02 gennaio 2018

UNA STORIA DEL TANGO


Immigrati, creoli ed ex-schiavi dell'Africa, nasce nella marginalità uno dei balli più sensuali. Musica, canto, ballo, in ogni parte del mondo le sue espressioni raccontano una storia più lunga.

Alessandra Pigliaru

Tango, camminare insieme in un abbraccio


«I milioni d’immigrati che si sono riversati su questo Paese in meno di cent’anni non solo generano i due attributi del nuovo argentino, il risentimento e la tristezza, ma preparano anche l’avvento del fenomeno più originale della zona del Plata: il tango». In queste poche parole di Ernesto Sábato, preparate per la prefazione al volume di Horacio Salas, El Tango (1986), vi sono alcuni elementi utili per capire da dove venga quel segno culturale, sociale e popolare incarnato dal tango – ballo, musica e canto.

A QUALSIASI LATITUDINE lo si incontri infatti, il suo costante presentarsi nella storia con un successo senza pari gli ha conferito il carattere di luogo simbolico immortale. Le parole di Sábato (che nel 1963 scrive l’ormai classico Tango, discusión y clave) descrivono brevemente le origini meticce del fenomeno che a partire dal XIX secolo, tra Buenos Aires e Montevideo, vede immigrati, creoli ed ex-schiavi dell’Africa approdare nelle città argentine. Sono «minuti artigiani della notte», come li chiama Davide Sparti in un libro prezioso e complesso del 2015 (Sul tango. L’improvvisazione intima) e contribuiscono a formare una narrazione mobile e imprendibile, conflitti sociali e trasformazioni in atto (sulle tangenze politiche da segnalare invece un volume di Dimitri Papanikas, La morte del tango, edito quattro anni fa).
In una estrema indigenza trova origine ciò che oggi comunemente viene chiamato tango, che è sì «allegoria dell’unione» ma anche quella «vertigine del tocco», come suggerisce il nome, in cui si sorprendono tanti fantasmi al lavoro. A partire dalle creature che popolano le milonghe di tutte le parti del mondo, dalla Finlandia al Giappone, grandi metropoli e sagre di provincia. Questa invasione, dotata di una convivialità gentile che segue il respiro graffiante e caldo del bandoneón, appartiene a una pratica sociale inarginabile, al contempo sonnambulismo dei sensi che pure si cercano senza sosta. Incantando di felicità chi almeno una volta ha varcato la soglia di una sala dove si balla il tango. La stratificazione storica, politica e anche geografica del tango attiene allora a un approfondimento che negli anni molta letteratura ha descritto.
Oltre al più noto Borges, Meri Lao e moltissimi altri , sarà utile un volume recente che proprio da quella origine sempre spostata racconta. Tango. Storia e corpi di una cultura migrante di Francesca Auteri (Villaggio Maori edizioni, pp. 166, euro 15, prefazione di Fernando Gioviale) si innerva tra remembranza e olvido per suggerire una possibile lettura trasversale tra le parole dei cantores, scandite nelle fasi che coprono l’arco lungo di più di un secolo.

Tra la Vieja Guardia (1900-1920) facendo emergere i temi centrali dei primi testi per scoprire l’abbandono della terra natia, che è sempre querida, all’amore sfortunato per una donna, ricordo e dimenticanza si espandono e diventano passaggi decisivi anche nella fase della Nueva Guardia (1920-1940) che deflagra di malinconia per il ritorno e a cui – nel 1934 – Carlos Gardel dedica l’intramontabile Volver.
Auteri offre una lettura piuttosto interlineare della questione, nelle ricorrenze e nei principali autori e parolieri, da Enrique Santos Discépolo a Luis César Amadori ed Eduardo Moreno, solo per citarne alcuni. E se José María Contursi segna La Época de oro (fino alla fine degli anni ‘50), è Juan Pablo Marín (autore di testi e musica, basta pensare a quel capolavoro dello struggimento che è Fueron tres años del 1956) a restituire la cifra del periodo cosiddetto «moderno» in cui – fino agli anni ’80 – vi è la frenata argentina di luoghi di ritrovo per ballare.

DOPO QUESTO PERIODO, seppure vergato da trasformazioni che già le canzoni di Gardel avvertono come spartiacque, quella narrazione culturale si affolla. Ne dà conto, con una notevole ricognizione delle fonti, dei pionieri e dei protagonisti, il volume di Sabatino Alfonso Annecchiarico, Tango Tano. I migranti italiani nel tango argentino (Mimesis, pp. 236, euro 20), illuminando la composizione del flusso migratorio e affondando le radici proprio in Italia. È tuttavia già negli anni Settanta – in particolare per merito di Astor Piazzolla, «il rivoluzionario che fece ruzzolare la luna per Callao» – che si celebra il passaggio esplicito alla libertà. La diffusione è già inarrestabile, da tempo. L’Europa, come il resto del mondo, conoscono oggi ciò che forse non era più nelle intenzioni delle origini, sempre e per fortuna impure, ma che mette in scena qualcosa che al fondo resta lo stesso. Camminare insieme in un abbraccio, diverso da qualsiasi altro si sia creduto di aver conosciuto fino a quel momento, non importa se tra uomini e donne o appartenenti allo stesso sesso.

Allora cos’è che svetta nella storia così diversa in cui si è radicato? Cosa accade precisamente quando i due corpi dei ballerini si avvicinano? E soprattutto chi sono e di cosa devono dotarsi oltre al piacere di danzare? In un esperimento didattico importante lo racconta Bruna Zarini che, facendo seguito a una specifica richiesta, comincia – ormai molti anni fa – nella sua scuola bolognese il Tango al buio (come recita anche il titolo del libro, pubblicato per iacobellieditore, pp. 108, euro 12.90).

SI TRATTA DI CORSI laboratoriali per non vedenti (ideati insieme all’amica Gaby Mann). Squadernando così uno dei capisaldi della pratica che si deve rispettare in una milonga, mirada e cabeceo. L’oscurità richiamata nel titolo non è però la condizione di deprivazione della vista, per immedesimarsi nell’altro, Zarini propone di ballare al buio così che, vedenti e non, abbiano un terreno comune su cui confrontarsi.

Quanto sia cruciale «il vedere» nel tango lo spiega bene chi spesso lo affronta a occhi chiusi. Una coppia di ballerini di cui uno o entrambi chiudono gli occhi, significa affidamento al sentire, totale abbandono all’altro, sviluppo di altri canali che non siano quelli tradizionali della vigilanza dell’io. In questa direzione, ciò che ha reso efficace il lavoro di Bruna Zarini è stato comprendere che il tango può essere davvero il procedere insieme a cuore aperto, facendo delle proprie vulnerabilità una forza, perché sono i corpi a non essere mai ciechi quando esercitati all’empatia. Lasciando da parte il territorio spesso agonistico o inarrivabile delle esibizioni, chi balla il tango lo fa per sporgersi verso una prossimità e rendere conto di un saper trattenere e farsi trattenere.

PARTENDO da questo presupposto, non solo la vista risulta un senso secondario; quando si incontra qualcuno con cui si balla bene ci sono cose di cui si tace, è un’esorbitanza della cura di sé nei tre minuti di una canzone, o moltiplicati nella grazia di una tanda (nel caso ci si trovi in una milonga), riuscire ad allestire campi sterminati di desiderio nei confronti di chi si accoglie tra le braccia, alchimia gratuita dello stare in presenza, facendo circolare passioni sottili e altrettanto volatili. Accogliere tutto e, alla fine, lasciarlo andare, evaporare. Con gratitudine.

Ecco una delle ragioni che rende questa esperienza diversa da quella di qualsiasi altro ballo: sapere che se la nostra strada terrestre va percorsa spesso in solitudine, partire dall’almeno due risulta più interessante. Padroni ciascuno e ciascuna della propria differenza sessuale, perciò in libertà. Fosse solo nel gioco di pochi e imperfetti istanti, camminando stringendosi in un abbraccio che rende più sopportabile la fatica del mondo e delle relazioni che lo abitano, spostandone il peso. In fondo è solo un breve filo di felicità che balugina in una notte qualsiasi, eppure ha la potenza carsica di muovere interi popoli. E lo fa da più di un secolo.

Il manifesto – 21 dicembre 2017

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