04 gennaio 2016

P. GAUGUIN, un uomo in fuga


Destino dell'uomo non è abitare un mondo, ma sognarne un altro”. Lo ha scritto Francesco Biamonti. Non troviamo niente di più adatto per descrivere la pittura di Gauguin in mostra a Milano.

Lea Mattarella

Paul Gauguin. Il paradiso terrestre di un artista sempre in fuga
«Amo la Bretagna, in essa trovo un che di selvaggio, di primitivo. Quando i miei zoccoli risuonano su questo suolo di granito, sento il suono sordo, opaco e possente che cerco nella pittura», scriveva Paul Gauguin nel 1889 rivelando che i termini “selvaggio” e “primitivo” appartengono alla sua opera ancor prima della sua partenza per Tahiti.

La consapevolezza che per l’artista francese l’altrove era in fondo dappertutto, purché lontano da Parigi, è il filo rosso che lega le opere esposte da oggi e fino al 21 marzo a Milano, al Mudec, nella mostra “Gauguin. Racconti dal Paradiso” curata da Line Clausen Pedersen e Flemming Friborg e prodotta da 24 Ore Cultura.

Sono raccolte circa 70 opere, tra dipinti, disegni, incisioni, sculture, di cui la metà appartiene alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen che conserva una delle più importanti collezioni al mondo del pittore. L’ ouverture dell’esposizione è affidata a due autoritratti.

Il primo è datato 1889. La composizione è scura, l’artista ha uno sguardo che ci oltrepassa, non incrociando il nostro. Gauguin indossa un pesante cappotto di lana come se dipingesse nel gelo. Qui Gauguin ha 40 anni, un passato di viaggiatore, agente di cambio, collezionista. È cresciuto in Perù, dove il padre giornalista aveva dovuto rifugiarsi, costretto a lasciare la Francia a causa delle sue idee repubblicane alla vigilia del colpo di Stato di Luigi Napoleone nel 1849.

Più tardi Gauguin si imbarca come marinaio su una nave mercantile e fa il giro del mondo. Tornato in Francia nel 1874, anno della storica mostra degli impressionisti, presso lo studio del fotografo Nadar, conosce Pissarro. Inizia così la sua vera avventura pittorica, sebbene già dal 1871 frequentasse tele e pennelli. Ciò che decide di fare è superare l’evanescente leggerezza impressionista, tutta libertà di pennellate.

La sua è una pittura che ha un peso specifico, un corpo, è solida, costruttiva. Gauguin amava le superfici, e che fossero il più piatte possibili. Amava incastonare vaste campiture di colore puro, cercando connessioni armoniche dove non soltanto i complementari apparissero nella loro intensità, ma anche accordi più legati, come per esempio certi suoi stupendi blu, accanto a rossi e viola.

Per essere certo che tutto apparisse al tempo stesso chiaro e sontuoso, circondava, anzi chiudeva le sue forme con un segno scuro, bluastro, al modo in cui il ferro contornava le figure delle vetrate gotiche.

Nel mondo gauguiniano gli esseri umani appaiono solenni, plastici, come se prosperassero silenziosamente in una loro classicità esotica. Attratto dalle filosofie orientali, soprattutto dal buddhismo, l’artista ha infuso nelle sue immagini femminili un fascinosissimo tasso di malinconia e di sospensione meditativa.

Se si guarda l’ Autoritratto con il Cristo giallo si capisce anche con che spirito Gauguin esprimesse la sua vocazione. In questo quadro datato tra il 1890 e il 1891 l’artista si sdoppia, anzi si moltiplica. È al centro di una composizione che ha, a sinistra, un suo dipinto e a destra una ceramica. Il primo è il famoso Cristo giallo , al quale l’artista aveva prestato le sue sembianze; la seconda il Vaso autoritratto in forma di grottesca . Il suo volto compare quindi tre volte in un quadro- manifesto: riguarda la fatica dell’artista, crocifisso, incompreso, deformato dal calore del forno che lui stesso paragona alle fiamme dell’inferno, quelle che secondo lui tormentano, detergono e purificano. Eppure, lo vediamo dal suo sguardo determinato, è cosciente di dover andare avanti su quella strada. Gauguin è un uomo in fuga, certo, ma non da se stesso.

Le sue fonti sono varie. Ama Raffaello, si incanta di fronte ai fiamminghi, guarda con interesse Degas, Manet, Puvis de Chavannes, ma anche il Medioevo.

Non lavora dal vero, ma sulla memoria. Suggerisce a Pissarro di passare meno tempo davanti al paesaggio e di stare più in studio perché ha bisogno di rielaborare il mondo attraverso il pensiero.

Uno dei capolavori qui esposti Mahana no Atua (Giorno di Dio) che è una delle sue tipiche visioni made in Tahiti, con le fanciulle intente a eseguire l’upa upa, una danza rituale proibita dalle autorità locali, all’ombra di un grande idolo, è stato in realtà eseguito nel suo atelier parigino, tra il primo e il secondo soggiorno in Polinesia (dove morirà nel 1903). Una delle prime opere realizzate a Tahiti è questa bellissima Ragazza con fiore del 1891.

Qui la modella nera è costruita come fosse una figura della ritrattistica rinascimentale su un fondo giallo su cui sbocciano fiori, che rivela un altro amore di Gauguin, quello per le stampe giapponesi. C’è forse l’eco di Van Gogh, lasciato ad Arles dopo un tragico tentativo di lavoro comune. Ma la cosa certa è che «si tratta di un’arte del tutto nuova. Ed è mia».

Anche la scultura, tra le sue mani, come è chiaro dagli esempi in mo-stra, esplorerà qualcosa di sconosciuto dando vita a opere che sembrano feticci. André Breton, il capo dei Surrealisti, aveva capito che prima di loro «Gauguin era stato il solo artista che avesse avuto la consapevolezza di portare in se stesso un mago».

La Repubblica, 28 ottobre 2015

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