Siamo tutti (più o meno) comunisti
Massimo De AngelisCreare relazioni sociali fondate sul principio “da ognuno secondo le proprie capacità ad ognuno secondo i propri bisogni”, che Marx riprende dagli Atti degli Apostoli, resta oggi più di ieri una bussola per orientarsi qui e ora nella trasformazione del mondo. La potenza di quella bussola, secondo la quale la politica è un processo di continua elaborazione collettiva, sta nella possibilità di riconoscerla operante in qualsiasi casa, quartiere, rete amicale, perfino tra persone che si identificano nella destra
Nei suoi libri, David Graeber ha fatto spesso una distinzione tra l’idea di comunismo come un tipo di proprietà comune dei mezzi di produzione, e una tipologia di relazioni sociali fondata sulla massima – che Marx riprese dagli Atti degli Apostoli – “da ognuno secondo le proprie capacità ad ognuno secondo i propri bisogni”. Da quest’ultimo punto di vista, il comunismo è veramente dappertutto, è trasversale alle ideologie, al rango, alle nazionalità, alle classe di reddito, al genere, al gruppo etnico e si da nel tipo di relazione che si instaura tra chi ha bisogno e chi ha capacità. A un uomo in mare che ha bisogno di essere salvato, lanciargli una corda e un salvagente è il minimo della decenza, così come se sto aggiustando un tubo dell’acqua e ti chiedo se per favore mi passi la chiave inglese vicino a te, tu non ti metti a contrattare il prezzo della prestazione, me la passi e basta. Allo stesso tempo, quando entriamo in una conversazione, ci scambiamo liberamente opinioni e forme di sapere. Il mio bisogno e il tuo bisogno di sapere entrano in rapporto circolare con le tue e le mie capacità di evocazione ed espressione in una danza relazionale che entrambi speriamo porti a uno stato di consapevolezza maggiore di quella dal quale siamo partiti, e che nel frattempo permetta l’incontro con l’altro. In questo senso, cioè nel senso di un azione che crea il suo mondo, questo comunismo di base è dappertutto ed è pervasivo quanto lo è il capitalismo, il mercato, e la gerarchia statale, il patriarcato e il fascismo.
Da questo punto di vista allora, il comunismo non ha a che fare con un’identità particolare, ma piuttosto con un tipo di relazionalità che, a partire dalla quotidianità, si esprime nell’azione che articola relazioni sociali dirette fluide, partecipate ed empatiche con la produzione e circolazione di valori d’uso (materiali e immateriali). Immaginarsi un mondo dove questo comunismo di base possa essere riconosciuto come fondante di tutte le istituzioni a tutte le scale della vita sociale, e che debba essere promosso ed esteso anche nell’ambito di grandi scale della cooperazione sociale, è stato il grande sogno e progetto politico di generazioni.
Possiamo mettere al lavoro questa nozione di comunismo di base, per tracciare qualche distinzione tra destra e sinistra. Chiaramente, destra e sinistra sono qui categorie molto approssimate. Sia la sinistra che la destra storica hanno inglobato dentro di se le caratteristiche dell’altro lato: per esempio, la sinistra l’ossessione per la crescita e la legittimità dell’accumulazione della proprietà privata, e la destra l’accettazione di certe tutele sociali. Fatta questa premessa, mi ha sempre incuriosito il fatto che da anni, almeno dal tempo della “scesa in campo” dell’oligarca Berlusconi, la destra in Italia ha il vizio di tacciare di comunisti tutti coloro che, indipendentemente dalla loro identità politica e ideologica o di appartenenza partitica o religiosa, pensano di alzare le tasse per i ricchi e per le multinazionali per finanziare programmi di welfare, o di pensare a politiche immigratorie che rispondano ai bisogni di accoglienza di migranti disperati che si affacciano sulle nostre coste. La cosa fa sorridere certamente (il Pd è comunista? il papa è comunista?) ma, in un certo senso, essi hanno ragione perché tali politiche – che anche marginalmente allentano lo strangolamento dei bisogni, e allargano i cordoni della borsa pubblica – si fondano anche su un estensione del comunismo di base così come lo abbiamo definito.
Ma nelle loro case, nei loro quartieri, dentro la loro rete familiare, amicale e clientelare, anche molti uomini e donne che si sentono di destra sono comunisti nel senso che abbiamo definito. Sono due però le cose che li contraddistinguono tendenzialmente dai comunisti di base della sinistra.
In primo luogo, la loro è una pratica di comunismo di base dentro confini ben definiti, che non si proietta fuori dal loro mondo. Confini nazionali, regionali, di paese, di appartenenza, di colore di pelle, di accento linguistico, di identità di genere, di attitudini al mercato e al lavoro, e via dicendo, definiscono via via gli ambiti del loro comunismo di base. Il loro comunismo di base è generalmente piccolo e meschino di fronte alla grandiosità, diversità, sfide e meraviglia della vita del nostro mondo in tutte le sue manifestazioni.
In secondo luogo, ciò che distingue fondamentalmente il comunismo di base della destra da quello della sinistra è l’idea di libertà. Per la destra, la libertà è anatema del comunismo di base. Per la sinistra, non c’è vera libertà senza estensione del comunismo di base. Per la destra, la proprietà privata è la base della libertà, che aumenta quanto più grande è il tuo patrimonio, e non importa se l’incremento patrimoniale individuale è necessariamente legato all’indigenza altrui o alla distruzione ambientale. Tutto ciò che anche minimamente sottrae alla proprietà privata e la metta in comune (anche attraverso la forma redistribuiva burocratica dello stato) è lesiva della libertà individuale. Nel nostro mondo dove il fare è appoggiato sul denaro e sulla ricchezza disponibile che definisce la gamma di capacità sociali, tale messaggio è di un’intelligibilità sconcertante, perché è ovvio che quanto più hai quanto più sei libero di comprare e quindi di fare. È sconcertante, perché il costo aggregato di questa libertà del fare poggiata sull’accumulazione di proprietà privata in senso lato (che include la libertà di impresa soprattutto) ricade su tutti e lo vediamo nelle dinamiche quali distruzione ambientale, la crescita della povertà mentre si concentra la ricchezza, le morti sul lavoro e via dicendo. Per la sinistra la base della libertà è – o dovrebbe essere – l’estensione del comunismo di base a sfere sempre più grandi della società, cioè la creazione di un contesto di interazione sociale dentro il quale a tutti sono garantiti la soddisfazione di bisogni vitali, a da tutti ci si aspetta partecipazione alla vita sociale in modo congruente alle proprie capacità. In questo modo, la libertà individuale non è negata, anzi, è potenziata dalla partecipazione di tutti alla creazione di tale contesto. Infatti, quando parliamo di bisogni vitali o partecipazione alla vita sociale in modo congruente alle proprie capacità, apriamo necessariamente il capitolo della politica intesa come processo di continua elaborazione collettiva di quali siano i bisogni vitali dei diversi soggetti nel nostro mondo, e di quali sia il senso di partecipazione congruente alle proprie capacità. Apriamo dunque il capitolo dell’autonomia collettiva, della creazione di comunità, del conflitto sociale, dell’agorá. Il comunismo di base diventa allora non uno stato di cose da instaurare: il fatidico comunismo come fase finale dell’evoluzione sociale nella mitologia classica del marxismo-leninismo. Diventa semplicemente una bussola che ci aiuta ad orientarci nel qui ed ora nella trasformazione del mondo.
Pezzo ripreso da: https://comune-info.net/siamo-tutti-piu-o-meno-comunisti/
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