contraddizioni e nelle ambiguità di un artista, nelle sue lacerazioni fra purezza e peccato, con la distanza e la passione che sole consentono di percepirne lezione e presenza, in una realtà che al contrario sembra averne cancellato ogni traccia e retaggio.
Resta la sua voce di poeta, la voce che, sin dalle sue origini, con la naturale grazia e il limpido timbro che le sono così proprie, governa il tumulto delle passioni, e per intero accetta le stimmate di una prescritta solitudine, come in questi versi dal Diario (1943- 1944):
«Forse la luna. Forse fuori/ voci di ragazzi che a file vanno in chiesa./ Ma la sera e’ più triste ed io non odo / null’altro ch’essa nella stanza vuota/ Essa, e la fine dei miei anni e il tempo/ di primavera che scende tutto in fiore,/ e mi lascia con volto di ragazzo/ fra questi campi e queste sere nuove».

Il pezzo è uscito prima  sulla Gazzetta del Mezzogiorno, che ringraziamo insieme all’autore.

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