Il racconto che di seguito riproponiamo, opera del nostro amico e collaboratore Domenico Passantino, è stato premiato dalla Historica edizioni di Cesena e
pubblicato dalla stessa all'interno della raccolta "Racconti siciliani". La presentazione del libro avverrà
venerdì 21 luglio alle ore 21 all'Hotel Best Western Ai Cavalieri a
Palermo in via Sant'Oliva 8.
U ‘Gnuri Ppa[1] stava tornando da campagna. Era una fredda giornata di Novembre e piovigginava.
Vitina apparecchiò la tavola: un piatto per Vito, che aveva dodici anni, uno per Totò, che ne compiva dieci e uno per Mariella, di otto anni. Infine ‘u spillongu[2] a capotavola.
Il padre e i due fratellini arrivarono davanti la porta della stalla e Totò scese per primo dal mulo. La coppola gli comprimeva i riccioli alle tempie: «Ho una fame!», esclamò.
Il padre annuì.
Sistemarono i muli nella stalla e gli diedero ‘a pruvenna[3], poi si diressero verso la porta di casa, accanto la stalla.
«Finalmente a casa!» disse Vito, con i capelli rossicci che si univano al rossore delle gote, che tradiva stanchezza.
«Non ti ci abituare», ribatté il padre, «oggi il tempo era all’acqua e siamo tornati presto, ma quando si travagghia si travagghia[4], non c’è tempo per mangiare o stare a casa come i lagnusi[5]».
Vito pensò alla mattinata passata in campagna.
Erano partiti di fora[6] di buon’ora, che ancora era buio, per cutulari[7] le olive; il tempo minacciava, ma il padre aveva deciso di andare lo stesso, perché le virghe[8], i sacchi, ‘u panaru[9]… insomma era tutto pronto per andare a lavorare e poi gli ulivi quell’annata erano carichi, non c’era tempo da perdere.
Erano arrivati sul terreno che stava albeggiando e subito, in silenzio, avevano preso a lavorare.
«Appara ‘u saccu»[10], gli aveva intimato il padre, quando già avevano riempito un panaru di olive. Vito aveva preso il sacco e l’aveva tenuto ai bordi, con le mani sistemate una di fronte all’altra.
«Se lo appari così, la funcia[11] del sacco si stringe e le olive vanno a terra; lo devi tenere con le due mani vicine e davanti la pancia».
Vito aveva fatto cenno di aver capito e aveva eseguito alla lettera gli ordini del padre.
Poi avevano proseguito nella raccolta.
Il vento freddo quasi tagliava la faccia e le guance dei due fratelli erano rosse.
I tratti del volto del padre erano scavati, come una pietra lasciata per anni alle intemperie, una faccia incallita, di un colore rossiccio marrone, quasi come la terra; gli occhi grandi grandi sembrava che dovessero venir fuori dalle orbite. Non sentiva mai né caldo né freddo, non si lamentava mai, non esultava mai. Era un perfetto stoico.
Non si parlava.
La scuola era iniziata: Vito l’aveva abbandonata per seguire il padre al lavoro l’anno prima, Totò ancora ci andava di tanto in tanto, quando il suo aiuto in campagna non era indispensabile.
Intanto, lentamente si era riempito un altro panaru di olive e il padre aveva detto di nuovo A Vito di apparari il sacco. Il ragazzo era assorto nei suoi pensieri: stava pensando al film che quella sera sarebbe andato a vedere con i suoi amici al cinamu; sì al cinamu, quella sera, avrebbero proiettato “Il Gattopardo” di Luchino Visconti.
Non poteva perderlo.
Ne avevano parlato a lungo le sere prima con Ciccio e Filippo. Sarebbe stato bello vedere sullo schermo le facce del paese.
Sì, le facce del paese, perché alcune scene del film erano state girate, mesi prima, a Ciminna, o chianu ‘a Matrici e a Picuruni[12].
Pensavano che sarebbe stato divertente vedere persone, che si incontrano tutti i giorni per la strada, lì, sullo schermo insieme ad attori famosi come Claudia Cardinale e Burt Lancaster.
Di sicuro tra gli spettatori ci sarebbero stati anche loro, le comparse e allora si sarebbero sentiti fischi e sfottò… Sarebbe stata una serata da ridere, stava pensando Vito che, come un automa, nel frattempo apparava ‘u saccu.
«Ahi!»
Cos’era successo?
«Come ti dissi che si appara ‘u saccu?»
Era stato uno schiaffo violento.
Per un attimo il cielo e la terra si erano mescolati e Vito era caduto a terra.
«Così vediamo se la prossima volta ti ricordi come si appara. Ma che cosa pensi sempre? Me lo dici che cosa stavi pensando?».
«Pensavo al film di stasera, al Gattopardo!», disse con paura Vito.
«Al Gattopardo pensavi? Bravo!». Seguì un momento di silenzio che sembrò non finire mai. Poi il padre continuò: «Lo sai come si chiama il nostro paese, Ciminna, nel firmi[13] “Il Gattopardo”?».
«No, pa, non lo so».
«Si chiama “Donnafugata”, un bel nome e non è tanto diverso da quello reale. E lo sai perché?».
«No, pa, non lo so» ripeté Vito ancora più costernato, non sapendo dove il padre volesse andare a parare.
«Lo zio Angelo, e poi Totò, quello che abitava accanto a noi e Mariano, quello che abitava in punta ‘e cantunera[14], da quanto tempo non li vedi?».
«Vero è, pa, assai ha che non li vedo».
«E non te lo chiedi che fine hanno fatto?».
«No, pa, non c’ho pensato, veramente», disse Vito quasi a volersi scusare, non sapendo però nemmeno di che cosa.
«Sono partiti, emigrati, sputati fuori da questa terra infame.
Perché non c’è travagghiu.
Ciminna è minna[15], ma i suoi figli non li sa allattare. Ed è per questo che nel Gattopardo Ciminna si chiama Donnafugata, perché è una fimmina, una donna tinta[16], che fa fuggire i suoi spasimanti: è una fimminna bedda veru[17], Ciminna. Tutti la vorrebbero avere per mugghieri[18], ma lei gira e sfurrìa[19]non si fa acchiappare, anzi fa scappare, fa fuggire tutti perché c’è pitittu[20]. ‘U capisti?».
Vito non ebbe il tempo di rispondere. E forse non c’era bisogno di una risposta.
«Pensa a travagghiari e al travagghiu fino a quando c’è e non a queste minchiati del firmi “Il Gattopardo”. Pensa a questo firmi che ti ho raccontato io, dei paisani che se ne vanno via picchì ‘un c’è travagghiu, e speriamo che un firmi come questo non si ripete mai più».
Era ora di mangiare.
Vitina cominciò a ‘mpiattari[21] la pasta con la salsa. Di là, nella stanza accanto, c’era il pane ancora tiepido che lei e la figlia Mariella avevano sfornato quella mattina. [22]
«Criscenti[23], acqua calda, farina e polsi forti forti ci vogliono», aveva cercato di insegnare Vitina alla figlia ancora piccola. Poi le aveva insegnato a preparare i cuddiruna,[24] che al padre piacevano tanto, in quanto rappresentavano un fast food, per non perdere tempo quando era incalzato dal lavoro in campagna: la moglie li preparava il giorno prima e quelli che rimanevano erano buoni per essere portati come pranzo di fora. In realtà era tempo di ‘nfriulati[25], perché si avvicinava la festa del triunfu, ma in casa non c’era tritato di maiale quella mattina e i cuddiruna erano più economici.
Come al solito la donna prima riempì ‘u spillongu davanti al Ppa, poi impiattò a Vito, a Totò e a Mariella.
«Mamà, ma perché devi ‘mpiattari sempri o pa prima? Io ho fame!», non finì di parlare Totò che il padre subito lo apostrofò: «Fatti la Croce!».
«La Croce?» chiese stupito Totò, “e che c’entra?”, pensò.
«Fatti la Croce!», ripeté il padre. «Ad alta voce!».
«Nel nome del Padre…», non ebbe nemmeno il tempo di dire che il padre subito lo interruppe: «Come? Come?».
«Nel nome del Padre…».
«Ecco, nel nome del Padre, e allora chi è il padre qua?», il tono della voce si era alzato.
Totò si zittì e abbassò gli occhi sul piatto.
Mangiarono, con i consueti gesti quotidiani.
Era arrivata la sera. Una sera invernale, fredda.
Erano le sette e mezza quando Ciccio fischiò da sotto il balcone.
«Amunì[26], Vì, che è ora, alle otto inizia ‘u cinamu».
«Vegnu!»[27], disse Vito. Si infilò la giacca di corsa e si precipitò giù per le scale.
I due amici si incamminarono verso San Francesco.
Svoltato l’angolo della strada, Ciccio uscì dalla tasca una sigaretta di trinciato e fece per accenderla.
«Ma chi ssi mminchia?», disse Vito, «se ci vede me pa ci ammazza».
«Tranquillo», fece Ciccio, mentre sospirava una boccata di fumo reso più intenso dall’aria umida, «non mi vede nessuno».
Arrivarono al cinamu.
All’entrata, come sempre, c’era ‘u zzu Giacominu che vendeva i biglietti.
Ne staccò due dal blocchetto che teneva in mano: uno per Vito e uno per Ciccio.
«Viene centocinquanta lire, e mi raccomando, picciò! Stiamoci zitti», disse il signore.
I due presero dalla tasca i soldi e pagarono l’entrata.
All’interno c’era odore di fumo, qualcuno tossiva, altri chiacchieravano di olive e di olio.
«Quest’anno mi ha buttato al 22%», disse un tizio e alcuni uomini che erano intorno a lui si misero a ridere forte. «Ma sempre minchiati dici, Pe[28]?».
L’atmosfera era di attesa.
Era sempre un’attesa, per la verità, nella sala del cinamu.
Ma quella sera, quella sera c’era nell’aria qualcosa di speciale; sulla scena sarebbero apparsi dei ciminniti.
Leo mangiava frastuche[29] e parlava un po’ con tutti. Per ognuno aveva sempree la battuta pronta. Parlavano della visita che il cardinale in quei giorni aveva fatto a Ciminna. «Leo, gliel’hai stretta la mano al cardinale?», e Leo, con l’aria di chi ha un mondo tutto suo dentro che oscilla tra il reale e la fantasia, e quanti lo ascoltano restano incerti se sia una persona fuori dalle logiche reali o se capisca il mondo più velocemente di chiunque altro, aveva risposto: «perché avrei dovuto? L’aveva lenta?». E le risate erano scoppiate fragorose.
Vito si guardò intorno.
Adesso non pensava più alle comparse del film, ai personaggi del Gattopardo.
Pensava a quello che gli aveva detto il padre la mattina.
Guardò il posto in seconda fila, dove si sedeva sempre lo zio Angelo.
Vuoto.
Guardò il posto accanto alla porta, dove si sedeva sempre Mariano, quello di ‘m punta ‘e cantunera.
Vuoto.
Le persone erano tante nella sala, ma Vito sentì un senso di solitudine.
‘U zzu Ciccio stava passando in mezzo ai seggiolini vendendo calia e simenza[30], ‘azzusa[31] e aranciata, come sempre.
Tutto era come sempre.
Ogni cosa, ogni azione, nel cinamu a San Francesco, nel paese di Ciminna, continuava a scorrere lenta e uguale, giorno per giorno.
Solo le persone e i personaggi lasciavano qualche posto vuoto, qua e là.
Emigrati.
Vito pensò alle parole del padre.
«Speriamo che questo firmi non si ripete mai più».
Domenico Passantino
[1] Il Signor Padre, come veniva chiamato il padre di famiglia per rispetto.
[2] Piatto di portata ovale, nel quale pranzavano o cenavano insieme i coniugi.
[3] Biada per alimentare gli animali. Lett dal latino: praebenda, cose da offrire in pasto.
[4] Lett.: Quando si lavora si lavora.
[5] Oziosi, pigri.
[6] Iri di fora è un’espressione usata per: andare a lavorare in campagna.
[7] Bacchiare.
[8] Verga, usata per bacchiare.
[9] Paniere.
[10] Apparari: approntare.
[11] L’apertura del sacco.
[12] Contrada.
[13] Film.
[14] All’angolo della strada.
[15] Mammella.
[16] Cattiva.
[17] Bella davvero.
[18] Moglie.
[19] Gira e rigira.
[20] Fame, scilicet miseria.
[21] Servire sul piatto.
[22] Festa in onore dell’Immacolata che si svolge nella notte del sabato successivo all’otto dicembre. Per dettagli storici e folkloristici v. il volume di Arturo Anzelmo Ciminna e l’Immacolata, 2009.
[23] Lievito madre, chiamato anche lievito naturale, è fatto da pasta di pane inacidita.
[24] Specie di pizzette rotonde condite con pomodoro, formaggio, olive nere, sarde salate, cipolla; anche nella variante bianca senza salsa di pomodoro. Sembra essere antica l’origine di questo cibo; già i Greci infatti conoscevano un tipo di pane rotondo che chiamavano kollura. Cfr. la mia tesi Lessico del pane e della panificazione nella Grecia antica.
[25] Focaccia ripiena di tritato di maiale, cipolla e pomodoro. Sull’etimologia della parola da me proposta v. l’articolo pubblicato on-line da Agorà il 24 settembre 2011.
[26] Andiamo.
[27] Vengo.
[28] Abbreviazione per Peppe, Giuseppe.
[29] Pistacchio.
[30] Ceci e semi di zucca tostati (caliati).
[31] Gassosa.
*https://domenicopassantino83.wordpress.com/
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