26 giugno 2018

EDUARDO DE FILIPPO A PALERMO


Palermo, Lettere, 69. La lezione di Eduardo

 Piero Violante

      Ricordo l’apparizione di Eduardo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, in agitazione. Era forse la prima volta che Eduardo si lasciava convincere a tenere una lezione in una facoltà. A convincerlo riuscì Rognoni, sempre lui, che di Eduardo era amico ed estimatore. Quella lezione dal titolo Perché il teatro di Eduardo? m’è rimasta negli anni impressa per la lucidità intellettuale e la forte tensione con cui Eduardo recitò una Ballata, un Moritat sul suo modo di fare teatro, attraversato dal cruccio della necessità di riscattarlo dalla facilità del comico.
Eduardo - così ci raccontò - aveva esordito nel 1904, a quattro anni, al Teatro Valle, nel teatro di Scarpetta, dinanzi a Vittorio Emanuele III, la regina Elena e sei palchi - ricordo la sottolineatura ironica con gli occhi del numero sei - di dignitari di corte. Era l’epoca in cui Scarpetta per nove mesi l’anno riproponeva al pubblico, ancora «entusiasticamente unitario», la napoletanizzazione della pochade francese e vi inseriva la cristallizzazione del piccolo-borghese-pulcinellesco: la maschera di Felice Sciosciammocca e di cui Eduardo sottolineò la parentela con il Fefè di Pi-randello. Ecco, questa operazione di Scarpetta - ci disse Eduardo - che si era per forza scordato di Goldoni e del suo teatro borghese, di Gallina e dello stesso Petito (e di cui Eduardo non a caso riprenderà negli anni Cinquanta Palummella) segnò la prima e grave distorsione del teatro italiano del Novecento, lo scotto che Scarpetta doveva pagare per sopravvivere con il mestiere. Il teatro doveva far ridere e Scarpetta-Sciosciammocca faceva ridere.
Ma lo scotto di Scarpetta, ci disse Eduardo, è stato per anni anche il suo. Quando nel ’28 mise su compagnia, capì che per trascinare il pubblico, prendendolo per la cravatta, doveva coprire di comicità il fondo tragico del suo modo di intendere il teatro. Tant’è - ci disse Eduardo - che di Natale in casa Cupiello sia il pubblico che la critica preferiva il finale delsecondo atto con l’arrivo dei Magi e si seccava per il plumbeo finale del terzo. Agli italiani di quegli anni il presepe piaceva, eccome! Così Eduardo continuerà a pagare, soprattutto sotto il fascismo quando «quello del balconcino» - ci disse - proclamò che a lui le compagnie dialettali non piacevano. Bisogna aspettare la guerra, la sua drammaticità e la miseria del dopoguerra perché la tragicità di Eduardo potesse venire fuori senza più cautele. Eduardo si riferì soprattutto a Il Sindaco di Rione Sanità. La dimensione epica allora conquistata da Eduardo, commentò subito Rognoni, lo avvicina all’esperienza di Brecht: i napoletani lumpen di Eduardo sono «straniati» per trarne una lezione morale e dialettica sulla ricchezza e la miseria, sui valori borghesi e sulla loro falsità, questa sì comica. Quella sera del marzo 1969, dopo una recita al Biondo di Filumena Marturano, a cena, al Cassaro, allora in una traversina di corso Vittorio Emanuele, ci spiegò come i tempi della recitazione vadano sempre costruiti e soprattutto rispettati. «È da trent’anni - ci disse, rifacendola mentre tutto il ristorante si fermò per ascoltarlo - che quella scena di Filumena quando poggio le mani sul tavolo e mi alzo dalla sedia la faccio sempre uguale, con lo stesso tempo». Imbrigliare il tempo, costruirne uno proprio per comunicare allo spettatore il valore, il senso di un gesto, di una parola.

Da PIERO VIOLANTE, Swinging Palermo, Sellerio, 2015

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