22 marzo 2022

ROMPERE TUTTI GLI SCHEMI PRECOSTITUITI CON CAPITINI

 



Rompere lo schema della guerra

Pasquale Pugliese
22 Marzo 2022

La nonviolenza non è una proposta utopistica che prefigura un mondo senza conflitti, ma – al contrario – un metodo per stare dentro ai conflitti, gestendoli in maniera non distruttiva. È il tentativo di abbandonare il richiamo retorico e inconcludente alla pace o peggio la via armata alla pace, sempre più usata dai governi, come dimostra anche la vicenda dell’Ucraina. Come ha riconosciuto Norberto Bobbio, a proposito del pensiero e della lotta di Aldo Capitini, “dal punto di vista filosofico la teoria della nonviolenza richiede un totale capovolgimento del modo tradizionale di porre il problema del rapporto tra mezzi e fini…”: il metodo nonviolento non accetta di combattere l’avversario violento con le sue stesse armi, ma vuole essere alternativo anche negli strumenti, offrendo perfino all’avversario una via d’uscita dalla sua dimensione di violenza. Solo la nonviolenza, dice Bobbio, è destinata a cambiare la storia, anche se nessuno sa quando e come

Nella grave crisi che sta attraversando l’Europa, dove un paese – l’Ucraina – è occupato militarmente da una potenza nucleare – la Russia – con una guerra che al momento non vede alcuno sbocco positivo, le democrazie occidentali – dopo vent’anni di sciagurate guerre in Afghanistan e in Iraq, che non hanno insegnato nulla – non trovano niente di più sensato che fornire armi al governo ucraino, contribuendo all’escalation bellica anziché al cessate il fuoco. In questo scenario mi pare utile condividere qualche riflessione sulla filosofia politica della nonviolenza di Aldo Capitini, che rompe lo schema antiquato della guerra, proponendo una alternativa razionale. C’è bisogno di orizzonti di senso differenti rispetto alla coazione a ripetere del fine che giustifica i mezzi ed al bellicismo dilagante, che sta conducendo al rischio – più reale che mai – dell’apocalisse nucleare. [P.P.]


La nonviolenza per Aldo Capitini va nel profondo della realtà attuale, scova e smaschera ciò che – da sempre violenza – non appare più violenza; rimette in discussione l’esistente in tutti i suoi aspetti; apre le chiusure del passato e orienta il mondo verso il nuovo. “Chi commette la violenza, ripete passivamente millenni” – scrive profeticamente – “dire intrepidamente no è far posto ad altro”. Rompere gli schemi, a cominciare da quello più rigido e mostruoso: la guerra.

Nella guerra le singole personalità scompaiono, annullate all’interno della separazione fondamentale tra “i nostri” e “i nemici”. Per di più, dopo Hiroshima e Nagasaki, con la concreta possibilità di distruzione nucleare ricercata dai governi e fornita dagli ineliminabili sviluppi tecnico-scientifici, la guerra può segnare la stessa fine dell’umanità e della vita sul pianeta. Capitini, consapevole di questo, dedica la maggior parte delle proprie energie mentali e fisiche alla decostruzione della cultura bellica ed alla costruzione di una solida cultura e prassi di pace. Anche perché la pace, secondo il filosofo di Perugia, non è raggiungibile attraverso il blando pacifismo che si è opposto vanamente alle due guerre mondiali, ingenuamente adagiato sulla fiducia nelle “sorti magnifiche e progressive” del genere umano ma solo attraverso la consapevole scelta della nonviolenza. Cioè attraverso il processo di “liberazione dell’uomo-società-realtà dagli attuali limiti”, che comprendono la guerra e gli armamenti che la preparano.

La nonviolenza, dunque, non è una proposta utopistica che prefigura un mondo senza conflitti, ma – al contrario – un metodo per stare dentro ai conflitti, affrontandoli e gestendoli in maniera non distruttiva. L’esperienza del conflitto, insopprimibile in quanto espressione della diversità di interessi, bisogni e diritti tra le persone, può diventare un’occasione di ricerca della verità, impostata in modo da favorire tale ricerca attraverso quello che Capitini definisce metodo nonviolento. Ne Le tecniche della nonviolenza del 1967 Aldo Capitini spiega sia la scelta di scrivere nonviolenza in una parola, sia l’importanza di costruirne un metodo. Scrivere nonviolenza in una parola, senza separazione o trattino, significa evitare di attribuirne una connotazione negativa di mera astensione dalla violenza, mettendo invece l’accento sulla dimensione positiva e costruttiva di un’altra modalità di agire nel mondo, personalmente e politicamente. Proposito reso ancora più evidente, e pienamente, nella locuzione “metodo nonviolento”: “la nonviolenza – scrive Capitini – è affidata a un metodo che è aperto in quanto accoglie e perfeziona sempre i suoi modi, ed è sperimentale perché saggia le circostanze determinate di una situazione”.

Metodo significa l’insieme di teoria e pratica, di ricerca e sperimentazione, in questo caso sul tema della tasformazione nonviolenta dei conflitti, ai diversi livelli: interpersonali, intergruppali, internazionali. È il tentativo di fuoriuscire da un approccio utopistico alla pace, ancorato sull’irenismo retorico e inconcludente – o peggio sulla via armata alla pace, sempre più usata dai governi, seppur ancora più utopistica – mettendo in campo un altro approccio, positivo e generativo, realistico ed efficace, fondato non solo filosoficamente ma anche sperimentalmente. Naturalmente Capitini non intende rinchiudere la proposta nonviolenta in un dispositivo automaticamente applicabile, ma elabora un metodo che definisce “aperto e sperimentale”. (…)

L’irruzione della nonviolenza sullo scenario politico ne modifica i fondamenti. Nella filosofia politica occidentale la violenza è da sempre legata alla politica nella misura in cui da questa è esclusa la morale, secondo la formula paradigmatica di Niccolò Machiavelli: “dove si delibera il tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso” (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livo). Qui è esplicitata la teorizzazione della separazione concettuale tra i mezzi che – svincolati da ogni scrupolo etico – possono essere comprensivi di qualunque strumento, anche i più violenti e distruttivi, e il fine della politica di assicurare pace, benessere e sicurezza ai cittadini. La più importante conseguenza di questo principio separatore tra politica ed etica, tra mezzi e fini, è all’origine della legittimazione filosofica e giuridica della guerra e della sua preparazione, attraverso gli eserciti e le spese militari, come mezzo e strumento della politica. Come instrumentum regni che diventa, in questo modo, politica di potenza.

La celebre formula del generale prussiano Carl Von Clausewitz – “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi (Della Guerra) – non è un’eccezione estremista della filosofia della politica, ma è l’ulteriore definizione di un fondamento del pensiero e della prassi politica occidentale. Non solo di quella classica e moderna, ma anche di quella contemporanea. Nella quale, anzi, come spiega un altro generale, a noi contemporaneo, l’italiano Fabio Mini, il rapporto tra politica e guerra è addirittura ribaltato: “l’uso della forza non è più l’extrema ratio; non è neppure lo strumento ancillare della politica e della sicurezza: la guerra e la minaccia della guerra consentono di creare l’insicurezza e mantenerla a quel livello di parossismo necessario all’esercizio del potere”(Che guerra sarà). Ormai è la politica ad essere diventata – sostanzialmente – la continuazione della guerra con altri mezzi.

La nonviolenza rifonda il nesso tra etica e politica, riportando la morale nell’ambito politico ed espellendo da esso la violenza. La nonviolenza capitiniana, d’accordo con l’insegnamento gandhiano, si pone in atteggiamento decisamente antimachiavellico ricollegando strettamente i mezzi ai fini. Sotto questo aspetto il pensiero di Aldo Capitini è chiaro e preciso nel ribadire, e fondare ulteriormente, un principio assoluto del metodo nonviolento: “nella grossa questione del rapporto tra mezzi e fini, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile se vuoi la pace prepara la guerra, ma attraverso un’altra legge: durante la pace, prepara la pace”. È evidente, in questo senso, la vocazione rivoluzionaria della nonviolenza che ribalta esplicitamente una consolidata tradizione che vuole la guerra come via alla pace, la violenza alla rivoluzione, l’autoritarismo alla libertà.

Come riconosce pienamente anche Norberto Bobbio, “dal punto di vista filosofico la teoria della nonviolenza richiede un totale capovolgimento del modo tradizionale di porre il problema del rapporto tra mezzi e fini”. Questo è il tratto veramente e integralmente rivoluzionario: il metodo nonviolento non accetta di combattere l’avversario violento con le sue stesse armi, ma vuole essere alternativo anche negli strumenti, offrendo anzi all’avversario una via d’uscita dalla sua dimensione di violenza. “In quanto rovesciamento di tutto quello che è avvenuto nella storia la nonviolenza è rivoluzione, e non potendo essere mai attuata fino in fondo è rivoluzione permanente” – continua Bobbio – “Solo la nonviolenza è destinata a cambiare la storia, anche se nessuno sappia quando e come. E la cambia perché tende ad eliminare definitivamente il mezzo principale ed ultimo cui gli uomini sono sempre ricorsi per edificare la loro storia di sangue” (Introduzione a Il potere di tutti).


Brano tratto da alcune pagine del volume Introduzione alla fiolosofia della nonviolenza di Aldo Capitini (Pasquale Pugliese, GoWare, 2018)


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