Testo di Vincenzo Consolo letto al Convegno su S.A.Guastella a Chiaramonte Gulfi il 3.6.2000, ripreso dal bel sito http://vincenzoconsolo.it/?p=1706
“Come gioco di specchio, mercurio su una lastra”
“Corre l’antica Fama per le capitali,
l’ingiusta Dea dalle lunghi ali e dalle cento bocche ripete che stolidi,
folli, incomprensibili sono gli abitatori delle ville, i terragni che
rivoltano zolle, spetrano, scassano, terrazzano, in capri con le capre
si trasformano, in ape acqua vento con i fiori, dalla terra risorgono
sagome di mota e di sudore; che nelle soste, lustrate lingua e braccia,
sciolto l’affanno all’acque virginali delle fonti, nelle notti di Luna,
nelle cadenze dell’anno, sulle tavole d’un Lunario immaginario, di motti
fole diri sapienze – Aprile, Sole in Toro: zappa il frumento tra le
file, zappa l’orzo l’avena le lenticchie i ceci le cicerchie, strappa
dalle fave la lupa o succiamele – muovono arie canti danze, in note
movenze accenti sibillini, stravaganti. E nelle capitali, accademici
illustri, dottori rinomati, in oscuri dammusi, catoi affumicati,
scaffali scricchiolanti, teche impolverate, ammassano cretosi materiali,
la lingua glossa, la memoria, la vita agreste; con lenti spilloni mirre
olii, con lessici rimarii codici, studian di catturare cadenze ritmi
strutture. Ma l’anima irriducibile, finch’è viva, guizza, sfugge,
s’invola, come gioco di specchio, mercurio su una lastra.” (da Lunaria di Vincenzo Consolo)
Nel novembre del 1997, l’inglese John Berger rispondeva su Le Monde Diplomatique
con una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli
del Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale
del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della
povertà, la globalizzazione dello sfruttamento, l’internazionalizzazione
finanziaria e la globalizzazione del crimine e della corruzione, il
problema dell’immigrazione, le forme, legittimate di violenza praticate
da regimi illegittimi e, infine le zone o sacche di resistenza, tra cui
naturalmente, quella rappresentata dall’esercito Zapatista di
Liberazione.
Berger, a proposito di zone o sacche di
resistenza avanzava un esempio storico, un luogo del Mediterraneo dal
profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di quest’isola, l’entroterra
intorno a Ghilarza, il paese dove è cresciuto Antonio Gramsci. “Là”
scrive Berger “ogni tanca, ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre
[…] Queste pietre sono state accumulate e messe insieme in modo che il
suolo, benché secco e povero, potesse essere lavorato […]. I muretti
infiniti e senza tempo di pietra secca separano le tanche,
fiancheggiando le strade di ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai
caduti dopo secoli di usura, suggeriscono l’idea di labirinti in
rovina”. E aggiunge ancora, Berger, che la Sardegna è un paese
megalitico, non nel senso di preistorico, ma nel senso che la sua anima è
roccia e sua madre è pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi
nell’isola e le domus de janas, le grotti celle per ospitare i
morti. Ricorda la diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (-Chiunque
venga dal mare è un ladro, dicono), della loro ritrazione nell’interno
montuoso e inaccessibile e l’essere stati chiamati per questo dagli
invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla sua
conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e la
speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero politico.
Ho voluto riportare questo scritto di
Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci che illumina il mondo
nostro d’oggi, perché simile alla situazione sarda – situazione fisica,
orografica, e umana, storica, sociale – mi sembra il mondo della Contea
di Modica restituitoci da Serafino Amabile Guastella. Pietroso è
l’altipiano Ibleo, aspro il tavolato tagliato da profonde cave, duro è
il terreno scandito dai muretti a secco che nei secoli i villani hanno
abitato, in grotte hanno seppellito i loro morti. Guastella non è certo
Gramsci, non è un filosofo, un politico, è un illuminato uomo di
lettere, uno studioso di usi e costumi, tradizioni, linguaggi,
un’analista di caratteri, ma, nel dirci dell’inferno dei villani della
sua Contea, della loro “titurìa”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà,
furbizia, illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli
uomini, della condizione modicana pre e postunitaria, di un’estremità
sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi
rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un
“antivangelo” le Parità e le storie morali, come dice Sciascia,
un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza rimedio, senza
mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non c’è, nel mondo di
Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli contro cui andarono a
cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al Salomone Marino, in mezzo a
cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni: il suo sicilianismo a oltranza
lo portò ad aderire al Felibrismo di Frédéric Mistral, il movimento
etno-linguistico finito nel fascismo di Pétain. Si legga il racconto
dell’incontro a Modica di Di Giovanni con Guastella, della profonda
delusione che il poeta di Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire
l’impressione che ne ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via
senz’altro, mogio mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella
rovina d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista
così fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la
mitizzazione è la madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella,
all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più in là
siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimì di Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale,
in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni di
libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo di
quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si trova,
l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti critici: nel
1837, durante l’imperversare del colera, in cui il padre dello
scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di Siracusa assieme
all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un tal Giovanni
Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di Monterosso dalla
plebe. Ribellioni ci sono state, nel ‘93/94, durante i fasci siciliani;
nel 1919 e 1920 in cui il partito socialista conquistò i comuni di
Vittoria, Comiso, Scicli, Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini,
Spaccaforno, e che provocò lo squadrismo fascista degli agrari. Rispunta
ancora l’anarchia e ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini,
nel ‘43/44. Nel Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries
alla vera e propria insurrezione armata. A Ragusa e a Comiso si proclamò
la repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse; non
fasciste dunque e neppure separatiste, e si sa anche che a proclamarle
furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da dirigenti
locali, a volte essi stessi contadini” Scrive Francesco Renda.
Dalla rivolta di Ragusa ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di Ragusa.
La profonda anima di pietra dei villani
della Contea di Modica, quella indagata e rappresentata da Serafino
Amabile Guastella, mandava nel Secondo Dopoguerra i suoi ultimi
bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta cultura, illuminista e
liberale democratico, con citazioni d’autori, esempi, dava segni del suo
modo di vedere e di sentire quel mondo di pietra, del suo giudizio
sulla condizione dei villani. “Vivendo a stecchetto dal primo all’ultimo
giorno dell’anno, il nostro villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella
teoria che la proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che
il vero, il legittimo padrone della terra dovrebbe essere lui, che la
coltiva e la feconda, non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col
sudore degli altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto
qui per inciso, quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza di
riforma agraria in Tunisia nel 1885, ch’era detta “Diritto di
vivificazione del suolo”.
E quindi, più avanti, parlando del
concetto e pratica del furto dei villani, scappa, al nostro barone, una
parola marxiana, “proletario”. “…perocchè è conseguenza logica e
immediata dei compensi escogitata dal proletario” scrive. Nel capitolo
VI, illustrando ancora la pratica del furto, scrive: “Le idee del furto
nel villano non essendo determinate dal concetto legale della proprietà
di fatto, ma da quello speculativo della proprietà naturale, che ha per
norma il lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in
direzione opposta delle precisazioni dei codici. Il capitolo X delle Parità attacca
così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O’Connel, la
definì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di resistenza
passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la formula, l’hanno
però messa in pratica molto tempo prima di O’Connel, e del padre
Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel O’Connel, detto il grande
Agitatore, capo de la rivolta contro gli inglesi e padre
dell’indipendenza dell’Irlanda; l’O’Connel lodato dal filosofo e teologo
palermitano padre Gioacchino Ventura. Fin qui l’intellettuale
Guastella. Ma occorre soprattutto dire dello scrittore, di quello che si
colloca, afferma Sciascia, tra Pitré e Verga.
“Se fossi un romanziere non parlerei
certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle, perché in questo
racconto ha una parte secondarissima, ma non essendo uno scrittore!…”
scrive Guastella in Padre Leonardo. Credo che questa frase sia
la chiave di lettura di tutta l’opera del barone di Chiaramonte. Uno
scrittore, il Guastella, diviso tra la vocazione, la passione del
narrare e l’impegno, il dovere quasi, culturale e civile,
dell’etnologia; diviso tra la poesia e la scienza, l’espressione e
l’informazione, l’obiettività e la partecipazione, la rappresentazione e
la didascalia. Ma è già, in quel racconto, un po’ più vicino alla
narrazione e un po’ più lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia,
là, è come inclusa e sciolta nella narrazione, implicitamente
dispiegata, e meno esemplificata e scandita, come al contrario avviene
nelle Parità. In quel racconto, l’autore, consapevole dello
slittamento verso la narrazione, mette subito in campo nel preambolo una
mordace autoironia facendo parlare il protagonista: ”Io, fra Leonardo
di Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il
giorno 7 marzo 1847, […] senza saper come, nel marzo del 1875 mi trovai
risuscitato per opera di un imbrattacarta, il quale non ebbe ribrezzo
di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e in anno di
Giubileo […]”. E con questa bricconata d’intento […] il mio persecutore
mi ha costretto ad andare per il mondo […] O Gesù mio benedetto, datemi
la forza di perdonarlo!”
Il padre Leonardo si muove tra
Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come Petruska nel
balletto di Stravinskij, altri personaggi: fra Liborio, padre Zaccaria,
don Cola, mastro Vincenzo…
Ognuno d’essi suscita ancora altri
personaggi, illumina luoghi, ambienti, storie,istituzioni, usi, costumi,
linguaggi… Attraverso loro conosciamo conventi, chiese, confessori e
bizzocche, giudici e sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e
dominati, cavalieri grassi e villani dannati in abissi di miseria.
Attraverso quel don Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria,
costretto a fare un viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce
violenza del governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del
Carretto. E non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra
Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del
principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità
linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “architetture
magnifiche e il mobilio stomachevole”.
Quando è sciolto, Guastella, da
preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando sopra la testa di
cavalieri e villani, capedda e burritta, osserva il cielo, la natura,
scrive allora pagine alte di letteratura, di poesia: “Dalle montagne
sovrapposte a Roccanormanna scendea una nebbia fittissima, che prima
invadeva le colline, poscia il paesello, indi un tratto della montagna,
mentre dalla parte opposta, in cielo tra grigio e nerastro correvano
nuvole gigantesche a forma di draghi, di navi, di piramidi, di
diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle diavolerie il sole ora si
nascondeva, ora riapparia come un bimbo pauroso dietro le vesti materne.
Finalmente privo di splendore e di raggi come una lanterna appannata,
andò a tuffarsi in mare…” Questo brano, ecco, è speculare a quello
ipogeo profondo, a quell’onfalo d’orrore, a quel Cottolengo, cronicario o
Spasimo asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della fiera di Palazzolo.
Ma torno, per finire, a quel Berger da
cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla Ghilarza di Gramsci
quale metafora storica delle sacche di resistenza nella globalizzazione
economica di oggi.
A Ghilarza, appunto, c’è un piccolo
Museo Gramsci: fotografie, libri,lettere; in una teca, due pietre
intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si esercitava a
sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e correggere la
malformazione della colonna vertebrale. Sono un simbolo, quelle due
pietre, simbolo che, cancellato in questo contesto sviluppato, affluente
e imponente, riappare nei luoghi più pietrosi e disperati del mondo.
Nel Museo dell’olio di questo paese, di
Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico: uno scranno, una
poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è fissato alla spalliera
con un lucchetto. Su quello scranno poteva sedere soltanto il cavaliere,
il proprietario del frantoio, che deteneva la chiave del lucchetto,
giammai il villano. Il simbolo mi dice, ci dice questo: da noi, nel
mondo sviluppato, la partita è chiusa col lucchetto, la chiave la tiene
il gran potere economico che governa il mondo. Ma quel potere, e noi con
lui, dovrà fare i conti con le pietre di Ghilarza, con i pesi di
Gramsci.
Noi, se non vogliamo essere dominati,
essere espropriati di memoria, conoscenza, essere relegati nelle grotte
degradanti e alienanti della produzione e del consumo delle merci, se
vogliamo essere liberi, non possiamo che anarchicamente ribellarci,
resistere e difendere il nostro più alto patrimonio: la cultura, la
letteratura, la poesia.
Claude Ambroise, presentando insieme a
Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle opere più significative
della cultura siciliana tra il Sette e l’Ottocento, pubblicata dalla
Regione Siciliana, ebbe a dire che senza la conoscenza, senza il
possesso di quel substrato, di quel patrimonio morale, avremmo rischiato
di camminare, di procedere nel vuoto. In quella collana era stato
ristampato Le parità e le storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino.
Guastella, ecco, è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale.
Vincenzo Consolo
Milano, 2 giugno 2000
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