FRANCO FORTINI, MILO DE ANGELIS e
LA POESIA DEGLI ANNI SETTANTA
di Maria Borio
A
UN GIOVANE
«Non son colui, non son colui che credi.»
«E
altro da veder che tu non vedi.»
(Inf.
XIX, 62 e Inf.
XXIX, 12)
Franco Fortini, 1985 [1]
1. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento la poesia italiana attraversa una delle sue fasi più interessanti. Sereni, Zanzotto, Risi, Giudici, Sanguineti raggiungono la maturità creativa negli anni Sessanta e pubblicano raccolte che contraddistinguono quel periodo come uno dei più fecondi per la lirica del Novecento. Allo stesso tempo, si formano i giovani poeti che scriveranno le loro prime opere nel corso del decennio successivo, spezzando ogni concezione ideologica di forma e di stile. Si sviluppa un rapporto complesso di identità\diversità tra la generazione dei padri e la nuova, che può essere rappresentato simbolicamente dall’uscita di Satura nel 1971: da un lato è messo in discussione il lirismo tragico del modello montaliano fino ad allora recepito e, dall’altro lato, il modo di leggere e interpretare la tradizione diventa sempre più elastico. Per comprendere questa fase di passaggio, può essere utile affrontare il rapporto tra due autori fondamentali per la poesia contemporanea, Franco Fortini e Milo De Angelis. La diversità apparente tra le loro opere si rivela, infatti, ricca di intersezioni profonde, che possono essere documentate attraverso le tappe della loro amicizia e che testimoniano l’incontro, più o meno conflittuale, tra due generazioni: quella che precede il Sessantotto e quella che lo segue.
In un’intervista del 1980, Fortini descrive il suo atteggiamento con gli studenti che erano nati negli anni Sessanta parlando di una comprensione emotiva più difficile di quella che c’era stata con la generazione precedente; aggiunge, però, che poteva esserci «meno nevrosi reciproca» e la possibilità di una comunicazione meno tesa e più produttiva[2]. Anche l’amicizia tra Fortini e De Angelis va letta in questa prospettiva, secondo uno slittamento dal ruolo di padre al ruolo di insegnante. Milo De Angelis incontra per la prima volta Fortini a Milano nel 1969: ha diciotto anni, è iscritto alla terza G del Liceo Berchet ed ha un rapporto burrascoso con il suo professore di italiano, Francesco Leonetti, che aveva fondato, insieme a Pasolini e Roversi, «Officina» ed era iscritto al gruppo milanese di «Servire il popolo». Le lezioni di Leonetti erano ispirate a un marxismo radicale: a un giovane come De Angelis, per nulla entusiasmato dalle rivoluzioni materialiste del Sessantotto, apparivano vicine all’indottrinamento. «Parlare di Pavese o Nietzsche con lui era impossibile», ha raccontato De Angelis[3] che, nel 1969, aveva già scritto il nucleo originario del suo primo libro, Somiglianze (1976)[4], e cercava una personalità intellettuale con cui potersi confrontare proprio sulla base di quelle prime poesie. Leonetti gli presenta Fortini, che insegnava dal 1966 in un istituto superiore milanese e aveva iniziato da qualche anno la collaborazione con Mondadori. Prende avvio un intenso rapporto. De Angelis ricorda una grande generosità da parte di Fortini: si fermava con scrupolo sui suoi testi, analizzava i dettagli, suggeriva soluzioni ed esercizi. Frequenti erano le discussioni sulla letteratura. De Angelis, ad esempio, attaccava la predilezione per Volponi, Roversi, Di Ruscio e il fatto che Fortini riducesse Campana ad un epigono di Rimbaud. Da parte sua, Fortini non si riconosceva nell’apprezzamento per Piovene e per Pavese. Nei confronti dello scrittore delle Langhe, però, non c’era un atteggiamento di rifiuto radicale e, ancora oggi, De Angelis suggerisce che la distanza tra i due poteva essere stata una conseguenza delle riserve di Pavese verso Foglio di via, come testimonia la stroncatura per l’eccesso di retorica partigiana. In fondo, esisteva una forte somiglianza caratteriale tra Pavese e Fortini, perché entrambi erano caratterizzati da una profonda severità tragica: «Pavese era un uomo fortiniano come severità»[5]. Punto d’incontro era Sereni, di cui sia Fortini sia De Angelis non condividevano l’inclusione nella linea lombarda di Anceschi, riconoscendo che la complessità sereniana non poteva essere livellata secondo il riferimento ad una poesia totalmente in re, oggettuale e referenziale, senza considerare gli aspetti di interiorizzazione psichica che la farebbero appartenere ad una linea lombarda più tragica, che va da Manzoni agli Scapigliati, da Testori ad Antonia Pozzi.
Nel 1974 un gruppo di testi di De Angelis sarebbe dovuto uscire sull’«Almanacco dello Specchio» con prefazione di Fortini che, però, si rifiuta di presentarli (la silloge, con il titolo L’idea centrale, uscirà sull’«Almanacco» nel 1975 con prefazione di Barberi Squarotti). Nello stesso anno Fortini invia a De Angelis un biglietto in cui sostiene la necessità di troncare il loro rapporto. Il contesto in cui si verifica questa rottura è quello post-Sessantotto. De Angelis, che non aveva mai aderito alle istanze ideologiche e collettivistiche del movimento, si era infatti spinto verso un recupero romantico ed assolutizzante della poesia. Questo non significava che non riconoscesse la necessità di una ‘rivoluzione’, ma rifiutava la carica sovrastrutturale e politicizzata di quella rivoluzione. La rivoluzione doveva essere avvertita come un «pericolo» che genera trasformazioni profonde del sentire individuale e sociale, che tocca i nuclei più fondativi dell’individuo e non si risolve solo in un discorso politico. Le parole d’ordine e le domande di appartenenza gli sembravano scatole vuote, formulate per un giudizio che non tiene in considerazione l’«esserci intellegibile rivoluzionario»[6], ossia la presa di coscienza più autentica di quello che il movimento sessantottesco stava generando – non solo nella politica e nei costumi, ma anche nella dimensione individuale, dell’interiorità, dello spirito. Quella rivoluzione che stava determinando trasformazioni culturali irreversibili, tragicamente nuove, come nota anche Fortini nel 1975 parlando della Milano post-Sessantotto: «Il tipo di grinta tragica che Milano ha indossato dopo il ’69, a partire dai duecentomila in piazza per le vittime alla Banca dell’Agricoltura, questo stillicidio di attentati, di morti, di conflitti, tutto questo ha rinvigorito il tono politico e culturale della città. Lo ha drammaticamente rinnovato»[7].
Anche Fortini rifiutava l’impostazione dottrinale del Sessantotto e coglieva le contraddizioni del movimento, tra cui la fede nell’ideologia marxista con frequente elusione dello storicismo dialettico del marxismo[8]. Non poteva, però, non avanzare riserve di fronte ad un’idea di poesia che, affondando nel romantico e nell’irrazionale, rappresentava ai suoi occhi un «pericoloso cedimento all’esistenzialismo»[9], un disconoscimento radicale del valore della storia, dell’impegno civile, della funzione umanistica della letteratura. Nel 1977, quando De Angelis partecipa alla redazione di «Niebo», Fortini si fa ancora più critico. Parla infatti di «rivista di classe», riducendo il suo messaggio ad una posizione sociale da cui diffidare, senza considerare le ragioni profonde che ne avevano stimolato la realizzazione: soprattutto la reazione all’annientamento dei valori dell’arte perpetuato dall’ideologia più radicale del Sessantotto, che aveva prodotto risultati letterari mediocri, ma che, con la sua adesione a un romanticismo orfico e eminentemente irrazionalistico, segnava uno dei confini del successo della scrittura materialista a sfondo politico ampiamente diffusa in quegli anni.
I rapporti tra Fortini e De Angelis riprendono solo un decennio più tardi. Inizia un dialogo sui testi di Paesaggio con serpente (1984), di cui De Angelis non capiva la necessità di alcuni versi troppo edificanti, come gli ultimi due della poesia La buona notte: «il cranio assorto dell’insonnia / che non parla ma guarda»[10]. La loro vicinanza si rafforza soprattutto dal 1991, durante l’elaborazione di Composita solvantur (1994), quando Fortini inizia ad avvertire che la ratio della verità della storia era molto più fallace e imprendibile rispetto ai lucidi entusiasmi di Poesia e errore (1957) e Una volta per sempre (1962), cui fanno da pendant le prose di Dieci inverni (1957) e di Verifica dei poteri (1962). Del materialismo fortiniano sopravvive il versante più dialettico e complesso che lo porta ad avvertire la possibilità di interrogare il fondo enigmatico dell’esistenza: la poetica dell’esemplarità allegorica si affievolisce e la dimensione del lirismo tragico si fa molto più cupa.
2. Attraverso le fasi di questo rapporto intenso e polemico si possono già intuire le ragioni che portarono De Angelis a riconoscere in Fortini un modello con cui instaurare un dialogo complesso, che non si riduceva a parole d’ordine e domande di appartenenza. La personalità individualistica e irrequieta di De Angelis, in cerca di una pronuncia autentica che provenisse dalle regioni profonde dell’io, ma che portasse con sè anche la testimonianza dell’esperienza vissuta e il problema della sua resa formale, trovava in Fortini una delle voci che, nel clima sessantottesco e dei primi anni Settanta, continuava a difendere la letteratura come pratica esperienziale e comunicativa totalizzante, in opposizione alle riduzioni materialistiche, settoriali, eversivo-tecnocratiche e scientistiche della poesia o, sul versante opposto, aristocratico-orfiche e spiritualistiche[11]. Quando Fortini afferma, nel saggio Astuti come colombe, che «è sogno del passato pre-elettronico» che «la lettura debba proporsi come discorso universale, quindi umanistico»[12], in realtà attacca con ironia quella scrittura che si occupa di fabbrica e di società pretendendo di assurgere a letteratura con valore politico costruttivo la specializzazione settoriale e l’attenzione per la scevra oggettività dei contenuti. Proprio per la specializzazione settoriale e per la mancanza di un’attenzione dialettica ai fenomeni della realtà, questa scrittura rappresenta invece solo l’illusione di un discorso etico e sociale davvero edificante. Anche per questo, Fortini criticava le prese di posizione e lo sperimentalismo della Neoavanguardia, privi – a suo avviso – di una vera «capacità dirompente nei confronti delle ideologie dominanti», che è posseduta solo dalle opere con un «carattere di profonda inattualità e ferrea conclusione»[13] – quelle opere, cioè, che riescono a fissare un legame tra la particolarità dialettica dei contenuti e l’universalità di un significato che le trascenda.
L’aspirazione a una totalità fondata su una dialettica di opposti, che Fortini eredita da Lukács e che va ben oltre le categorizzazioni ideologiche del Sessantotto, rappresenta un elemento di grande fascino per il giovane De Angelis, il quale poteva trovare un punto di incontro con la sua idea più percettivo-sensoriale e psichica di totalità, che richiamava in particolare le teorie di Blanchot, di cui De Angelis traduce L’Attente, l’oubli che uscirà nel 1978[14]. Inoltre, una lettura problematica come quella che Fortini diede all’antologia Poesie e realtà di Majorino (1977)[15], era per De Angelis una conferma ulteriore del fatto che la letteratura non potesse essere riportata meramente alla realtà oggettiva: quella del boom economico, ad esempio, che nella visione di De Angelis rischia di ridursi a sociopolitica e risulta interpretabile solo sul piano della cultura storica, dei quotidiani, dell’informazione. Esiste anche la realtà della tensione percettiva, quella per cui affermare, con Majorino, che Mallarmé sia un poeta «privato» e Majakovskij un poeta «pubblico»[16] significa annientare una totalità dialettica in nome di una ideologia parziale.
3. In Fortini la totalità va di pari passo con l’idea di un’essenza tragica della poesia, che è fondamentale anche nella poetica di De Angelis, in cui viene traslata dal discorso storico-sociale fortiniano a un discorso con una marca esistenzialista e viene interpretata sulla scia di Nietzsche. Nei testi di Fortini, il nucleo tragico è reso attraverso due elementi chiave: il simbolismo cosciente e la contrapposizione. La definizione di simbolismo cosciente proviene da Hegel ed è usata da Fortini per descrivere lo stile lirico di Brecht. «Il simbolismo cosciente – dice Hegel – è quello che non solo ha coscienza del significato ma che pone espressamente una distinzione tra questo e la sua rappresentazione». In questi termini, lo stile abbreviativo ed epigrafico di Brecht assume un significato preciso e opposto rispetto ai cortocircuiti dell’analogia surrealista: «la differenza – scrive Fortini – è nel fatto che lo choc del cortocircuito è, nell’analogia surrealista, possibile per chiunque […] partecipi del senso comune; mentre lo choc dell’abbreviazione brechtiana può essere avvertito solo da chi, almeno per un attimo, partecipi di un’ideologia specifica»[17]. Il simbolismo cosciente è assimilabile all’allegoria fortiniana, secondo la quale la realtà oggettiva e apparente si carica sempre di un valore storico e ideologico ulteriore. Nella poesia La gronda, ad esempio, il movimento di una rondine che spicca il volo da una grondaia affissa a una trave marcia diviene figura del presentimento della caduta improvvisa e irreparabile del capitalismo e della sua ideologia (vv. 9-13):
Scopro
dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata,
ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegole. Rondini vi
sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo
i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e
neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non
la spezzano ancora.
Penso
con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò
io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto
nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via. [18]
Inoltre, sempre parlando di Brecht, Fortini riconosce in lui un poeta che «nel momento stesso in cui carica il suo testo di una energia provocatrice di scandalo e persuasione, aggiunge la forza diagrammatica di un’altra energia, quella della contrapposizione nuda, polare, fra positività e negatività, morale e civile, fisica e metafisica, essi e noi, quelli e tu»[19]. La contrapposizione è l’altro polo dell’essenza tragica nella poesia di Fortini, che si esplica straordinariamente in Questo muro (1973), raccolta-cerniera tra la prima fase della sua poesia e la seconda, di cui De Angelis assistette alla genesi proprio negli anni in cui scriveva i testi di Somiglianze. «La dialetticità innerva la poesia di Questo muro assolutamente ad ogni livello»[20]: c’è la contrapposizione allegorica e parabolica tra il mondo dei giovani e quello dei vecchi; tra la de-realizzazione del presente e l’invocazione del futuro, da un lato, e la certezza dei valori della storia, dunque del passato dall’altro lato; tra la natura-idillio e la natura distrutta dalla tecnologia; a livello logico-linguistico, tra enunciato e enunciato, tra coppie di testi in cui il secondo rettifica o invera il primo, tra un lessico della realtà e uno della mente. Ma la contrapposizione riguarda anche quelle che Raboni chiama le «voci di Fortini poeta», che compongono la «raffinata partitura» pluristratica e dialettica del libro: «dalla compattezza metafisico-artigianale dell’inno alla concisione “cinese” (o brechtiana) dell’epigramma; da una discorsività spettrale […] a una scrittura “automatica” […] che ribadisce la singolare connessione esistente fra certi modi fortiniani e la grande lezione surrealista»[21].
L’essenza tragica dei testi di Somiglianze si sviluppa in dialogo con il simbolismo cosciente dell’allegoria di Fortini e con il sistema dialettico di Questo muro. Nella realtà percettiva di Somiglianze la contraddizione si esplica in ogni fenomeno, facendo confluire in un unico stato la vita oggettiva e la vita psichica. Il dato referenziale con funzione allegorica, ad esempio, è recuperato dal metaforismo di De Angelis e stravolto in colate analogiche in cui si fondono esperienza e visione, come possiamo leggere nel primo movimento del testo Dove tutto è in relazione (vv. 1-15), che è un controcanto metaforico del dato referenziale stigmatizzato nel distico di chiusura (vv. 26-27), in cui si può forse avvertire anche l’eco della prosaicità secca e cronachistica di Marino Moretti spogliata della sua aura crepuscolare (il rinvio più immediato è all’incipit di A Cesena, «Piove. È mercoledì. Sono Cesena», in Il giardino dei frutti, 1915[22]):
Essendo
stati chiamati
non è mai buio, qui,
ma è sempre più tardi,
in mezzo
ai doveri, sui tram, immergendosi tra i cappotti
con
le cose da finire, tutte le cose.
E anche adesso la pioggia
sui
vetri lucidi
Non può essere né natura né storia
ma un
episodio
che ogni inverno sa ripetere
vivente e
circolare
mentre tutto esigeva una presenza diversa
che crede a
ogni cosa
senza ripassarla, una cellula leggera,
sorriso del
luogo giusto…
[…]
Via Pacini. Piove, sempre di
più.
Qualcuno mi ha chiesto l’ora.[23]
La gronda e Dove tutto è in relazione sono l’esempio di due modi di rappresentare la tensione drammatica del simbolismo cosciente: letti in comparazione, mettono in scena una disposizione chiastica tra i contenuti oggettivi e il loro svolgimento simbolico (contenuti oggettivi: La gronda, vv. 1-8 – Dove tutto è in relazione, vv. 26-27; svolgimento simbolico: La gronda, vv. 9-13 – Dove tutto è in relazione, vv. 1-15). In altre poesie di De Angelis, però, l’influenza fortiniana è, a livello stilistico, molto più esplicita. In Le sentinelle, ad esempio, si nota un uso del procedimento sottrattivo che caratterizza Questo muro rispetto alle prime raccolte di Fortini, soprattutto per quanto riguarda l’uso degli aggettivi, rastremati verso un’essenzialità scandita e corrosiva. Le verbose analogie preposizionali dei testi di Somiglianze vengono qui ridotte. I versi dell’ultimo movimento (vv. 11-14), ad esempio, appaiono sentenze definite e asseverative che trasmettono la tragicità dell’evento narrato e lasciano in secondo piano le dinamiche percettive irrazionalistiche dei primi due movimenti:
Compiendo
il gesto dove il fiume è profondo
nemmeno così, con i
sonniferi
e il panico, si potrà far vedere qualcosa
a quelli
che non l’hanno mai vista
durante la loro, lontana, e questa
notte
che stanno guardando
in
una lingua imprestata,
senza un solo atto imperativo,
si
tengono in disparte
con parole, simboli di seconda mano,
parlano
ma senza svelare l’inizio
hanno fatto dell’altrove un tempio
abitabile
nella penombra lungo i burroni
si ritraggono dalla
morte per scortarla.[24]
Subito evidente il contrasto tra i verbi al gerundio, che aprono il campo alla sospensione e all’indugio visionario («compiendo», «guardando»), e i verbi all’indicativo dell’ultima parte («parlano», «hanno fatto», «si ritraggono»), che sembrano risolvere e chiarire le sospensioni semantiche precedenti. Tra queste, il nodo analogico al verso 5 («durante la loro, lontana, e questa notte»), in cui l’aggettivo isolato a metà verso tra due virgole e la congiunzione paratattica che segue, producono un cortocircuito visionario tra il primo e il secondo movimento della poesia. Inoltre, l’ultima parte del testo è spogliata completamente degli incisi («con i sonniferi / e il panico», «senza un solo atto imperativo», «con parole, simboli di seconda mano»), frequenti in Somiglianze, che corroborano il flusso emozionale e descrittivo, e lo rendono dominante rispetto a quello della narrazione. Seguendo il procedimento sottrattivo, gli ultimi versi sembrano svuotarsi all’improvviso, per fissare con forza icastica le suggestioni percettive precedenti nella scena.
Se alcune poesie di De Angelis introiettano, in parte, la logicità fortiniana che tende ad asciugare la carica sensoriale analogica, vi sono anche alcuni testi di Fortini in cui l’eredità della lezione surrealista, in accordo con le percezioni associative di Somiglianze, appaiono funzione essenziale del discorso poetico. Un testo come Il seme, ad esempio, ha un’intonazione lirico-meditativa basata sull’incontro tra una comunicazione primaria e una comunicazione rimandata e ricostruibile, concentrata nelle punte d’intonazione visionaria, come il movimento finale, in cui la partitura dei versi è data da quattro proposizioni apparentemente slegate, che rappresentano l’esperienza scioccante della morte del padre e i suoi effetti sulla sfera psichica dell’io:
Caduti
i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della
magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è
fitta
vedo l’erba crudele acida profonda
e l’interrogazione
ritorna
ai colpi di vento e si curva
si divide ritorna ma
dicono i merli di no
camminando o fermi.
Mio
padre
s’inteneriva della propria morte
udendo l’allegretto
della Settima.
Negli angoli dove c’è a marzo maceria
con
gran pianti i bimbi seppellirono
gli uccelli caduti dal nido. Ma
nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le
trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci
sono io
o mio figlio o nessuno.
Tutti
i fiori non sono che scene ironiche.
Ormai la piaga non si
chiuderà.
Con tale vergogna scenderò
i seminterrati delle
cliniche
e con rancore.
Non ancora è luglio
non ancora
scaldato asciutto assoluto
il seme. [25]
Le proposizioni, pur nell’incastro appositivo in cui si avvicendano, mantengono un’integrità che evita sospensioni sintattiche violente. Inoltre, la serie aggettivale analogica del penultimo verso («scaldato asciutto assoluto», v. 27), che richiama circolarmente quella del primo movimento («crudele acida profonda», v. 5), è forse l’unico segmento del testo in cui si accenna una fusione completa tra dato oggettivo e dato psichico che però non si integrano mai del tutto, come avviene invece in De Angelis. Tendono piuttosto a corrispondersi attraverso l’allegoria, che stabilisce correlazioni e un limite diacritico alla fusione percettiva dei rispettivi campi semantici, come per i versi 13-15 («Negli angoli dove c’è a marzo maceria / con gran pianti i bimbi seppellirono / gli uccelli caduti dal nido»), in cui è tracciata la rappresentazione allegorica del sentimento di morte del padre ed è suggerita una riflessione critica sul rapporto tra la narrazione dei tre versi precedenti («Mio padre / s’inteneriva della propria morte / udendo l’allegretto della Settima») e la percezione psichica visionaria che segue.
L’incontro tra tensione drammatica e dinamiche percettive è svolto da Fortini con un’attenzione per la funzione etico-umanistica del testo, che si esplica con una decisa angolatura intellettuale del suo lirismo tragico. Il simbolismo cosciente e la contrapposizione sono strumenti di uno scavo sull’individuo e sulla società, in cui la visione critica tende ad essere sempre eminente rispetto alle ragioni psichiche. De Angelis si concentra su un’esplorazione della coscienza, di come la realtà interviene sulla percezione e influenza il modo di sentire e di capire. L’io di De Angelis appare il riflesso analogico di un profondo flusso emotivo, che apre la sintassi e la semantica per adattarla alla sua percezione dialettica con il mondo. In Fortini, invece, è un medium tra la funzione etica del suo discorso e l’azione critica che squadra i versi in immagini e figure esatte, come nella Gronda, per le quali il lirismo tragico si fonda su una tensione dialettica molto più perentoria rispetto a quella di De Angelis, psichica e sensoriale. In queste diverse posizioni si nota un suggestivo rispecchiamento di identità e di diversità che segna l’evoluzione del lirismo tragico canonico – così come era stato fissato da Fortini, da Sereni, ma soprattutto dai primi tre libri di Montale – verso una sua rappresentazione più fluida, aderente alle intermittenze dei sensi oltre che a una volontà di strutturare il testo in forma lirica con impianto narrativo o argomentativo. Somiglianze è un libro carico di una tensione rivoluzionaria profonda: non ha nulla a che vedere, direttamente, con le spinte ideologiche del Sessantotto, ma introietta la percezione di quelle spinte in una tragicità dialettica che corrode le delimitazioni figurali dei suoi modelli lirici.
4. De Angelis isola una rosa di poesie di Fortini fondamentali per la sua formazione: La gioia avvenire (da Foglio di via), La partenza (da Una volta per sempre), Il seme, Deducant te angeli (da Questo muro), La promessa, La buona notte (che De Angelis conosceva ben prima della pubblicazione di Paesaggio con serpente nel 1984, in cui sono confluite)[26]. Sono testi in cui emerge il versante esistenzialista di Fortini e in cui si rispecchia indirettamente la poetica di Somiglianze. L’aspirazione a una totalità che rappresenti il reale in modo dialettico e l’essenza tragica della poesia, esplicata soprattutto attraverso il simbolismo cosciente e la contraddizione, legano il discepolo al maestro, pur nelle reciproche diversità, e fanno da barriera sia contro gli sperimentalismi settoriali sia contro l’espettorazione irrazionalistica. Anche grazie al confronto con Fortini, De Angelis ha potuto incanalare il suo individualismo romantico, notturno e drammatico verso l’elaborazione di una scrittura che rappresenta l’esperienza vissuta, la sua realtà percettiva e il problema della sua forma, ereditando il lirismo tragico di autori come Sereni e Montale – che viene fuso con la visionarietà di Campana, Rimbaud e con il pensiero nietzschiano -, e interpretando in maniera organica i fermenti irrazionalistici post sessantotteschi.
Alla fine degli anni Settanta, Fortini parlava della poesia dei giovani come di una forma di autoanalisi, una presa di coscienza individuale o di gruppo: «si scrive per farsi leggere da chi a sua volta scrive: ecco perché alle nuove generazioni basta un ciclostilato oppure il testo di una canzone per intendersi. È sufficiente ritrovarsi insieme e leggere ad alta voce i propri versi. Si tratta, in sostanza, di una forma di autoaffermazione psicologica»[27]. Fortini descrive bene un fenomeno che aveva rotto i principi di stile e forma poetica, liberando il campo a una libertà espressiva che segue il mito dell’immediatezza e dell’autenticità[28], di cui gli impulsi dei giovani di «Niebo» o di certa poesia femminile esplosa in quegli anni rappresentano le intonazioni più profonde e irrazionali. Questa libertà si opponeva agli epigoni della Neoavanguardia, alle riformulazioni della lirica di Sereni, di Giudici, di Raboni (come in Cucchi), agli sperimentalismi linguistici su base psichica (come in Viviani), al manierismo nascosto in un sentimentalismo immediato ed ego-centrato (come in Bellezza), cioè a tutte quelle forme di scrittura che, in un modo o nell’altro, restano ancorate a principi riconoscibili di stile e di retorica.
Secondo Fortini, la società e il mercato producono da sempre una classe giovanile ribelle e immediatista che viene poi spremuta dalla ferocia del potere[29]. Tra gli anni Sessanta e Settanta il mercato avrebbe determinato l’indirizzamento della necessità di comunicazione dei giovani verso un delirio d’espressione per un’autoaffermazione psicologica e individualistica sempre più forte? Possiamo forse dar ragione a Fortini. L’individualità tragica di De Angelis non è stata assorbita da strutture ideologiche né da flussi collettivistici e li ha potuti interpretare, in parte, in modo organico. E’ uno dei primi esempi della formazione di quelle isole liriche monadiche che, dagli anni Settanta ai nostro giorni, cercano di tenersi a galla in un mare di scritture che spesso non riconoscono né la necessità di un’arte in cui siano salvaguardati i principi compositivi strutturali-estetici e comunicativi della letteratura, né la sua funzione critica e di mediazione.
Note
[1] Franco Fortini, A un giovane, in Id., L’ospite ingrato secondo, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, con uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 1019.
[2] Cfr. Il tempo dei maestri e il tempo dei padri, «nuovo corriere senese», 19 novembre 1980, ora in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 281.
[3] La ricostruzione dell’amicizia e del rapporto intellettuale tra Fortini e De Angelis si basa su parte dell’epistolario conservato nell’Archivio del Centro Studi Franco Fortini della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena e su una conversazione che ho avuto con Milo De Angelis a Milano nell’ottobre 2012. Tutte le citazioni dalla conversazione verranno indicate con la sigla MDA2012.
[4] Cfr. Milo De Angelis, Somiglianze, Milano, Guanda, 1976, ora in Id., Poesie, Introduzione di Eraldo Affinati, Milano, Mondadori, 2008.
[5] MDA2012, cit.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. Franco Fortini, Nuova cultura a Milano, intervista a cura di Massimo Fini, «L’Europeo», 13 marzo 1975, in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, p. 155 (corsivi miei).
[8] Interessante, a proposito, l’intervista Niente antistoria, ho già pranzato… (di Enzo Golino, «Il Giornale, 22 ottobre 1974», poi in Franco Fortini, La distanza culturale. Intellettuali, mass media, società, Bologna Cappelli, 1980) in cui Fortini critica i fermenti del Sessantotto per la spinta verso il futuro che prospetta una perdita della memoria storica, in Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 146-149.
[9] MDA2012, cit.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. Franco Fortini, Avanguardia e mediazione, in Id., Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1962 (1969²), ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 105.
[12] Id., Astuti come colombe, in Id., Verifica dei poteri, cit., pp. 55-56.
[13] Id., Avanguardia e mediazione, cit., p. 95.
[14] Cfr. Maurice Blanchot, L’attesa, l’oblio, trad. it. e nota introduttiva di Milo De Angelis, Milano, Guanda, 1978.
[15] Franco Fortini, Trent’anni di scritture a altre realtà (recensione a Poesie e realtà ’45-’75, a cura di Giancarlo Majorino, Roma, Savelli, 1977), «il manifesto», 24 dicembre 1977, ora in Id., Disobbedienze. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1985, Roma, manifestolibri, 1997, pp. 178-181.
[16] Ivi, p. 181.
[17] Id., Brecht o il cavallo parlante, in Id., Verifica dei poteri, cit., pp. 356-357.
[18] Cfr. Id., Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963.
[19] Id., Introduzione a Bertold Brecht, Poesie e canzoni, Torino, Einaudi, 1959, ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1351.
[20] Pier Vincenzo Mengaldo, «Questo muro» di Franco Fortini, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, vol. IV. II, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1996.
[21] Giovanni Raboni, Franco Fortini, in Letteratura italiana del Novecento. I contemporanei, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1979, pp. 8684-8686.
[22] Cfr. Marino Moretti, In verso e in prosa, a cura di G. Pampaloni, Milano, Mondadori, 1979.
[23] Cfr. Milo De Angelis, Poesie, cit., pp. 17-18.
[24] Cfr. Ivi, pp. 45.
[25] Cfr. Franco Fortini, Questo muro, Milano, Mondadori, 1973, pp. 36-37.
[26] MDA2012, cit.
[27] Franco Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973: l’articolo è stato rintracciato incompleto e privo di fonte nell’Archivio Franco Fortini conservato nel Centro Franco Fortini della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena (Cfr. Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 217-218).
[28] Cfr. Id., Il mito dell’immediatezza, in «aut aut», 163, gennaio-febbraio 1978, in Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 206-215.
[29] Cfr. Id., Gioventù e mercato, in Id., L’ospite ingrato primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1062.
Articolo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=14837&
[Immagine: Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978 (gm)].
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