12 maggio 2024

PAROLE E ARMI

 



La parola alle armi è uguale all’arma della parola?

di Giorgio Mascitelli

In un articolo apparso sul New Yorker, nel quale prende le distanze dall’attuale movimento di occupazione delle università in solidarietà con Gaza, la scrittrice Zadie Smith ha svolto la tesi che “nel conflitto israelopalestinese le parole e la retorica sono e sono sempre state armi di distruzione di massa”. L’unica prospettiva realista, secondo l’autrice anglocaraibica, è il cessate il fuoco subito per salvare più vite umane possibili perché il discorso politico fatalmente tende a cadere in slogan, prese di posizione ideologiche, espressioni retoricamente obbligate che chiama con la parola shibboleth, ossia quelle parole particolarmente difficili da pronunciare per ragioni fonetiche da chi non appartiene al gruppo linguistico che le usa abitualmente e che pertanto diventano simboli di appartenenza a quel gruppo, insomma qualcosa di simile a quelli che in linguistica si chiamano ideologemi. Nel finale dell’articolo rivendica che la sua prospettiva è puramente umanitaria e si dichiara indifferente a tutti gli epiteti con cui rischia di essere chiamata con un’elencazione che vagamente ricorda il finale di Imagine.

Ora io penso che la tesi di Zadie Smith abbia alcune implicazioni politiche forse sgradite alla stessa scrittrice, ma assolutamente inevitabili da un punto di vista logico. La prima è che se le parole sono un’arma di distruzione di massa, significa che c’è una sostanziale continuità tra chi parla e chi bombarda, magari non con lo stesso livello di responsabilità, con un evidente alleggerimento della posizione morale e politica di chi bombarda. La seconda è che se le armi devono tacere, ne segue che anche le parole devono tacere, perlomeno tutte quelle parole che svolgono un ruolo di critica radicale, incendiano gli animi e generalizzano indebitamente delle accuse politiche. Ora, siccome è normale che durante delle proteste molti dicano cose sconsiderate, in questa prospettiva qualcuno potrebbe pensare che lo sgombero di un’università occupata e magari il licenziamento o la sospensione di qualche docente esagitato sia una forma di tutela della pace. Non so se Zadie Smith la pensi così, forse no, ma certo questa è la conseguenza di questo tipo di equiparazione.

L’aspetto paradossale delle sue tesi è che l’obiettivo da lei stessa dichiarato fondamentale del cessate il fuoco è raggiungibile solo con un’ondata di proteste che, come scrivevo sopra, sono sempre caratterizzate da quell’eccesso verbale che sarebbe l’equivalente di armi di distruzione di massa. Infatti tutto il bombardamento di Gaza si basa sul fatto che Israele gode della protezione statunitense qualunque tipo di violazione delle norme internazionali commetta e l’unico modo per incrinare questa protezione è quella di mettere in difficoltà politica l’amministrazione Biden. Naturalmente ciascuno è libero di credere che un movimento di lettori del New Yorker attento a calibrare attentamente le parole, soppesando le responsabilità, distinguendo, separando una legittima critica da un pregiudizio manifesto, senza intralciare la normale attività didattica e di ricerca metterebbe altrettanto in difficoltà l’amministrazione Biden, però non può rimproverare a uno scettico come me di credere che la cosa sia altamente improbabile. L’unico cosa che si può pretendere dallo scettico è di non mettere in dubbio la buona fede di questo ragionamento e mi guardo bene dal farlo.

Tra gli shibboleth che Zadie Smith cita vi sono da un lato ‘terrorista’ e dall’altro ‘sionista’ e ‘colonialista’ sono quelle parole con cui le due ali estremiste degli schieramenti etichettano le intere rispettive popolazioni incatenandole a identità immutabili. Purtroppo credo che lo shibboleth non stia nella parola in sé ma nella sua intenzione d’uso. Anche parole più rispettabili come ‘democrazia’ possono tranquillamente svolgere una funzione del genere: prendiamo per esempio questa dichiarazione del ministro dell’economia israeliano Nir Barkut, rilasciata in un’intervista al Corriere della sera il 9 maggio scorso, “Non possiamo contare su una democrazia palestinese. Con gli arabi questo sistema non funziona. C’è democrazia a Dubai o in Arabia? Da loro funzionano le tribù. Quindi perché non pensare a un futuro di comunità palestinesi”, naturalmente sotto controllo militare israeliano. Qui si vede come la parola ‘democrazia’ viene usata come discrimine per dividere coloro hanno diritto a un certo tipico di trattamento da coloro che ne sono indegni, legittimando nel contempo pratiche tipiche del colonialismo sudafricano e statunitense che democratiche non sono. La parola ‘democrazia’ diventa qui un meccanismo di giudizio razziale ed etnico, che distingue essere superiori dagli inferiori, e non un sistema politico storicamente dato, costruito per tentativi e mutevole nel tempo. Al contrario definire ‘colonialista’ un tale tipo di discorso è semplicemente un giudizio asetticamente tecnico che mette in luce le radici storiche e il collante ideologico di tale affermazione. E’ la guerra che fa lo shibboleth e non viceversa.

L’errore di prospettiva in cui incorre Zadie Smith è verosimilmente spiegabile con alcuni impostazioni culturali di fondo. Da un lato possiamo indicare l’ideale comunicativo del politicamente corretto che tende a considerare perfetta la comunicazione dalla quale nessuno si senta ferito, ma tale comunicazione finisce con il tendere all’anodino, quasi al grado zero del messaggio, per essere all’altezza del modello morale proposto; dall’altro l’idea di ascendenza liberale che l’origine della violenza nella storia, o quanto meno la sua causa più frequente, è nel fanatismo, nel quale solitamente la parola precede l’azione, particolarmente temuto perché respinge l’uomo nella superstizione e quasi nella ferinità della sua natura animale, trascurando la concezione di origine machiavellica che vede al contrario la violenza come espressione della razionalità strumentale del potere; senza dimenticare lo choc culturale (e il conseguente tentativo di ripristinare un ordine simbolico) di chi ha pensato di vivere con la globalizzazione nell’era più civile della storia e si trova di fronte all’orrore del massacro che proviene da parte di chi era dalla parte giusta della storia (perché si potrà dare tutta la responsabilità politica Nethanyau, ma il governo che sta agendo a Gaza è un governo di unità nazionale) e non da quella superata, per usare l’espressione con cui Obama redarguì Putin all’alba della guerra ucraina.

Le parole non sono mai un’arma di distruzione di massa, nemmeno le parole di coloro che hanno il potere sono armi in quanto tali, ma sono sempre dei sintomi di una decisione politica, con l’eccezione degli ordini, che però a loro volta sono dei performativi ossia parole che agiscono, atti linguistici a tutti gli effetti. Confondere la parola anche violenta con la violenza effettiva può essere il sintomo di una pericolosa confusione del mondo reale con quello mediatico, nel quale scompaiono tutte le differenze in un’unica notte spettacolare.

All’alba dei tempi, nel primo libro dell’Iliade, quando nel campo acheo scoppia la contesa tra Agamennone e Achille per Briseide, la dea Atena scende a fianco dell’eroe, che ha già posto la mano sull’elsa della spada per scagliarsi contro il capo supremo dei Greci, e gli dice di sfogare la sua rabbia con qualsiasi insulto, ma di non trascendere alla violenza. La distinzione è chiara ed è alla base della nostra civiltà, equiparare chi occupa un’università e protesta con chi bombarda significa ignorare l’avvertimento di Atena.

 Articolo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/2024/05/12/la-parola-alle-armi-e-uguale-allarma-della-parola/


 

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