02 maggio 2018

GUIDO ARALDO, Cantar maggio 1 e 2




Una tradizione antichissima  

Il cantar maggio si inseriva in un complesso di riti a sfondo agreste che celebravano il ritorno della primavera e la forza generatrice della natura. Ancora nel Cinquecento la festa manteneva caratteri pagani ed erotici che turbavano non poco le autorità ecclesiastiche, come dimostra un intervento censorio del vescovo di Savona che nel 1589 denunciava “il pericolo di peccare nottetempo” durante la celebrazione  di questi riti.
Guido Araldo
Calendimaggio
Alle calende di maggio, primo giorno di maggio, si teneva la grande festa del Calendimaggio, caduta in disuso per un lungo periodo della Storia e tornata trionfante, in maniera addirittura straordinaria, come “festa mondiale dei lavoratori”. Potenza universale dell’archetipo collettivo? Come negare che la “festa dei lavoratori”, celebrata in tutto il mondo, non sia altro che la ricorrenza moderna dell’antica “festa di metà primavera”? Concetti nuovi per sostanza antica.
Il calendimaggio era la festa per eccellenza di metà primavera, quando si andava nei campi inneggiando al trionfo della bella stagione: al ritorno di Proserpina dopo lunga permanenza invernale nel regno di Ade. Infatti la festa del Calendimaggio si colloca a “metà strada” tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate: il momento in cui trionfa la bella stagione dei fiori e dei frutti. Una festa che aveva sicuramente una grande importanza tanto presso i Liguri quanto presso i Celti, gli Etruschi, gli Umbri e gli altri popoli europei.
La primavera era accolta con un canto antico: il cantè mäg (il cantare maggio); una tradizione ormai desueta ma cinquant’anni fa ancora molto diffusa. Un canto accompagnato da una questua propiziatoria e benaugurale, con il dono di dolci, uova e il buon vino novello ormai giunto a maturazione. I partecipanti a questa festa erano noti come i “Maggianti” e avevano per simbolo i fiori del maggiociondolo. La tradizione antica imponeva che fossero lasciati fiori e ramoscelli intrecciati sui davanzali delle case di fanciulle in età da marito; poi, in prossimità del tramonto, venivano eletti il re e la regina del Calendimaggio, come accadeva nel giorno del giovedì grasso di Carnevale.
Anticamente nelle Alpi Occidentali era consuetudine condurre fuori dalle stalle il bestiame nei primi giorni di maggio, dopo la lunga parentesi invernale in cui era rimasto chiuso nelle stalle, per farlo pascolare e permettergli d’assaporare la prima erba.
Un tempo, in occasione del calendimaggio erano accesi grandi falò propiziatori, anticipatori di quelli di san Giovanni al solstizio d’estate. E il bestiame era indotto a camminare sulle ceneri di quei falò, rendendolo partecipe a un collettivo rito propiziatorio.
Nel Medioevo, nel giorno del Calendimaggio, si tenevano imponenti processioni con gli animali domestici, principalmente mucche, buoi, cavalli, maiali, capre e pecore, adornati di ghirlande palesemente pagane. Processioni che confluivano sul sagrato della chiesa, affinché anche gli armenti, e non soltanto i cristiani, ricevessero la santa benedizione.
Un altro rituale antichissimo, ancora diffuso in molte località dell’Europa continentale, è “l’albero di maggio” che veniva alzato all’alba del Calendimaggio. “In Svezia, il 1° maggio” annotava Frazer “si soleva portare nei villaggi un gran pino che veniva dapprima adornato di nastri e poi alzato. Il popolo vi danzava allegramente attorno a suon di musica. L’albero verde restava nel villaggio per tutto l’anno, fino al Calendimaggio successivo, quando veniva sostituito con un nuovo pino».
Un simbolo in seguito evolutasi nell’albero della cuccagna, attorno al quale si ballava fino ad ora tarda. In origine pare che questo “rito”, palesemente druidico per la presenza di un albero sacro, tendesse ad assicurare la protezione dello “spirito dei grandi alberi”, nell’attesa di un anno ricco e salubre per l’intera collettività, foriero di abbondanti raccolti. Inizialmente si trattava di un albero sfrondato, adornato con corone di foglie e fiori, sul quale in seguito furono aggiunti dolci, salsicce, uova e altri cibi impreziositi da nastri variopinti. I giovani vi si arrampicavano per impossessarsene. Quell’albero altro non era che il simbolo dell’Albero Cosmico, le cui fronde si trovano al di là dal visibile; per certi versi simile alla scala di Giacobbe: asse del mondo tramite il quale si può giungere alla comunione con il divino. In Andalusia l’albero del Calendimaggio fu ben presto sostituito dalla Croce di Maggio, poiché Cristo corrisponderebbe all’Albero della Vita.
Interessante la “storia dell’albero della cuccagna”. Troviamo la parola cuccagna citata per la prima volta nei Carmina Burana del 1164, dov’è presente un abate godereccio soprannominato abbas cuccaniensis. La prima descrizione del “paese della Cuccagna” risale a una favola in versi della Piccardia, risalente alla prima metà del XIII secolo. Vi si racconta di un irriverente pellegrinaggio ordinato dal papa in una “terra promessa” dove “più si dorme e più si guadagna”, non si lavora, “ogni peto vale un tallero”, “i muri delle case sono fatti di spigole, salmoni e aringhe"; i tetti di prosciutti e salsicce. In questo straordinario paese del bengodi le stesse oche si rosolano pasciute negli spiedi e i fiumi scorrono pieni di buon vino.
L’ipotesi antropologica di James Frazer fa risalire la tradizione dell’albero di maggio molto indietro nel tempo, collegandola al culto degli alberi diffuso in tutta Europa. Sembra che il nome stesso dei liguri Bagienni derivi dal faggio (fagus in latino, ma anche bagus). La stessa festa del Calendimaggio sarebbe la persistenza degli antichi culti della fertilità presso le popolazioni agricole. L’albero di maggio era il simbolo della nuova stagione e delle sue promesse di abbondanza.
L’arrampicarsi sull’albero di maggio, poi della cuccagna, non era soltanto un gioco fine a se stesso, ma l’occasione per palesare alle ragazze la destrezza dei giovani futuri loro pretendenti. Per la verità, l’albero della cuccagna comportava anche un insegnamento morale, antichissimo: per ogni premio, c’è la sua fatica.
Secondo alcuni storici il Calendimaggio corrispondeva alla festa celtica di Beltane: letteralmente “fuoco luminoso” nell’antica lingua irlandese. Emblematica la documentazione fornita dal vescovo di Savona Pier Francesco Costa, che nel 1589 emise il decreto “De festorum Deiorum cultu et observantia” dove sta scritto: “In alcuni paesi di questa diocesi persistono usi e abusi che sembrano rievocare superstizioni pagane. Ad esempio la notte che precede il Calendimaggio maschi e femmine, anche vergini, vanno per vigne e boschi a tagliare alberi o grossi rami che poi piantano di fronte alle loro cose: un rito che chiamano nella loro lingua blasfema “piantar maggio”. In tutto questo ci sono parecchie cose da dire e condannare: il pericolo di peccare nottetempo, il danno che ne deriva ai proprietari di boschi e vigne, e lo scandalo che persiste di antichi riti pagani. Che i parroci non perdano occasione d’estirpare questo abuso. Tutto questo è contro il precetto di Dio, la pubblica onestà, i buoni costumi ed è motivo d’intollerabile scandalo”.

Il cantar maggio è un canto che inneggia al trionfo della primavera, intriso della gioia di vivere e augurio di fecondità. Nell’area di cultura mediterranea maggi erano i ramoscelli di mirto (sacro a Venere e a Maia) che i giovani offrivano alle ragazze come pegno d’amore e di fecondità, mentre nell’area di cultura germanica Maggi erano i ramoscelli di pino portati in festose processioni a maggio, di porta in porta, da gruppi di questuanti che chiedevano cibi e dolciumi in cambio.
Questa la tradizione era diffusa sulle Langhe ancora in anni recenti: gruppi di giovani, senza distinzione di età o sesso, accompagnati da suonatori, andavano di cascina in cascina, di casa in casa, con un ramoscello di pino, dov’erano appesi dei nastri colorati e dei fiori di campo. A volte li capeggiava una ragazza vestita da sposa. A ogni tappa fingevano di piantare il ramoscello di pino (il maggio) e cantavano (dialetto delle Alte Terre Langasche):
Se chërzi nènt che mägg u-r’è rivâ
Vnì a la fnésctra e lu vughi ben ciantâ!
(Se non credete che maggio sia arrivato,
andate alla finestra e lo vedete ben piantato!)
Sono indubbiamente notevoli, in questo canto, le analogie con il Cantè i’öv (cantar le uova) del periodo quaresimale; ma nel cantè mägg c’è una differenza sostanziale: è lo “spirito celtico - pagano degli alberi” che vaga tra le case a portare il suo auspicio di una buona annata, dagli ottimi raccolti. Identico al Cantè i’öv (cantar le uova) è il saluto agli abitanti della casa, con la richiesta di un omaggio, i ringraziamenti o gli improperi. Dapprima la presentazione della “sposa”:
Vardè che béla scpusa e che bel ané är di.
Ër fiö chu la scpusa u sära cuntente ‘n dì.
(Ammirate che bella sposa e che bell'anello al dito.
Il giovane che la sposa, sarà un giorno contento.)
A questo punto la richiesta:


Béla padròn-a, sa vô dène charchòs …
niäci e-suma in viäge, es-riposuma ‘n pòch.
(Bella padrona, se gradisce darci qualcosa …
noi siamo in viaggio, ci riposiamo un poco).
Ricevuto “il dono”, seguiva il ringraziamento:
Sciùra padròn-a, cha pija ‘r nosctr bael buchét
e chu piàscia a Nosctr-Scgnù cha i’hägia di bei chuchét.
(Signora padrona, prenda il nostro bel mazzolino
e piaccia a Dio che abbia dei bei bozzoli “bachi da seta”).
Infine il commiato:
Ringraziùma sciùra padròn-a cha i’hà da-scì-ben dunâ
e che Nosctr-Scgnù e ra Madòna la tenu in sanitâ.
(Ringraziamo la signora padrona che ha così ben donato,
e che Dio e la Madonna la mantengano in buona salute).
(Da: Guido Araldo, Mesi Miti Mysteria)

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